Utente:Friniate/Modena nella seconda guerra mondiale

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Durante la seconda guerra mondiale, Modena visse i primi anni dopo l'entrata in guerra dell'Italia come città lontana dai teatri di combattimento, sperimentando soprattutto le vicende e le difficoltà del fronte interno e dell'economia di guerra, col progressivo sgretolarsi della presa del regime fascista sulla popolazione. Dopo l'8 settembre 1943 la città vide l'inizio dell'occupazione tedesca e la nascita del fascismo repubblicano. Questo periodo fu caratterizzato inoltre dalla persecuzione antiebraica, che comportò la costituzione del campo di concentramento di Fossoli a pochi chilometri dalla città.

La Resistenza ebbe uno sviluppo lento...

... fino ad arrivare alla Liberazione della città, il 22 aprile 1945.

I primi tre anni di guerra: 1940-1943

L'entrata in guerra dell'Italia del 10 giugno 1940, venne accolta con entusiasmo a Modena e nella provincia solo negli ambienti studenteschi e fascisti, che durante la giornata organizzarono cortei nel capoluogo, a Carpi e a Pavullo. Il resto della popolazione, che aveva generalmente accolto di buon grado la precedente "non belligeranza" e che manteneva un certo scetticismo verso l'alleanza con la Germania, non ebbe particolari reazioni. Le manifestazioni contro la guerra rimasero più che altro simboliche e isolate: il 16 maggio vennero affissi alcuni manifestini in Piazza Roma e alle Fonderie di ghisa malleabile, il 24 maggio vennero inviate lettere dal contenuto antifascista, mentre dopo la dichiarazione di guerra venne fermata una persona e ne vennero diffidate altre quattro, perché avevano criticato Mussolini e l'ingresso in guerra.[1]

Al dicembre 1940, i modenesi arruolati erano circa 20 000, secondo le stime del questore, cui si aggiungevano 7000 militi e ufficiali delle due legioni della Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale: la 72ª Legione "Farini", stanziata nel capoluogo, e la 73ª Legione "Bojardo" di stanza a Mirandola. Un battaglione della 72ª combatterà in Africa Orientale, mentre due battaglioni della 73ª saranno impiegati in Jugoslavia e in Grecia. Altri battaglioni territoriali di militi anziani della 73ª verranno inviati in Toscana per le difese costiere.[2]

Nei primi mesi di guerra, il morale dei soldati nelle lettere inviate dal fronte si manteneva, secondo la Commissione di censura, alto, mentre più distaccato era il tono delle famiglie. In questo primo periodo le lagnanze saranno soprattutto sulla mancata turnazione dei soldati al fronte e sull'esistenza di supposti favoritismi e raccomandazioni. Il morale dell'opinione pubblica si depresse in seguito alla disastrosa campagna di Grecia e all'offensiva britannica in Cirenaica. Le manifestazioni antifasciste aumentarono: tra il gennaio e il giugno 1941 vennero fermate cinque persone, in maggioranza di estrazione popolare, per aver pronunciato frasi "disfattiste" o antifasciste, oltre a un bracciante fermato perché sospettato di aver scritto una lettera antifascista. A Mirandola e a Modena vennero ritrovati ritagli con scritte antifasciste, scritte che iniziarono a comparire anche sui muri, compresi quelli esterni di alcune sedi fasciste. All'interno delle fabbriche iniziarono a comparire scritte inneggianti al comunismo e all'Unione Sovietica.[3]

Nel giugno 1941 l'attacco all'Unione Sovietica galvanizzò i settori anticomunisti dell'opinione pubblica, che nel 1939 avevano guardato con preoccupazione al patto Molotov-Ribbentrop, e avvicinò ulteriormente alla guerra una parte del mondo cattolico.[4] Nonostante le vittorie sul fronte africano e su quello russo, tra 1941 e 1942 aumentava però la stanchezza dei soldati al fronte, così come quella della popolazione civile alle prese con le privazioni dell'economia di guerra e che assisteva al crescere delle disuguaglianze sociali. In questo periodo proseguirono le manifestazioni antifasciste, con scritte sui muri e distribuzioni di volantini, ma si ebbe anche una ripresa di un'attività antifascista organizzata, come testimonia l'arresto di un gruppo di venti persone nel settembre 1942. Nel luglio dello stesso anno vi fu l'apertura dei campi di prigionia di Fossoli e di Modena, destinati a ufficiali e soldati britannici.[5]

A partire dalla seconda metà del 1942 vi fu una preoccupazione sempre maggiore a causa dello sviluppo delle azioni belliche. Nei rapporti di polizia, il morale della popolazione passò dalla "leggera ondata di panico" causata dallo sbarco alleato in Africa occidentale del novembre 1942 allo "stato di depressione" del gennaio 1943 in seguito alla caduta di Tripoli e all'offensiva sovietica sul Don, che aveva comportato anche l'assenza di qualsiasi notizia alle famiglie durante la ritirata italiana. In provincia ai profughi dell'ex Africa Orientale se ne aggiunsero altri provenienti dall'ex colonia libica e anche sfollati da La Spezia e Livorno, questi ultimi in fuga dai bombardamenti. Profughi e sfollati trovarono inizialmente sistemazione in alloggi privati, spesso con affitti onerosi, causati anche dalla scarsità di alloggi che vi sarà in provincia a partire dei primi mesi del 1943, tanto che gli ultimi arrivati dovettero sistemarsi negli alberghi. La situazione militare causava ormai un senso di sfiducia sempre più diffuso anche tra gli stessi fascisti: in maggio cadde la Tunisia, in giugno fu la volta di Pantelleria e Lampedusa, tra il 9 e 10 luglio gli Alleati sbarcavano in Sicilia.[6]

Gli attori politici

Il fascismo modenese

Il Partito Nazionale Fascista era, almeno in apparenza, estremamente solido. Al centro di un ampio sistema di organizzazioni collaterali di massa, la sua azione era di carattere soprattutto "burocratico-assistenziale", oltre a organizzare le manifestazioni esteriori del consenso al regime, come cerimonie, parate, e così via. In provincia di Modena nell'ottobre 1940 era strutturato in 46 fasci locali nella provincia e 11 gruppi rionali nella città di Modena, per un totale di 110 187 iscritti, cui si aggiungevano 108 116 iscritti alla Gioventù Italiana del Littorio. Nell'ottobre 1942 il numero totale di iscritti era aumentato ulteriormente: 128 326 membri del partito e 107 491 iscritti alla GIL.[7]

Dal 21 gennaio 1940 il segretario federale modenese era Franz Pagliani, proveniente dal PNF di Bologna, che mise fine alle lotte intestine che avevano caratterizzato il fascismo modenese nella seconda metà degli anni Trenta. Come accaduto anche in diverse altre province, con Pagliani tornò al potere l'ala dura degli squadristi degli anni Venti, spesso emarginati nei decenni successivi e che ora col periodo bellico tornavano al vertice del partito: erano squadristi infatti anche il segretario cittadino di Modena, Enzo Ponzi, e la quasi totalità dei componenti degli organi federali provinciali. Un esempio della nuova linea politica venne dato già il 23 marzo 1940, quando gruppi di squadristi si misero a controllare per le vie cittadine se gli iscritti al PNF avessero la camicia nera regolamentare, causando incidenti. Questa classe politica rimarrà egemone nel fascismo modenese anche dopo l'avvicendamento di Pagliani con Mario Rizzo alla fine del 1942, e costituirà l'ossatura del fascismo repubblicano dopo l'8 settembre 1943.[8]

Con l'ingresso in guerra il partito ottenne diversi incarichi, anche in campo amministrativo: mobilitazione dei civili, controllo dei prezzi dei generi di prima necessità, assistenza ai soldati, per svolgere i quali mobilitò le sue organizzazioni di massa. Venne così costituito un Centro per la mobilitazione (la cui attività fu però limitata a minori e donne), che a fine 1942 aveva organizzato 44 corsi di avviamento al lavoro per 782 donne e 160 ragazzi. Alla stessa data, secondo le cifre ufficiali, la GIL distribuiva 26 000 pasti giornalieri, oltre a 10 000 razioni in 86 fabbriche; i GUF e il Dopolavoro fascista avevano dato vita a 715 manifestazioni culturali e sportive e avevano distribuito 7989 pacchi per la Befana fascista, 11 600 opuscoli e 27 600 biglietti cinematografici gratuiti per i soldati; mentre l'Istituto di cultura fascista aveva organizzato 637 incontri e conferenze. Notevole fu anche l'impegno dei Fasci femminili, che svolsero soprattutto compiti di assistenza ai militari (vennero inviati 3855 pacchi invernali e 8300 coloniali), ai feriti e ai rimpatriati, oltre a promuovere le pratiche autarchiche dell'economia di guerra domestica, come gli orti di guerra e l'allevamento dei bachi da seta. Nonostante i numeri però, l'attività assistenziale e amministrativa del PNF fu largamente inefficiente, corrotta, clientelare e in generale incapace di rispondere alle necessità della popolazione, tanto da costringere nel corso dei mesi successivi a ridare alla macchina amministrativa statale molte delle funzioni precedentemente affidate al partito.[9]

Il mondo cattolico

Il mondo cattolico modenese ebbe nei primi anni di guerra un atteggiamento sfaccettato. Nonostante gli inviti vaticani alla prudenza, il vescovo di Modena Cesare Boccoleri fu un convinto sostenitore della guerra e del fascismo, soprattutto a partire dal giugno 1941, con l'inizio della "guerra di religione" contro il "bolscevismo". L'orientamento del vescovo ebbe conseguenze sull'azione dei parroci, nonostante alcuni di loro fossero ostili al regime: nelle relazioni della Questura del 1940-41 venivano mossi "rilievi" soltanto ad alcuni parroci dell'Appennino. Il ruolo del clero in questo periodo tuttavia crebbe soprattutto a livello sociale, divenendo il punto di riferimento e di conforto per i soldati richiamati e per le loro famiglie, e per queste ultime l'unica fonte di informazione sui congiunti prigionieri o dispersi. Le incertezze della guerra provocarono poi un incremento della pratica religiosa nella popolazione.[10]

L'Azione Cattolica, impegnata ancora nel 1939 in un duro confronto col regime sui distintivi, svolse in questi anni un'azione limitata rigorosamente al solo ambito religioso, anche se è in questo periodo che molti giovani dell'Azione Cattolica e della FUCI maturarono le riflessioni che li porteranno ad assumere posizioni antifasciste a partire dal 1943. Scopertamente antifascista già in questo periodo fu invece l'atteggiamento di don Zeno Saltini, parroco di San Giacomo Roncole e fondatore dell'Opera dei piccoli apostoli, che venne richiamato e convocato in questura per aver tenuto discorsi contro la guerra e a favore delle lotte sindacali.[10]

I partiti antifascisti

L'antifascismo italiano allo scoppio della guerra mondiale era in una profonda crisi. Nel 1939, secondo una relazione del prefetto, i "sovversivi" modenesi erano 1630, dei quali 272 schedati, 26 al confino e 360 emigrati. Nei primi tre anni di guerra saranno mandati al confino altri 47 antifascisti modenesi: 12 per organizzazione comunista, 10 perché ex combattenti repubblicani in Spagna, 10 per propaganda antifascista, 6 per "disfattismo", 6 per offese al Duce e al regime e 3 per atti contro il regime. Si trattava però quasi sempre di azioni individuali e disorganizzate.[11]

In provincia di Modena l'unica organizzazione antifascista rimasta ancora attiva allo scoppio della guerra era il Partito Comunista. Nel capoluogo era stato riorganizzato a partire dal 1939 da Luigi Benedetti, che aveva riunito nuovi militanti al vecchio gruppo dei Mulini Nuovi. Al settembre 1940 il gruppo contava 179 iscritti, e orientò la propria attività soprattutto alle fabbriche cittadine e in quelle di Spilamberto e Sassuolo (mentre non spese grandi energie per il mondo rurale). Contemporaneamente si era organizzato un altro gruppo comunista nel capoluogo, ma senza contatti né con Benedetti né con la struttura del PCd'I. A nord della Via Emilia erano attivi gruppi comunisti a Novi, Concordia e San Possidonio, oltre a quello di Carpi, Limidi e Soliera, che era stato gravemente colpito da un'ondata di arresti nell'ottobre 1939. A differenza di quello di Modena, quest'ultimo era prevalentemente di estrazione contadina e solo con difficoltà era entrato nella Magneti Marelli di Carpi. Infine esisteva un gruppo comunista a Castelfranco. Il PCd'I era gravato, almeno fino al 1941, da una certa confusione ideologica dettata dal Patto Molotov-Ribbentrop, anche se il peso fu sicuramente inferiore che tra gli antifascisti in esilio, a causa delle pressanti necessità della clandestinità. I problemi più gravi per i comunisti modenesi erano però l'assenza un solido gruppo dirigente provinciale riconosciuto e le difficoltà ad affrontare efficacemente il ricambio di manodopera nelle fabbriche, causato dalla guerra e dall'ingresso in fabbrica dei giovani e delle donne.[12]

Tra 1941 e 1942 si aggiunse tra i partiti attivi clandestinamente in provincia anche il Partito d'Azione. A Modena si costituì attorno al professore Carlo Ludovico Ragghianti e a due vecchi militanti antifascisti, Ennio Pacchioni e Albano Franchini. A Mirandola invece nacque per iniziativa di due professori bolognesi che insegnavano al liceo e che coinvolsero alcuni studenti. Alla vigilia del 25 luglio 1943 gli attivisti in provincia erano una trentina, presenti anche a Formigine, Sassuolo e Pavullo.[13]

L'economia di guerra

Commercio e razionamento

Già a partire dall'ottobre 1939, come nel resto d'Italia, furono applicate alcune misure di austerità, con limitazioni alla circolazione delle automobili, limitazioni agli orari dei negozi, divieto del ballo e della vendita nei bar di caffè.[14] Quest'ultima bevanda fu anche la prima ad essere razionata a partire dal maggio 1940 assieme allo zucchero (con una quota di 500 grammi mensili pro capite). Dal luglio 1940 si iniziò a produrre un solo tipo di pane, con all'interno molta crusca. Da ottobre vennero razionati i grassi, usati nell'industria bellica, con quote mensili fissate a 300 grammi di burro e mezzo litro d'olio pro capite. Nel razionamento venne inclusi anche lardo, strutto e sapone, così come la carne. Dal 1° gennaio 1941 poi venne posto un tetto massimo complessivo al consumo totale di pane, farina e riso, fino ad arrivare al razionamento anche del pane, in vigore dal 1° ottobre 1941, razionato inizialmente in 200 grammi giornalieri pro capite (400 per i lavoratori di fatica).[15][16]

Se il peggioramento della qualità del pane aveva portato a partire dall'estate 1940 alle prime diffuse lamentele, nella primavera del 1941 si ebbero le prime proteste di donne contro i ritardi nella distribuzione dei grassi e della carne. Tali ritardi diverranno ben presto cronici, a causa sia della scarsità di trasporti ferroviari e carburante per i veicoli, sia della corruzione interna al sistema annonario e della sua disorganizzazione, che faceva sì ad esempio che prodotti (come il burro) che Modena produceva in misura maggiore di quanto ne consumasse, fossero in realtà destinati interamente ad altri luoghi, facendo quindi dipendere a sua volta l'approvvigionamento modenese da altre province. Il fenomeno dei ritardi fu particolarmente grave in Appennino, i cui abitanti iniziarono ad andare in Toscana per ottenere olio e altre merci introvabili, ma in tutta la provincia le donne saranno sempre più costrette a lunghi spostamenti o a ore di code per potersi procurare quanto concesso dalla tessera. Nelle campagne iniziarono ad esservi episodi di furti di carne e grassi animali, spesso da parte di militari di passaggio. Fu però con l'introduzione del razionamento del pane, la cui qualità peraltro era ulteriormente peggiorata a causa dell'uso di farina di mais, che le proteste si intensificarono. Il giorno dell'introduzione del razionamento, il 1° ottobre 1941, vi furono scioperi, seguiti da cortei verso i municipi, a Soliera, Mirandola e Sassuolo, che si conclusero con la concessione di razioni aggiuntive (ma nel caso sassolese anche col licenziamento di 11 dipendenti della Marazzi, tra cui Norma Barbolini). Nei mesi successivi la situazione peggiorò ulteriormente, e iniziarono a scarseggiare anche uova, patate, cuoio e pelli, legna, carbone, lana e il combustibile per le lampade a petrolio. La scarsità di cibo comportava ormai vari casi di deperimento fisico, specie tra le classi popolari.[17] Nel corso del 1943 la miscela del pane divenne addirittura insalubre, a causa dello sviluppo di muffe nei magazzini di diversi ammassi, causando diffusi problemi di salute.[18]

L'esito dell'incapacità del sistema di razionamento di fornire la quantità di cibo necessaria alla popolazione, fu lo sviluppo del mercato nero. Nonostante fin dal settembre 1939 fossero state costituite le "squadre annonarie", col compito di vigilare sul rispetto delle norme del razionamento, già a fine 1940 iniziarono a essere segnalati dal questore innumerevoli casi in cui il prezzo effettivo veniva contrattato a un valore superiore a quello legale, anche da parte di grandi industrie alimentari. Nel corso del 1941 il fenomeno ebbe un salto di qualità, dando vita a un vero e proprio mercato parallelo di grandi proporzioni, che in parte si sostituì a quello legale. In questa situazione molti tra commercianti, imprenditori, agrari, funzionari e dirigenti di partito trovarono grandi occasioni di arricchimento personale. Le contromisure adottate furono generalmente inefficaci e in certi casi addirittura controproducenti, come la diminuzione per decreto dei prezzi di frutta e verdura del 20%, attuata nel luglio 1941, che ebbe il solo effetto di far scomparire dai mercati della provincia anche questi generi, alimentando ulteriormente il mercato parallelo.[19] Nel maggio 1943 invece venne decisa la chiusura di 158 mulini secondari per contrastare le macinazioni clandestine. Ciò ebbe effetti soprattutto nell'area appenninica, costringendo gli agricoltori a percorrere distanze più lunghe e a fare più viaggi. Vi furono così due proteste: il 19 giugno una trentina di contadini impedirono l'apposizione dei sigilli a un mulino nel comune di Lama Mocogno, causando tre denunce, mentre tre giorni dopo sempre nello stesso comune circa 60 contadini chiesero in municipio la riapertura di un altro mulino.[20]

Il settore finanziario modenese nei primi anni di guerra vide uno sviluppo. Se da un lato le incertezze su un'eventuale svalutazione della lira o su un possibile prelievo forzoso sui conti correnti avevano determinato un aumento degli investimenti in terreni e immobili, i cui prezzi aumentarono sensibilmente, dall'altro lato però aumentarono anche i depositi. L'aumento fu generalizzato e interessò sia i depositi bancari, sia i conti postali. A testimonianza della ricchezza diffusa in provincia, ancora nell'ottobre 1942 un'emissione di buoni del tesoro raccoglieva la notevole cifra di 100 milioni di lire.[21]

Agricoltura e allevamento

Durante il periodo bellico, la politica agricola fascista si basò sul sistema degli ammassi, magazzini comuni dei prodotti agricoli che avrebbero dovuto garantire, tramite il sistema del razionamento, una distribuzione equa per tutti.[22] A questo si aggiunsero altre misure volte a mantenere inalterata la produzione agricola, come la proroga delle locazioni mezzadrili e il blocco degli escomi per le famiglie di soldati arruolati.[23] In provincia di Modena i raccolti di frumento nei primi tre anni di guerra furono altalenanti. Rispetto alla quota record di 1 131 000 quintali raccolti nel 1939, nel 1940, nonostante un aumento della superficie destinata a grano, furono raccolti appena 876 000 quintali di grano a causa di condizioni meteorologiche sfavorevoli. Nel 1941 la quantità di raccolti tornò ad aumentare, raggiungendo i 900 000 quintali, tornando però a scendere nel 1942, quando si attestò a 874 000 quintali. La quantità di frumento che raggiunse gli ammassi fu di 450 000 quintali nel 1939, scese a 300 000 quintali nel 1940, risalì a 320 000 quintali nel 1941 (di cui metà fu inviata ai vari fronti) e aumentò ulteriormente nel 1942, raggiungendo i 345 000 quintali. Lo sforzo del 1942 tuttavia avverrà anche a costo di una ridotta quantità di frumento lasciata ai contadini.[24] Molto peggio andò la produzione di uva, condizionata fin dal 1940 dalla scarsità di solfato di rame e di fil di ferro, che nel primo anno di guerra rese solo il 40% rispetto all'anno precedente. Nel 1942 un'epidemia di peronospera (contro la quale gli anticrittogamici autarchici si rivelarono inefficaci) dimezzò ulteriormente la produzione. Per quanto riguarda le altre produzioni, i primi tre anni di guerra videro un calo della produzione di canapa e barbabietole da zucchero, un aumento di riso e patate (che però furono perlopiù usate dai contadini per il proprio autoconsumo), mentre la frutta rimase redditizia grazie alla forte domanda del mercato tedesco.[25]

Complessivamente il sistema non solo non riuscì nel suo intento dichiarato di garantire cibo a sufficienza per tutti, ma risultò anche decisamente gravoso per contadini diretti e mezzadri. Questi ultimi infatti da un lato si vedevano imposte quote di consegna che a partire dal 1942 non lasciavano loro cibo a sufficienza per sé e per le proprie famiglie, oltre che per la semina dell'anno successivo.[26] Dall'altro lato la scarsità di animali da tiro e carburanti li costringeva a un aumento dei carichi di lavoro, già aumentati dall'arruolamento di tanti giovani (che solo se di stanza nella penisola potevano ottenere licenze agricole). A ciò si aggiungevano i prezzi elevati dei prodotti industriali e il continuo aumento delle imposte.[27] Per questi motivi vi fu da parte delle famiglie contadine una generalizzata evasione delle quote, sia per mantenere una quantità sufficiente di frumento per l'autoconsumo e la semina, sia per vendere una certa quantità di beni razionati al mercato nero.[26] La propaganda del regime usò questo ricorso al mercato nero per tentare di addebitare ai contadini la scarsità di cibo nelle città.[27]

La situazione non era migliore nel campo dell'allevamento. Qui esisteva un sistema simile a quello degli ammassi, detto dei "raduni", dove gli allevatori portavano gli animali che venivano poi macellati e distribuiti tramite il sistema del razionamento. Il numero di consegne ai raduni, dopo un inizio faticoso nel 1940 si mantenne elevato nel 1941-42 sia per i bovini che per i suini. Per i primi, su una popolazione provinciale che nel 1938 era pari a 214 212 capi, al primo raduno degli ultimi mesi del 1940 ne vennero consegnati 15 000 (altri 5000 erano stati acquistati per altre vie), ossia solo la metà di quanto richiesto dalle autorità, a causa del fatto che gli ultimi mesi dell'anno corrispondevano al periodo in cui le mucche partorivano. Le consegne ripresero nella primavera 1941, arrivando a 57 000 vitelli tra marzo e giugno, mentre a luglio 1940 gli adulti consegnati nei 12 mesi precedenti avevano raggiunto quota 41 000. Lo stesso trend si mantenne invariato anche nel 1942. Un tale numero di consegne era dovuto soprattutto alla scarsità delle assegnazioni di granoturco (destinato ora anche al consumo umano), fieno e paglia, ragion per cui gli allevatori preferivano disfarsi dei capi. Ciò ebbe naturalmente conseguenze sulla produzione di latte, che a partire dal 1942 fu insufficiente per coprire il consumo della provincia. Lo stesso discorso valse per i suini: fino ai primi mesi del 1941 le consegne ai raduni rimasero basse a causa del basso prezzo accordato, portando all'aumento di macellazioni famigliari. Le autorità a loro volta intervennero requisendo tutti i grassi suini eccedenti una certa quota per famiglia. Nel corso del 1941 le consegne finalmente aumentarono, sia per un innalzamento dei prezzi di vendita, sia per una ormai estrema scarsità di mangimi. Ciò comportò che a fine 1942 della popolazione d'anteguerra di 130 849 capi ne rimanevano ormai solo 65 861.[28] Rimase infine scarsa anche la produzione di uova.[27]

L'industria

Tradizionalmente il settore principale nell'industria modenese era costituito da quello alimentare, anche se l'azienda con più occupati era la Manifattura Tabacchi, con 1500 tabacchine. Dal 1929 però si stava sviluppando anche il settore metalmeccanico, che nel corso degli anni Trenta seppe collegarsi all'industria bellica. Con lo scoppio della guerra questo settore vide naturalmente un ulteriore sviluppo, in molti casi riconvertendo la propria produzione: lo stabilimento OCI-FIAT (738 addetti nel 1940) passò alla produzione di mezzi militari, bombe e lancifiamme, aprendo anche un secondo stabilimento nel 1942 con 620 dipendenti. Nel luglio 1941 divennero stabilimenti ausiliari del Ministero della produzione bellica l'Auto Avio Costruzioni di Enzo Ferrari (230 occupati, riconvertita alla produzione di motori di aereo e macchine utensili), le Fonderie di ghisa malleabile (280 dipendenti) e le officine Maserati (630 addetti, rìconvertite anch'esse alla riparazione di mezzi militari, oltre a produrre candele per auto e accumulatori). A Carpi nel 1939 aveva aperto uno stabilimento Magneti Marelli per apparecchiature elettriche, con 700 occupati, mentre lo stabilimento Sipe di Spilamberto, che costruiva esplosivi, con lo scoppio del conflitto passò dai 1500 dipendenti del 1939 ai 5000 del 1943. Completavano il quadro dell'industria metalmeccanica modenese la Corni, le Acciaierie e Ferrerie, le officine Martinelli e Giusti, la carrozzeria Orlandi e la Valdevit, tutte nel capoluogo. Queste ultime, non direttamente collegate all'industria bellica, risentirono di alcune difficoltà nel procurarsi materie prime, mentre dal 1942 la scarsità di energia elettrica obbligherà tutte le fabbriche alla sospensione dell'attività al lunedì e quelle più energivore alla sospensione di due giorni a settimana (lavorando però la domenica).[29]

Se la guerra aveva portato a un grande sviluppo della meccanica, diverso fu però il discorso in altri settori. L'edilizia cadde in forte crisi a causa delle limitazioni imposte e alla difficoltà di reperire ferro e cemento, trovando qualche sbocco solo nell'ampliamento di edifici militari. Il distretto carpigiano del truciolo patì la chiusura dei propri mercati di esportazione (Francia e Stati Uniti) e la crisi di quello balcanico, anche se alcune aziende seppero riconvertirsi alla produzione di reti mimetiche, mentre l'azienda "Il Truciolo" divenne succursale della Manifattura Tabacchi. L'industria alimentare risentì infine delle difficoltà del settore agricolo. Complessivamente in ogni caso il numero di occupati nell'industria modenese passò dai 10 000 operai del 1936 ai 30 000 del 1941 per arrivare a 40 000 nel 1944, mentre l'industria meccanica passò da 3586 occupati nel 1938 a 7852 nel 1941.[30]

Questi nuovi operai erano in gran parte giovani di estrazione rurale, provenienti dai paesi nei dintorni del capoluogo, e donne. La quota di neoassunti nelle fabbriche fu in realtà ancora maggiore della mera differenza assoluta tra occupati prima e durante la guerra, poiché molti operai, anche specializzati, erano stati richiamati al fronte, rendendo quindi necessaria la loro sostituzione. La situazioni che questi nuovi operai trovarono nelle fabbriche era molto dura. Alla OCI-Fiat ad esempio, dopo che con l'entrata in guerra si era già passati a una produzione continua con tre turni da 8 ore ciascuno, a fine 1940 si passò a due turni da dieci ore. Ciò comportò spesso svenimenti a fine turno per molti operai, debilitati nel fisico dalla malnutrizione determinata dalle difficoltà del razionamento e spesso anche dai lunghi spostamenti in bicicletta per arrivare al luogo di lavoro.[31] Da parte di aziende e autorità fasciste si cercò di far fronte a questo problema mediante l'istituzione di spacci e mense aziendali (al 1943 saranno 130), che rimarranno però largamente insufficienti per sfamare l'intera popolazione operaia, mentre gli innalzamenti salariali non coprivano la crescente inflazione.[32] Le industrie ausiliarie inoltre erano sottoposte direttamente alla giustizia militare: l'assenza ingiustificata per più di 5 giorni (dal 1943 per più di un giorno), l'insubordinazione o la disubbidienza ai superiori e ovviamente l'ostruzionismo e il sabotaggio, erano reati puniti dai tribunali militari.[33]

Proteste operaie e emigrazione

Le difficili condizioni nelle fabbriche e nella vita quotidiana portarono a diverse proteste nei primi tre anni di guerra, generalmente rivolte alla difesa del posto di lavoro, all'aumento del salario e delle razioni di cibo. Come già negli anni Trenta, gran parte delle proteste fu a larga prevalenza femminile. Le prime avvennero nel Carpigiano, segnato dalla crisi dell'industria del truciolo. Nell'agosto 1940 presso la ditta Menotti, riconvertita alla produzione di reti mimetiche, vi fu una grossa protesta dopo il licenziamento di 600 operaie. Ne seguirono scontri con la polizia che comportarono 6 arresti, anche se le operaie saranno riassunte, venendo tuttavia nuovamente licenziate due mesi dopo. Altre proteste nel Carpigiano avverranno successivamente sempre per aumenti salariali: è il caso di uno sciopero di un centinaio di mondariso nel giugno 1941 e del minacciato sciopero di operaie in una fabbrica locale nel settembre 1942. Nel Sassolese invece, dopo un primo sciopero alla Marazzi nel febbraio 1941 contro le multe, vi furono agitazioni legate soprattutto alle razioni: oltre alla già citata protesta del 1° ottobre 1941, nel luglio 1942 a Fiorano vi fu un altro corteo di fornaciaie presso il municipio per chiedere un aumento della razione di pane. L'episodio più rilevante di protesta operaia in questi anni però fu lo sciopero presso la Sipe dal 5 al 7 giugno 1941, provocato dalla tentata riduzione di 5 centesimi l'ora del salario (che era pari a 1 lira e mezzo l'ora). Il giorno di paga, anche grazie all'azione di una cellula comunista, 300 operaie scioperarono chiedendo invece un aumento di 30 centesimi l'ora. Il giorno dopo le scioperanti aumentarono a un migliaio, finché il 7 giugno carabinieri e fascisti le costringeranno a tornare al lavoro. Alle operaie venne riconosciuto un aumento di 15 centesimi, ma 122 di loro verranno licenziate e 204 sospese, mentre 9 vennero denunciate e tre arrestate.[34]

Non ebbero invece alcun seguito nel Modenese gli scioperi avvenuti nel triangolo industriale nel marzo 1943, sia a causa dell'assenza a Modena di una forte tradizione di proletariato industriale, sia per la debolezza delle cellule comuniste. Rispetto ai mesi precedenti si assistette però a una recrudescenza della repressione del regime: un nuovo sciopero alla Menotti di Carpi per un innalzamento del salario venne represso senza concessioni, mentre il 19 maggio intervenne una squadra fascista al salumificio Montorsi di Casinalbo, dopo che il giorno prima gli operai avevano chiesto al proprietario un aumento di stipendio. Gli squadristi costrinsero il fiduciario di fabbrica a bere l'olio di ricino e malmenarono altri quattro operai, causando uno sciopero di protesta il giorno successivo.[35]

Un altro effetto della guerra fu la progressiva scomparsa del fenomeno della disoccupazione, che per tutto il Ventennio era stata endemica, soprattutto tra i braccianti agricoli. Infatti se ancora nel luglio 1940 i disoccupati nella provincia erano 20 000, aumentati ulteriormente nei mesi successivi a causa della fine dei lavori agricoli e della crisi di edilizia, ceramiche e industria del truciolo, nell'ottobre 1941 erano scesi a 8400, per calare ulteriormente a 4000 nel 1942 (in gran parte donne nel Carpigiano). Questo sviluppo fu dovuto in parte agli arruolamenti e all'espansione del settore metalmeccanico, ma soprattutto all'emigrazione in Germania. Dal 1938 infatti il regime organizzava, su base volontaria, flussi di lavoratori da inviare presso l'alleato per un certo periodo (di solito una stagione agricola, ma vi era anche chi rimaneva più a lungo), col doppio scopo di diminuire la disoccupazione e rafforzare l'economia locale grazie alle rimesse. Nel 1939 erano emigrati 4000 braccianti, che divennero più di 4700 l'anno successivo, calando negli anni seguenti (2800 nel 1941, 1100 nel 1942), sia per il progressivo esaurimento della disoccupazione, sia per il veloce peggioramento delle condizioni di vita e di lavoro nelle città teutoniche. La Germania inoltre tentò di attrarre anche manodopera industriale: se da un lato assorbì la disoccupazione degli edili (ne emigrarono 476 nel 1940 e più di mille nel 1941), d'altra parte nel 1941 richiese 5000 operai metalmeccanici specializzati, dei quali è certo ne siano partiti almeno la metà.[36]

La quasi piena occupazione raggiunta tra 1942 e 1943 portò a sua volta dinamiche di aumento salariale, con le industrie che si contendevano gli operai rimasti offrendogli salari migliori, cosa che spinse le autorità a intervenire per costringere aziende e operai a diminuirli nuovamente ai livelli previsti dai contratti collettivi nazionali. Tuttavia prefetti e sindacati fascisti, a causa della scarsità di manodopera nelle campagne, impedivano anche l'afflusso nelle fabbriche di braccianti agricoli e contadini alla ricerca di salari migliori, imponendo ad esempio nel giugno 1942 il licenziamento di 14 mondine assunte in una fabbrica del Carpigiano.[37]

Il periodo badogliano

La caduta del fascismo, avvenuta il 25 luglio 1943, provocò spontanee manifestazioni di giubilo in tutto il paese, ineggianti al Re Vittorio Emanuele e a Badoglio. Tali manifestazioni erano dovute da un lato dalla convinzione che sarebbe giunta presto la pace, e dall'altro dall'ormai diffusa stanchezza nei confronti del regime. A Modena vi fu un primo comizio la mattina del 26 luglio, tenuto dall'ex popolare Giacomo Ravazzini, con l'autorizzazione delle autorità. Nel pomeriggio segui un corteo dei partiti antifascisti. Dimostrazioni analoghe vi furono in diversi centri della pianura (Soliera, Carpi, Limidi, Novi, Mirandola, Finale, Concordia, Vallalta) e nelle aree industriali (Sassuolo e Spilamberto). A Carpi un soldato uccise un operaio, Riccardo Bonetti, mentre quest'ultimo tentava di avvicinarsi alla casa di un noto fascista locale. A Portile venne incendiata la locale Casa del Fascio.[38]

Il nuovo governo tuttavia ben presto si prodigò per evitare ulteriori manifestazioni popolari, nel timore di azioni dei partiti antifascisti "sovversivi" e di sommovimenti rivoluzionari. A Modena il controllo dell'ordine pubblico passò di fatto al comandante dell'Accademia militare di Modena, il generale Matteo Negro, che il 29 luglio, seguendo le disposizioni del governo di tre giorni prima, ordinava alle proprie truppe di aprire il fuoco "a distanza e senza preavviso" contro chi "perturbava l'ordine pubblico", fucilando i "caporioni od istigatori di disordini" se colti in flagranza. Il giorno precedente a Modena, in seguito a voci su un prossimo raggiungimento della pace, avevano scioperato i lavoratori di Acciaierie e Ferrerie, Maserati, Fonderie riunite, Fiat Grandi Motori, Auto Avio Costruzioni e dell'oleificio Benassati, e in questi due ultimi casi erano stati fermati dei lavoratori che avevano incitato altri allo sciopero. In provincia vi erano state astensioni dal lavoro a Mirandola (Zuccherificio e officine Focherini, Montorsi e Parenti), ma soprattutto alla Sipe di Spilamberto, dove 2500 operai e operaie erano usciti in corteo, venendo fermati da carabinieri e esercito, che all'ordine di far fuoco avevano sparato in aria, evitando così una strage, come invece era accaduto nella vicina Reggio. Vennero però arrestati 8 operai, mentre tre antifascisti dovettero darsi latitanti perché ricercati.[39] Il 30 luglio, in seguito alla diffusione di un suo "Appello ai padri di famiglia della Bassa modenese", in cui condannava il fascismo, invitava all'impegno politico e annunciava un suo discorso pubblico, don Zeno Saltini venne arrestato. Dopo che una folla popolare si era minacciosamente raccolta davanti alla caserma dei carabinieri di Mirandola, il curato fu rilasciato e poté tenere la sua conferenza.[40]

Contemporaneamente però il governo badogliano avviò anche, sebbene lentamente e solo parzialmente, un'epurazione nei confronti degli esponenti del passato regime. Il 2 agosto 1943 venne disciolto il Partito Nazionale Fascista, assieme al Gran Consiglio del Fascismo e alla Camera dei Fasci e delle Corporazioni.[41][42] A livello locale vennero svolte perquisizioni nelle case di alcuni ex squadristi, senza particolari risultati, e furono avviate alcune inchieste sulle ricchezze incamerate da ex esponenti del regime. Vennero rimossi una decina di podestà e il 21 agosto il prefetto Vincenzo Vella venne sostituito da Luciano Di Castri, ma rimasero invece al proprio posto questore e comandante dei carabinieri. I fascisti non reagirono, tra gli squadristi alcuni fecero perdere le proprie tracce, mentre altri tentarono di mantenere i propri posti, attirandosi però spesso le ire della popolazione, che premeva per un'epurazione più incisiva, specie nei confronti degli ex squadristi e dei sindacalisti fascisti. A inizio agosto le relazioni dei carabinieri suggerivano la rimozione di fiduciari sindacali a San Cesario sul Panaro, Spilamberto, Campogalliano, San Felice sul Panaro e a Finale Emilia. Il 17 agosto gli operai della Fiat Oci scioperarono per il licenziamento degli ex squadristi (con successo), mentre lo stesso giorno le tabacchine della Manifattura Tabacchi ottennero l'allontamento dell'ex fiduciario di fabbrica e di ex squadristi.[43]

Una cesura più netta avvenne soltanto nel giornale locale, la Gazzetta dell'Emilia. Qui l'ex direttore fascista, Rodolfo Monti, fuggì, venendo sostituito provvisoriamente da Umberto Reverberi Riva, che si mantenne su una linea di estrema prudenza, limitandosi a ripubblicare i comunicati ufficiali e a sostenere genericamente la linea del governo e delle autorità militari. Il 20 agosto il Ministero della Cultura Popolare designò come nuovo direttore un antifascista, Erminio Porta, che si mantenne su una linea di approvazione del governo, vedendosi però comunque censurare alcuni articoli.[44]

La difficile ripresa delle attività politiche e sindacali

Il 25 luglio diede il via anche alla riorganizzazione dei partiti antifascisti, dopo vent'anni di dittatura e attività o clandestina o all'estero. I partiti rimasero in realtà in uno stato di semi-clandestinità: il governo infatti non li legalizzò, non permise la riapertura di sedi, la pubblicazione di giornali, l'organizzazione di manifestazioni, o persino l'uso di simboli di partito, instaurando però allo stesso tempo una parziale collaborazione, soprattutto in ambito sindacale.[45][46]

I primi a muoversi furono i comunisti, che il 27 luglio diffusero un volantino in cui si chiedeva la fine della guerra, la liberazione dei prigionieri politici, la costituzione di un nuovo governo popolare e che invitava i soldati a disertare.[44] Il giorno successivo a Modena nacque, come in altre città italiane, un primo comitato di partiti antifascisti, denominato Comitato Italia Libera e costituito da comunisti (PCI), azionisti (PdA) e socialisti (PSIUP). Quest'ultimo partito era stato ricostituito in provincia appena due giorni prima, con la nomina a segretario di Gaetano Bertelli, ex consigliere comunale socialista. L'iniziativa ebbe seguito anche a livello locale a Nonantola e Mirandola, mentre a Sassuolo l'avvocato cattolico Stefano Mussini promosse un "patto di riconciliazione" tra fascisti e antifascisti. Il Comitato modenese pubblicò un manifesto molto più moderato di quello comunista di qualche giorno prima, in modo da tentare di instaurare un dialogo con le autorità militari: il comunicato si limitava infatti a chiedere punizioni nei confronti dei fascisti e la liberazione dei prigionieri politici, mentre giustificava alcune delle misure di ordine pubblico prese dalle autorità. Le trattative tra antifascisti e il generale Negro ebbero luogo tra 4 e 5 agosto, ma senza ottenere alcun risultato. Al contrario, vi fu l'arresto dell'avvocato antifascista Gatti per "vilipendio delle forze armate", e la polizia ostacolò la diffusione del manifesto del Comitato (autorizzato dallo stesso generale), arrivando a fermare lo stesso Ennio Pacchioni. Secondo lo storico Claudio Silingardi il Comitato quindi non riuscì a svolgere un effetttivo ruolo di pressione, né a proporsi come referente credibile nella società modenese, venendo anzi usato dai militari per controllare il mondo antifascista. Permise però la nascita di contatti personali tra gli esponenti dei diversi partiti antifascisti, che faciliteranno in seguito il formarsi dei CLN.[47]

A metà agosto dal triangolo industriale ebbe inizio una nuova ondata di scioperi politici per chiedere la fine della guerra, che in questo caso ebbero un'eco anche a Modena: il 18 agosto 1943, 250 operai si astennero dal lavoro presso lo stabilimento Giusti. I dirigenti chiamarono i carabinieri, che arrestarono i membri della commissione interna, i quali verranno deferiti per direttissima al Tribunale militare di Bologna, che li condannerà a un anno e 6 mesi di carcere. Il Comando militare a questo punto vietò completamente gli scioperi, minacciando di deferire alla giustizia militare chiunque si astenesse dal lavoro, cosa che portò il Comitato Italia Libera a rompere ogni contatto con il generale. Queste misure misero effettivamente fine alle agitazioni operaie fino alla fine dei "quarantacinque giorni". Anche le nuove commissioni interne, che in questo periodo vennero elette in diverse grandi fabbriche, e che al proprio interno videro entrare diversi militanti comunisti, non si posero obiettivi di mobilitazione politica, ma si dedicarono solo a temi aziendali.[48]

A fine agosto iniziarono a diffondersi voci su un aumentato dispiegamento delle truppe tedesche in provincia. Il Comitato Italia Libera decise di incontrare nuovamente il generale Negro, chiedendo ripetutamente, tra il 2 e il 7 settembre, la distribuzione di armi a civili volontari per contribuire a far fronte a un possibile attacco dell'alleato, ricevendo tuttavia rassicurazioni sul fatto che la situazione fosse sotto controllo.[49]

8 settembre

La notizia dell'armistizio tra l'Italia e le forze alleate, data alla radio da Pietro Badoglio nella serata dell'8 settembre 1943, portò a festeggiamenti in tutta la provincia, per quella che venne inizialmente considerata la fine della guerra: vennero suonate le campane, nell'Appennino vennero accesi dei falò, mentre a Sassuolo vi fu un corteo con la banda del paese. I festeggiamenti a Modena erano avvenuti addirittura già la mattina: si era diffusa infatti la falsa notizia dell'armistizio, provocando l'uscita in strada degli operai della Fiat Grandi Motori.

Immediatamente però giunse la reazione tedesca.

Prime reazioni

L'occupazione tedesca

Il fascismo repubblicano

Disorientamento popolare

La nascita della Resistenza e il CLN

Note

  1. ^ Silingardi 1998, pp. 31-33
  2. ^ Silingardi 1998, p. 33
  3. ^ Silingardi 1998, pp. 34-36
  4. ^ Silingardi 1998, pp. 30-31, 36-37
  5. ^ Silingardi 1998, pp. 39-41
  6. ^ Silingardi 1998, pp. 93-95, 99-100
  7. ^ Silingardi 1998, pp. 42-43
  8. ^ Silingardi 1998, pp. 44-45, 47-48
  9. ^ Silingardi 1998, pp. 46-47
  10. ^ a b Silingardi 1998, pp. 37-39
  11. ^ Silingardi 1998, pp. 48-50, 53
  12. ^ Silingardi 1998, pp. 50, 54-55
  13. ^ Silingardi 1998, pp. 56-57
  14. ^ Silingardi 1998, p. 31
  15. ^ Il razionamento e la carta annonaria, su bibliotecasalaborsa.it.
  16. ^ Silingardi 1998, pp. 59-61
  17. ^ Silingardi 1998, pp. 59-66
  18. ^ Silingardi 1998, pp. 97-98
  19. ^ Silingardi 1998, pp. 62, 66-69
  20. ^ Silingardi 1998, p. 98
  21. ^ Silingardi 1998, pp. 69-70
  22. ^ Silingardi 1998, p. 66
  23. ^ Silingardi 1998, p. 72
  24. ^ Silingardi 1998, pp. 73-74
  25. ^ Silingardi 1998, pp. 78-79
  26. ^ a b Silingardi 1998, pp. 74-75
  27. ^ a b c Silingardi 1998, pp. 79-80
  28. ^ Silingardi 1998, pp. 75-78
  29. ^ Silingardi 1998, pp. 80-83
  30. ^ Silingardi 1998, pp. 82-83
  31. ^ Silingardi 1998, pp. 82-85
  32. ^ Silingardi 1998, p. 96
  33. ^ Silingardi 1998, p. 85
  34. ^ Silingardi 1998, pp. 85-87
  35. ^ Silingardi 1998, pp. 95-96
  36. ^ Silingardi 1998, pp. 88-92
  37. ^ Silingardi 1998, p. 97
  38. ^ Silingardi 1998, pp. 100-102
  39. ^ Silingardi 1998, pp. 104-105
  40. ^ Silingardi 1998, p. 101
  41. ^ Soppressione del Partito nazionale fascista, in Gazzetta Ufficiale del Regno d'Italia, 5 agosto 1943. URL consultato il 24 gennaio 2024.
  42. ^ Partito nazionale fascista - PNF, 1921 - 1943, su sias.archivi.beniculturali.it, Istituto centrale per gli archivi.
  43. ^ Silingardi 1998, pp. 102-104
  44. ^ a b Gorrieri 1966, p. 17
  45. ^ Silingardi 1998, p. 105
  46. ^ Gorrieri 1966, p. 15
  47. ^ Silingardi 1998, pp. 105-107
  48. ^ Silingardi 1998, pp. 107-108
  49. ^ Silingardi 1998, pp. 108-110

Bibliografia

  • Claudio Silingardi, Una provincia partigiana. Guerra e Resistenza a Modena 1940-1945, 7ª ed., Milano, FrancoAngeli, 2008 [1998].
  • Ermanno Gorrieri, La Repubblica di Montefiorino, 2ª ed., Bologna, Il Mulino, 1970 [1966].