Epistola consolatoria a Pino de' Rossi

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L'Epistola consolatoria a Pino de' Rossi fu una lettera in volgare che Giovanni Boccaccio inviò al politico fiorentino Pino de' Rossi nel 1360-1361.

Contenuto e analisi[modifica | modifica wikitesto]

Premessa[modifica | modifica wikitesto]

Una delle tre epistole scritte in volgare, quest'epistola fu scritta in concomitanza con un grave problema di politica interna a Firenze: alcuni esponenti politici vicini a Boccaccio e a Pino de' Rossi tentarono di sconvolgere le istituzioni della Repubblica di Firenze, ma furono scoperti. Per quanto Boccaccio e il de' Rossi furono all'oscuro delle trame politiche di costoro, il primo fu esonerato dalla Signoria da tutti gli incarichi e costretto a rimanere nella quiete di Certaldo[1]; per il de' Rossi, invece, scattò l'esilio e si rifugiò a Volterra, dove era signore il cognato Bocchino Belforti[2].

Analisi[modifica | modifica wikitesto]

La lunga lettera vede, come sottolinea Teresa Nocita, come destinatario il de' Rossi in una consolatoria che però è rivolta innanzitutto al Boccaccio stesso[3]. Afflitto dal trattamento ricevuto da parte della Signoria, Boccaccio non esita ad invitare Pino (e sé stesso), dopo aver rievocato le sfortune di molti altri eroi dell'antichità classica, ad andare oltre la sciagura che è capitata:

«E se 'l mio picciolo e depresso nome meritasse di essere tra gli eccellenti uomini detti di sopra, e tra molti altri che feciono il simigliante, nomato, io direi per quello medesimo avere Fiorenza lasciata e dimorare a Certaldo; aggiugnendovi, che, dove la mia povertà il patisse, tanto lontano me n'anderei, che, come la loro iniquità, non veggio, così udirla non potessi giammai. Ma tempo è omai da procedere alquanto più oltre.»

Inoltre Boccaccio rievoca anche la vita che sta conducendo a Certaldo, in quell'otium letterario che può solo rinfrancare l'animo di chi ha patito la sfortuna:

«Io, secondo il mio proponimento, del quale vi ragionai, sono tornato a Certaldo, e qui ho cominciato, con troppa meno difficultà ch'io non estimava, di potere, a confortare la mia vita; e comincianmi già i grossi panni a piacere e le contadine vivande; e il non vedere le ambizioni e le spiacevolezze e i fastidj de' nostri cittadini mi è di tanta consolazione nell'animo, che se io potessi fare senza udirne alcuna cosa, credo che 'l mio riposo crescerebbe assai. In iscambio dei solleciti avvolgimenti e continui de' cittadini, veggio campi, colli, arbori di verdi fronde e di varj fiori rivestiti, cose semplicemente dalla natura prodotte, dove ne' cittadini sono tutti atti fittizj. Odo cantare gli usignuoli e gli altri uccelli, non con minore diletto che fosse già la noja di udire tutto il dì gl'inganni e le dislealtà de' cittadini nostri. Co' miei libricciuoli, quante volte voglia me ne viene, senza alcuno impaccio posso liberamente ragionare; ed acciocchè io in poche parole conchiuda la qualità della mente mia, vi dico, che lo mi crederei qui, mortale come io sono, gustare e sentire della eterna felicità, se Dio m'avesse dato fratello, o non me lo avesse dato.»


Note[modifica | modifica wikitesto]

Bibliografia[modifica | modifica wikitesto]

Voci correlate[modifica | modifica wikitesto]

Collegamenti esterni[modifica | modifica wikitesto]