Discussione:Luigi Di Ruscio

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Antonio Porta UNA PALLA DI NEVE ALL'INFERNO "Corriere della sera" domenica 11 maggio 1979 Luigi Di Ruscio è nato a Fermo nel 1930 e da circa venticinque anni vive in Norvegia, dove lavora come operaio in un'industria siderurgica di 0slo. Ha preso piena coscienza della propria volontà di poesia partecipando ai convegni di giovani poeti organizzati da Lucio Lombardi Radice. Erano gli anni in cui la rivista Momenti cui Di Ruscio collaborò assiduamente, indicava con forza ai poeti nuovi la strada dell'impegno sociale e del rifiuto dei linguaggi letterari. Ma si sa quante bugie contengono le dichiarazioni di poetica: infatti Di Ruscio ha esordito nel 1952 con una raccolta di poesie. -Non possiamo abituarci a morire- (Editore Schwarz, prefazione di Franco Fortini) in cui il linguaggio letterario resiste felicemente agli assalti della cronaca e della storia, affermandosi con una limpidezza e insieme un'arguzia di dettato che testimoniano a favore di una capacità di dire quasi mai inquinata dalla retorica neorealista. Dalla poetica neorealista ha invece saputo prendere il meglio: la rapidità della scrittura e l'assenza di indugi, e anche la forza nella lotta che non lo abbandona mai. Nel 1966 è uscita, presso l'editore Marotta, la seconda raccolta, "Le streghe s'arrotano le dentiere", con prefazione di Salvatore Quasimodo. Nonostante tali autorevoli e partecipi segnalazioni, con molta ragione Giancarlo Majorino è stato costretto a scrivere, nella discussa ma utilissima rassegna di poesia dal '45 al '75, "Poesie e realtà- (Editore Savelli, 1977), che la poesia di Di Ruscio è "sconosciuta o quasi ma intensissima….Ora siamo al terzo libro "Apprendistati" e si ha l'impressione che l'occultamento di un poeta, che non si può esitare a definire di primissimo piano, continui. È curioso dover osservare che anche nello svilupparsi della scrittura poetica, intesa anche come opera "collettiva", compiuta insieme dai poeti e dai lettori attivi, siano così spesso presenti fenomeni che è giocoforza chiamare di "rimozione". Viene subito in mente un caso orma divenuto famoso: l'occultamento del primo manoscritto di poesie di Dino Campana, che Soffici e Papini, «dimenticarono» in un baule e dichiararono perduto. "Apprendistati" è una riuscita, sotto tutti gli aspetti, e le 53 poesie che lo compongono hanno trovato un ritmo battente e articolato al punto che Di Ruscio riesce a adeguarlo alla velocità delle sue associazioni e combinazioni di immagini con tenaci concetti di rivolta. Di Ruscio è una talpa che continua a scavare e la sua macchina macina-parole funziona a pieno regime grazie a un sistema di verbi che ribadiscono, verso dopo verso, la necessità della presenza centrale di un io capace di interagire con il "farsi e disfarsi" della storia del nostro tempo. Al posto della disperazione vi è il senso del comico, invece delle sintesi e dei dogmi c'è l'incalzare delle domande. "Non abbiamo più speranza, di una palla di neve all'inferno" scrive Di Ruscio, citando Joyce, e anche: la parola fa pensare allo sfrigolio del grasso nel fuoco", sempre da Joyce. E si capisce che vuole significarci una volontà di resistenza a tutti i costi. Finché c'è fuoco e grasso, e sfrigolii, dunque il processo della storia non si è arrestato, c'è speranza, ci siamo ancora: con la poesia, con i verbi del nostro agire. La palla di neve seguita a riformarsi.


Sebastiano Vassalli LO “STIL NUOVO” ARRIVA DA OSLO "l'Unità" del 21 agosto 1980- Intervenendo su un quotidiano a proposito del secondo Festival internazionale dei poeti, lo scrittore Renzo Paris avanza un'ipotesi particolarmente suggestiva di “stil nuovo” da mettere anzitutto in rapporto con il pieno dispiegarsi di una lingua - la lingua italiana appunto- che per la prima volta nella sua storia nazionale è veramente parlata. Seguendo questa ipotesi, molto più seria e accettabile rispetto a quella di un semplicistico e ormai abusato "riflusso" direi che si riesce a cogliere meglio con maggior immediatezza il significato di presenze che ancora in anni recenti la critica si ostinava a giudicare eccentriche e che ora invece si manifestano con una loro forza di centralità. Esemplare in questo senso è il caso di Luigi Di Ruscio cinquantenne marchigiano operaio in una fabbrica di Oslo con tre raccolte già pubblicate alle spalle e avalli prestigiosi di Franco Fortini e di Salvatore Quasimodo. Ma le circostanze che hanno permesso a Di Ruscio di uscire dalla cerchia delle edizioni numerate per proporsi all'attenzione di un pubblico più vasto sono recentissime e tutte interne alla logica "stilnovista" di questo primo scorcio degli anni Ottanta. In sostanza, credo che la poesia di Di Ruscio si sia imposta per il suo singolare e vitalissimo impasto di lingua letteraria e dialetto, per le sue caratteristiche di organismo linguistico inarrestabile che tutta divora e tutto può assimilare, dalla citazione dotta all'articolo di giornale, alla bestemmia. Se quello che la poesia italiana sta vivendo e veramente uno "stil novo", Di Ruscio è il suo Jacopone e si serve della poesia per vivere un rapporto altrimenti impossibile con la cultura originaria e con la patria matrigna attraverso la carta scritta e stampata. Ecco, al centro della poetica di Di Ruscio ci sono certamente i temi del distacco e della riappropriazione attraverso il linguaggio: linguaggio dell'infanzia, linguaggio dei media, almeno come elementi scatenati, anche se poi l'invettiva si allarga circolarmente, a raggiera, sino ad investire nel linguaggio stesso ciò che lo produce e lo usa, la società capitalistica "lurida e cannibalesca" e non solo: la letteratura e l'arte che la servono, il comunismo che non la contrasta con sufficiente efficacia. Siamo in presenza di un furore "eretico" che non viene meno né alle regole dell'autoaccusa: in queste poesie tutti i reati sono rintracciabili né alla profezia della città, anzi della "festa" futura: pubblico questa raccolta perché credo di aver seminato nelle mie poesie i segnali della nostra festa… Sebastiano Vassalli


Tiziano Rossi "1970/1980 CINQUANTA MODELLI DI POESIA in "Almanacco dello specchio" numero 11 anno 1983 In Istruzioni per l'uso della repressione (Savelli, 1980) che ben si lega alla precedente raccolta Apprendistati (1978), Di Ruscio dà voce e peso a un io fatto furioso dal mondo, che agita braccia e parole e non si quieterà, che subisce la camicia di forza, ma ogni volta la rompe e - mescolando spirito e corpo, o vivendo lo spirito come corpo- si ripromette di fare indigestione di vita, di tutta la vita: amo la moglie vegetariana e mangio la carne porca, lecco / gli ossi, succhio la madonna sfilo i tendini" Coerentemente la scrittura mira a una descrizione onnicomprensiva: immagino quello che non è stato ancora espresso il perso / il non accumulato, la poesia scoppia ovunque. E originale è soprattutto la velocità del ritmo, che fa pensare a una stravolta pochade, insieme violenta e comica: ha rigettato tutto il mangiare del frigorifero e ci si è chiuso dentro. Una totalità orizzontale pare attinta. Tiziano Rossi


Generoso Picone QUESTO PARTITO E’ DIVENTATO UN ROMANZO Sul IL MATTINO, 8 aprile 1986 Qualsiasi cosa è tutta l'opposto di quello che sembra. E adoperando la definizione di Hegel come estetica si entra dentro un grande casino. "Credevano proprio che fosse il sole a tramontare invece tramontavamo noi, noi tramontiamo e ci capovolgiamo e i comunisti che lavoravano per un mondo nuovo riuscivano solo a fare i funerali più grandi del mondo quando era da immaginarsi tutto l'opposto, non i funerali con le estreme unzioni, ma i battesimi, le cresime e le prime comunioni". Per dire del primo romanzo di Luigi Di Ruscio, primo, ma non conviene chiamarlo d'esordio, perché il tipo ha già una densa carriera di lettere alle spalle, si potrebbe leggere questo brandello dell'introduzione e guardare la bella foto dei due pugili in copertina. Palmiro, ovvero la storia di una frequentazione più passionale che politica in un partito, raccontata secondo l'epica del militante di provincia con effetti picareschi ed esilaranti per ambientazione e scrittura. La narra quell'uomo ormai maturo che ventitreenne nel 1953 pubblicò la raccolta di poesie «Non possiamo abituarci a morire- e fu accolto da Franco Fortini con accenti d'entusiasmo non cerimoniale. Luigi Di Ruscio ha cinquantasei anni, trenta campati ad Oslo a fare l'operaio e contemporaneamente meritarsi la definizione “un poeta che tira fili d'acciaio” da parte della critica norvegese. In Italia di lui hanno parlato bene anche Salvalore Quasimodo, Giancarlo Majorino, Sabastiano Vassalli e Italo Calvino ed Antonio Porta, autore della post-prefazione al Palmiro. Tanto non deve essere però bastato, se Di Ruscio oggi è uno illustre sconosciuto al gran pubblico. Chi prenderà a conoscerlo cominciando da Palmiro avrà una bella sorpresa. Scrittore operaio ma di freschezza e ritmo assolutamente lontano dalla tinta plumbea di riviste come "Abili-lavoro", Luigi Di Ruscio ha un rapporto con la pagina di decisa competizione Ci sono dei motivi specifici e personali per cui il nostro si mise a scrivere? I motivi per cui uno si mette a scrivere sono molto oscuri e investono i problemi dello scrivimento in generale. afferma in Palmiro, ed è un de narratur. Ne nasce una narrazione selvaggia, da anarchico individualista alieno alla disciplina di ogni tipo, di eccezionali accelerazioni e di fruibilità insospettabile, parecchio prossima alla celaliana de Le avventure di Guizzardi e de La banda dei sospiri. E del resto i personaggi che la popolano, Ciocca, Roffianetto, Roscella, sono dei topici dei territori della periferia sanguigna ed ironica degli anni cinquanta. L'educazione politica, la militanza comunista rappresentano il filo che tiene uniti i protagonisti e la storia, raccontata in prima persona con forte presa diretta, spazia dagli stanzoni delle sezioni, alle piazze dei comizi, dalle cantonate dove si appiccicano i manifesti, ai vialoni dei funerali. Proprio la descrizione di un funerale è tra i momenti di divertimento sfrenato del romanzo, paradossalmente, ma fino ad un certo punto, ricordando la constatazione dell'autore nell'introduzione. Combattivi, irruenti, buffi, disincantati come i pugili della copertina, vivi, fideisti, rivoluzionari e comici come in una saga. Il tutto è gradevolissimo. Di Ruscio s'impossessa della parola e la porge con grazia. È una forma di comunicazione riuscita, una scommessa vinta. Che sia anche una lezione politica.? Generoso Piccone


Stefano Verdino "LUIGI DI RUSCIO" In ISTMI (tracce di vita poetica) 7 -8, 2000 Per vari anni Luigi Di Ruscio è stato, nella vulgata di chi si occupa di letteratura, il poeta operaio e "alternativo" ai prodotti di una cultura borghese. Alla protesta sociale e antiautoritaria, in specie politica e religiosa, è stato strettamente connesso il suo dire. Giustamente. Ma credo che l'aver esibito soprattutto, in sede critica, il lato già più scoperto e palese della poesia di Di Ruscio, ci abbia un poco velato la vista a quanto di meno evidente e tuttavia "fondamentale" vi sia nella medesima. Peraltro già Quasimodo, nella prefazione nel 1966 Le streghe s'arrotano le dentiere, in un decisivo passaggio, ci avvertiva di una messa in gioco assai complessa di questi testi:

Le poesie di Luigi Di Ruscio sono nell'angoscia di un crescendo della simbolica mania di persecuzione dell'autore, che non ama distrarsi per selezionare una bella pagina da auditorium. Al marchigiano non importa niente che lo si legga o no; il ritmo sordo e perpendicolare della forma, nei suoi versi, viene da una rigorosa ragione di contenuto. E la friabile avventura di afferrare e di prendere, di sfuggire e di essere preso, di arrivare e di partire, l'incertezza che viene non solo dalle speranze-delusioni nella battaglia di classe ma dal destino particolare e, dicevamo, costantemente in bilico tra la ricerca concreta delle virtù materiali, cioè delle cause storiche e civili del dolore, e una sfiducia fantastica, come un ronzio dell'anima che dalle zone più segrete della psiche viene in superficie, assordante, come un dubbio che sfoca il profilo della quotidiana "partita". 1)

Questa sorta di distonia o doppio livello è quanto occorre meglio indagare nella poesia di Di Ruscio, anche nei testi più aperti ed immediati. Ed ora abbiamo la possibilità di una rilettura d'assieme grazie alla recente raccolta del corpus poetico di Di Ruscio, con il titolo Firmum (peQuod, Ancona 1999, pp. l54): quasi cinquant'anni di poesia sono qui raccolti, in un volume che ci rivela la stoffa di un notevole poeta, senz'altri aggettivi o specificazioni. Anche nel più inequivoco Di Ruscio neorealista degli esordi, di Non possiamo abituarci a morire (1953), va ricordato che la scelta dominante per una oggettività referenziale di "umiliati e offesi", piuttosto che per una coralità (decisamente minoritaria di frequenza), è connessa con una complessa dinamica di partecipazione-differenza dell'io del poeta. Se ne vedano due esempi: in Per colazione hanno acqua e pane la cronaca della stentata vita dei cavatori divarica la serenità dei medesimi con la malinconia dell'autore ("a mezzogiorno mettono nel brodo d'erbe / il solito pane nero / al coprirsi del sole se io sono pieno di malinconia / per loro è bello tornarsene a casa ridendo / sedersi in famiglia giocare con i figli / dopo dieci ore di lavoro sulla pietra"); in Faceva l'infermiera la cronaca della desolata vecchia infermiera ubriacona, che fu quasi una tata a Di Ruscio, si chiude con un'esasperata attestazione d'innocenza contro l'affettuosa colpevolizzazione della vecchia donna:

soffre a vedermi senza nulla vorrebbe avere i miei figli per ricominciare come fossero suoi ma la colpa non è mia se sono nato male la colpa non è mia di nulla.

E' evidente che accanto al rendiconto della vita dura dei poveri del Piceno del dopoguerra vi sia un livello di inquietudine della coscienza (malinconia, dichiarazione di innocenza) che si dibatte, per chiarire a sè i margini del paradosso del vive 2). La sofferenza e l'innocenza sgorgano dalla lirica sopra citata, ma questo, per Di Ruscio, è scandalo, perché non vi è giustificazione e la sofferenza come frutto di colpevolezza, che una certa educazione cattolica ha ammaestrato, risulta del tutto introvabile. Sul suo marxismo, formidabile strumento di lotta, fin da subito si installa un interrogativo di tipo radicale, sulla mancata motivazione della vita agli occhi dell'uomo come a quelli di un Dio smemorato: "perché sono nato non sta scritto in nessuna stella / neppure Dio lo ricorda". E' in sostanza un quadro di disarmonia prestabilita che si affaccia all'osservazione del giovane Di Ruscio, testimone della propria ed altrui fatica materiale di vivere, ma anche di una inesplicabilità a monte, che costituisce -credo- la sorgente prima della sua oltranza espressiva, della sua tendenza a scandire con nitidezza spietata le diverse faticose storie umane, messe in chiaro e a nudo nella loro implicita ingiustizia. L'ingiustizia per la pena di vivere, poi, appare ancor più intollerabile poiché invece è possibile osservare il meraviglioso nella fragranza di alcuni istanti, in cui pare irradiarsi una plenitudine beatifica connessa con la maestà della bellezza dei corpi:

il semaforo segna rosso sulla costruzione sospeso come un dio e le biciclette volano con in groppa le donne dagli occhi di tutti i colori col viso più forte della morte gente che assapora i giorni e quel rosso nel viso ha più luce del sole.

In questa notevole poesia giovanile non dimentichiamo comunque che l'epifania della bellezza non porta grazia ma agonismo, e perno di lotta contro la morte (anche qui evocata), mentre, d'altra parte, i termini neorealistici del dire si declinano con tratti ossessivi (le varie possibilità del rosso), che preludono ad un avvio di destrutturazione del testo, di sua crescita di complessità, nel più libero intreccio dei livelli diversi del senso e dei livelli diversi del codice espressivo. 3) A partire dalle Streghe infatti l'impianto di cronaca cede all'osmosi, con relativa discontinuità, tra piano reale, sua dilatazione ossessiva e spinta all'allegoria ovvero al margine onirico. Ne fa fede, in Firmum, la poesia dirimpettaia della precedente:

sotto l'intonaco dovevano esserci sterminati nidi d'insetti capsule di materia polvere viva nidificavano i pedocchi nei capelli corvini la poesia brulicava come brulicavano le radici delle erbe in quella camera brulicante di materia viva scrissi tutto il mio neorealismo e sognandomela sognai anche questo verso ritornavano dal lavoro sino alla morte

Nelle poesie successive resistono ancora margini lineari per cui è possibile rubricare una serie di testimonianze di vite di persone, altre a carattere autobiografico, o di memoria o di confessione, mentre d'altra parte cominciano a sgranarsi anche testi a regime onirico-sentenzioso, assai suggestivi per la discontinuità del discorso, spesso con salti da verso a verso, quasi a esibire nel proprio dire totale e impetuoso le ferite del silenzio e dell'inesplicato, che tende a divaricare i singoli versi dal loro più naturale deflusso:

mentre la pioggia a diluvio annega il mondo un odore azotato pulito e la cosa non si esprime quelle nuvole nere che improvvisamente precipitano una zanzara attraversa queste lettere bagnate s'appantana tra i neri inchiostri

Qui la poesia di Di Ruscio diventa davvero cospicua perché costruisce una sua personale stilistica, dissestata e dissonante, perfettamente calzante con la propria verità tematica, che già abbiamo individuato. Per quanto convulso infatti il testo è chiarissimo nel porsi come denuncia, gridata e mutilata, a un tempo (non "ore rotundo", quindi) di un irredimibile negativo, che qui veste l'immagine genetica del diluvio-precipizio. Quest'immagine, archetipo di molti poeti (si pensi al Canto del destino di Holderlin e alla sua meravigliosa interpretazione musicale di Brahms), è vissuta con felice e personale ossessione da Di Ruscio, in un moltiplicato processo di dissoluzione, che non è una vanificazione, ma uno schiantarsi violento:

l'insensato correre a precipizio di tutte le cose infilare la carta nel carrello di questa macchina da scrivere uno scrivere che sembra abbia per scopo solo la logorazione di questa olivetti schiantare su questa macchina o su quell'altra del reparto schiantare nel precipizo di tutte le cose

Questi versi servono anche ad introdurci in un altro discorso: l'aspetto metapoetico di molta della più recente poesia di Di Ruscio, che spesso pone l'accento su se stesso scrivente come certificazione di esistenza e bisogno corporeo di identità per autolegittimare il proprio dire e il suo molo. Al proposito vale la pena di citare per intero una poesia assai bella, che dalla sconfitta del proprio comunismo si snoda ad una più fonda confessione della propria poesia:

forse un giorno mio figlio racconterà a mio nipote che il nonno era comunista e questa frase acquisterà un sapore assurdo come se mi avessero detto che il mio bisnonno era giacobino e regicida comunque io non ho fatto che scrivere versi ho messo carta davanti alla belva e quando scrissi una lunga poesia per un parto improvvisamente avvenuto in vicolo borgia una lunga poesia di cui rimane solo un verso i tuoi piedi che ancora non hanno toccato la terra e questo verso potrai adoperarlo per una divinità ancora non incarnata nonostante tutto incarnato come ero

"ho messo carta davanti alla belva", con estrema sintesi, il verso ci mette davanti tutta l'urgenza della scrittura di Di Ruscio, e quanto alla "belva", un po' come nell'ultimo Caproni, essa sembra l'emblema del principio che divora o consuma la vita e le sue forme. Tutta la poesia esibisce la consumazione della propria vita, delle proprie ideologie e speranze, ma anche nella sopravvivenza frammentaria ("solo un verso", appunto) della poesia, un verso oltretutto utilizzabile in futuro per un inizio ed un inizio connesso al divino. Dio, sappiamo bene, compare frequentemente, presso Di Ruscio. Vi sono tratti anticlericali, ma sono decisamente più interessanti gli aspetti della blasfemia, di caustica irrisione, geniale nella sua formulazione:

ti auguro una felice pasqua mangerai la carne e il sangue di nostro signor Gesù e speriamo che qualche osso rimasto non ti strozzi

Ma tanta violenza ha senso ed è autentica, per lo scacco che da sempre e continuamente Di Ruscio patisce nei confronti del divino, “dell'inesistente” come viene detto in uno degli inediti qui accolti: in una poesia esigente la verità come la sua, assolutamente frontale e universale (come ha ben sottolineato di recente Andrea Inglese), è chiaro che il fondale di un assoluto, comunque (il tutto, il niente), viene sempre preso in considerazione. Vi è così un nucleo di sacro e di fondamentale, evidente nelle zone più bruniane (ispirate dal panteismo di Giordano Bruno, su cui si sofferma Inglese), ma vissute sempre con indomito agonismo, tra vanità e totalità:

per testimoniare che siamo vivi lascio tracce alfabetiche il rito e eseguito a chiesa vuota davanti al niente e all'ignoto cerco di scalfire pietra durissima che niente riuscirà a scalfire cercando di penetrare l'impenetrabile provoco solo l'irrisione di chi spia il rito dal buco della serratura

battezzare con questi verbi il niente e l'ignoto 

l'universo e tanto infinito che può contenere una infinità di nuovi universi e nessuna cosa è tanto piccola da non poterne togliere ancora una parte ed è tutto come il niente

 Di Ruscio è naturalmente troppo disincantato dall'avere fede piena in quanto pure vede di sacro e di rito nell'operazione linguistica del poeta; glielo impediscono, a buon diritto i margini sociali e civili del suo dire, espressi con amara ironia sulla magia del poeta nel trionfo capitalistico dell'oggi:

il poeta rischia di diventare un mago che placa l'orrore della fine ora che con la fine dei socialismi reali sappiamo che questo mondo d'occidente è il migliore dei mondi possibili noi che riuscimmo ad assistere imperterriti alla fine della speranza nostra

Non c'è consolazione. E allora? Vi è solo una chiarezza che procede dalla poesia man mano che si approssima, nel cumulo del precipitare, "lo spappo finale" ("e nel Sogno dell'ultimo volo la poesia sarà vista sempre più chiaramente sino allo spappo finale"). Ed è il paesaggio (norvegese?), con il suo gelo, a suggerire una splendida emblematica (molto leopardiana) dell'ostinato persistere e rinascere della vita, attraverso le forme prime e minime delle fioriture, nell'incessante paradosso (od ossimoro) dello splendore delle forme, calate ab initio nel loro destino di morte:

quando nel paesaggio ancora invernale morso dal gelo improvvisamente esplode la fioritura del mandorlo la precocità e l'estrema debolezza del tuo splendore la minaccia è sopra di te i primi sono in pericolo estremo la fioritura del mandorlo brilla nostro debolissimo vessillo tu vessillo di morte precoce e di tutti gli inizi poca materia viva circondata da morte i nostri debolissimi segni della speranza pronti a finire i primi di un nuovo mondo splendidamente vivi con la gola serrata dalla morte

1) Ora in L. Di Ruscio, Firmum 1953-1999. Con le testimonianze di Franco Fortini e Salvatore Quasimodo, peQuod, Ancona 1999, p.152.

2) Stilisticamente la misura del paradosso si è spesso calata nell'ossimoro, figura che percorre di frequente i testi di Di Ruscio e che ha anche una sua voce metapoetica: "la realtà produce ossimori come un alveare produce il miele \essendo la realtà una fabbrica instancabile di verbi \ perché l'illusione dell'appropriazione sia possibile".

3) Franco Fortini, nella premessa al primo libro di Di Ruscio rimarcava la qualità formale di questa poesia. In effetti Di Ruscio negli anni, fedele a se stesso, ha saputo costruire un verso originale. Metricamente anarchico e atonico, pausato da una cadenza o da una disconnessione del dire, utilizza poi uno splendido gergo dove - soprattutto nelle poesie più recenti e mature - si annodano espressioni di piana denotazione a connotazioni culte e geniali invenzioni del lessico, con mutuazioni dal dialetto. Eccone un minimo campionario: "un figlio ancora infasciato", "le vite hanno i pampini scoppati", "nell'acqua appantanata", "santi spadati", "trovavo bellissimi sconci", "gli dicono di smettersela", "nel tripudio dell'erbe murane", "in maniera sprocedata", "catturatore di rane", "gambe voltaiche", "le stille di sangue / spase", "colpirà a mastellate i vetri", "spappo finale", "attenebrato". Ne mancano le deformazioni semantiche: "conosce la carne alle feste raccomandate", "la palpitazione dei nuovi eventi", "mi addento nelle tenebre". Stefano Verdino

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