Utente:Wentosecco/racconti

Da Wikipedia, l'enciclopedia libera.
Vai alla navigazione Vai alla ricerca

Il signor V. e la questione giuliano-dalmata[modifica | modifica wikitesto]

Non esiste nessun viaggio che non possa essere rappresentato su una carta geografica. Dalla più modesta e diretta consegna postale ai ghirigori della fantasia confusa e ribelle di una mente giovane e infantile. Gli antichi asiatici credevano che il cielo con tutte le sue stelle fosse un'emanazione della terra: una mappa al contrario, il negativo delle motagne, delle valli, degli abissi, proiettato in piano (anzi planisfero). Così deve essere pure quando uno prende e va per una strada qualsiasi, e si immagina la mappa del suo percorso: le curve, i sorpassi e le rampe che si percorrono, che in un certo senso si può dire che si amano pure, perché è tutto il corpo a sballottarcisi, in attirti e vuoti d'aria, finiscono impresse in qualche parte dell'universo, a disegnare le particelle di una delle tante possibili trame e progetti della natura. E' il corpo che le crea e le vive, ogni volta che decide di uscir di casa. A questo pensava il signor V. di ritorno a casa, il nostro piccolo outsider che ora si è innamorato di idee modernissime come il «disegno intelligente» o «il nulla», mentre in qualche angolo remoto delle sue canute meningi una specie di ingegnere assunto a tempo pieno studiava il modo di eliminare una volta per tutte quella puzza di tabacco che gli si incollava addosso come la triste fama che aveva di vecchio omosessuale squattrinato. La piogga non era ancora cessata. Si piegò in avanti il signor V. per schiarire la vista: l'acqua scendeva fitta sull'asfalto, grigia e polverosa, ed era quasi buio.

Su al paese la strada finiva su di un grande e isolato largario e non si erano incrociate diramazioni lingo tutta la vallata né all'andata né al ritorno. Una lunga lingua d'asfalto avvolgeva i tre isolati di cui si componeva il borgo e i margini estremi erano segnati dai tornanti, due per ciascun lato, che si alternavano vorticosi come un filo che serpeggia fra dei rocchi: dopo l'ultimo terremoto era stato ricostruito ben oltre un chilometro più a valle (del vecchio centro non restava che uno spettrale cumolo di macerie sotto un campanile), e chiunque ne aveva pianificato la nuova struttura, certamente aveva voluto piegare il paesaggio umano alle strane forme con cui la natura si svelava dal quelle parti, per una sorta di scaramanzia o, si direbbe, devozione al terremoto. Rettilinee, le sole, tre rampe di scale intersecavano la carrozzabile per i tre livelli su cui si strutturavano e susseguivano gli edifici; al centro, come poteva non esser così, una bianca chiesa, di sicuro più grossa del necessario, su di una piazza che pare un terrazzo, bianca come l'avorio, di fronte ad un giovane tiglio, il quale da parte sua ben prometteva di campare ancora per almeno altri due secoli, a ribadire con quei locali che là lo vollero, l'origine slava e la vocazione balcanica di questa parte d'Italia. La biblioteca invece era al margine orientale, era un locale della piccola scuola elementare. Nonostante il signor V. ormai non si chiedesse più da tempo cosa ci facessero questi bordelli di libri e pubblicazioni sulla cima delle montagne, sta volta si era meravigliato a trovare quel grazioso edificio di campagna dopo tante curve, senza stile né disegno, né tegole o degni infissi, con un fondo locale e orari propri, abbandonata e ordinata come una stazione dei treni.

Nell'entrare l'ambiente sembrò deluderlo: era qualche gradino sotto il livello del terreno e nel varcare la porta aveva cominciato a sentire sulla schiena il peso del lungo viaggio per quelle montagne e forse dei suoi pensieri; presidiava una donna di mezza età che subito sfoggiò un sorriso antico come il sole; indossava una camicia rosa, fresca, aperta giusto quel che bastava per ricordar che il seno era ancora giovane ed in carne. Il signor V. da parte sua sentì improvvisamente lievitare tutti i segni della sua vecchiaia, quelle giacche infeltrite e i capelli brizzolati: tutto sommato era ancora un buon partito, la calvizie sembrava procedere lenta ed impercettibile, cosicché la sua riga era sempre ordinata ed il portamento era ancora longilineo ed eretto. «Avrei bisogno di un libro», prese dopo un formalissimo «buongiorno». La donna continuava a sorridere, alzò le ciglia. Pareva quasi che i due stavano per abbracciarsi e mettersi a ballare e se così fosse stato veramente, nessuna musica sarebbe stata tanto scialba di retorica da poter accompagnare quell'intesa che di lì a poco sembrava dover partire. «Certo», continuò a sorridere la donna. Allora il signor V. le porse la mano. «Ah, ha già la collocazione? Bene! Ecco mi segua». In quel momento lei gli strinse la mano, ed a lui parve di ricominciare a desiderare proprio come un ragazzo di dodici anni: i suoi rapporti con l'altro sesso non erano mai andati oltre una carezza sulla mano di qualche bassa adolescente con un seno debordante, delle quali aveva posseduto solo il polso e le nocche, una spalla, o la parte del braccio che è più coperta della peluria puberale. Così la donna prese il biglietto del signor V., lo consultò rapidamente e portò il giovincello rinato presso uno dei tanti scaffali che impedivano alla luce naturale di entrare dalle finestre, cosicché la stanza era sempre pallida di neon. Ella si chinò, si piegò sulle ginocchia e si carezzava le calze. «Lei di dov'è?» Chiese, col perfetto accento di una maestrina, che doveva esser stata la più bella del paese, che non era stata abbastanza coraggiosa per fuggire da quelle montagne e dal malocchio delle sue ave. «Tolmezzo... cioè Udine! Udine, Udine.» «Udine?» «Sì sì, ora vivo ad Udine, insegno», ed era come se il peso di tutti quei libri fosse tornato a gravargli addosso. Lei a quel punto si era trasfigurata nella vecchia segretaria dell'università, e qualunque cosa dicesse sembrava volesse ripetere: «Dio professor V.! Dovrebbe fare qualcosa per questa puzza di tabacco», e quelli che erano parsi i capelli biondi di una diva hollywoodiana in cerca di marito, le calze d'oro e il didietro bronzeo, d'improvviso si fecero cesellature opache di un vecchio argento in vetrina, il vecchio patrimonio di famiglia interdetto alla curiosità dei bambini e degli estranei non graditi. Lo sconcerto si sommò allo sconcerto, i dubbi ai dubbi: e se anche all'università a nessuno interessasse veramente di capire che cos'è lo scisma tricapitolino, né dell'ultima traccia di questa piccola rivoluzione locale che tanto segnava ancora in questa terra; se a nessuno fosse mai interessato veramente degli italiani d'Istria e Dalmazia, più beffati che amati, come un vecchio argento di famiglia, persino nelle poesie? L'auto si spense nel garage. «Signor V. io qui ho fatto tutto, ecco la copia delle chiavi che mi aveva chiesto. Ci vediamo lunedì allora». Il signor V. era stanco di tanta puzza di menopausa. «Sì buonasera. Chiuda la porta.» «D'accordo. Ah un'ultima cosa. Le ho lasciato le mentine per l'alito in cucina, contro il tabacco. A lunedì allora.» Il signor V. annuiva: annuiva al nuovo ordine in cui la domestica aveva disposto la sua casa, alla nuova solitudine che gli lasciava: si dirigeva verso il buio del corridoio, senza far luce. Pensò che nemmeno il suo cane si accorgeva più di lui, né si curava di quando rientrava a casa, e se ne stava rintanato in qualche rifugio fra i mobili e le stoffe che ricoprivano poltrone e divani, troppo vecchio com'era per far festa. (A.d.p.)

Annibale Petricca fu Umberto[modifica | modifica wikitesto]

Sono sempre stato il figlio d’Umberto per tutti. Ovunque io sia stato qualunquissima cosa avessi voluto essere prima di tutto dovevo essere il figlio d'Umberto. Sono cresciuto in campagna ed ora posso ben dire di aver frequentato i miei genitori solo per poche ripetitive raccomandazioni: mi rammentavano i doveri scolastici, le regole di un comportamento sessuale controllato e morigerato e quanto fosse utile a questo mondo un adeguato rispetto del patrimonio. Non fu nemmeno una consolazione la libertà che sembrano concedere i campi di mais che, come in delirio romantico, si svelano fra i colli e le golene dei fossi, allietando i crepuscoli di chi vuol crededere esistano davvero i paesaggi bucolici e pittoreschi, fra i maggesi pecorecci e le nuvole barocche ed un fiume, che sembra piangere una biliosa e disperata siccità più che nutrire le speranze adolescenziali o rinverdire le valli dei poeti, anche qua portavo sempre con me questa patente: ero il figlio d'Umberto.

Il casello di mia zia è alla periferia estrema della mia città, appena oltre un fossato che ne segna il confine comunale. Son potuto crescere lontano dalla civiltà: come i greci avevo la mia campagna, la mia arcadia, con le mie capre e galli e oche, civette e serpi, e la spola città-campagna fu la mia vita: andavo in centro solo istruirmi, dove una grande biblioteca di palazzi e strade mi mostrava tutta la solitudine e la perversione di un convitto laico e promiscuo che disfatto ormai dai precetti di un ordine stonato, senza tempo. Eppure non c'è mai stato nulla di che lamentarsi: la vita era questa e credo non ci sia niente a non rimpiangere. So bene che è molto lontana dalle favole dei film o di quei romanzi-fumetto che tanto son ricercati nell'educazione dei giovani contemporanei, ma io mi immagino invece che un giorno ne facciano pure un montumento, nella mia piccola fantasia, perché se quattro parole messe insieme possono fare sognare la gente (tra nuvole e fumetti...), perché la mia vita non può essere incisa in qualche marmo pregiato che da parte sua non aspetta altro che un bel ragazzo che gli dia la giusta forma?

«Dottore, non so se è giusto, né se è mi è lecito pensarlo, però deve c'entrare qualcosa l'ambiente in cui sono nato...» Considerai. Non tutti hanno la fortuna di nascere in una città fascista infatti. Non fascista nel senso politico o militare, o di qualcosa che si possa biasimare in quanto tale, con slang o nei discorsi politici, o come si usa dire nell'educazione nei giovani per ravvederli dai modernissimi atteggiamenti intolleranti e illiberali; «proprio fascista!» Direi ai miei amici; insomma, fascista fascista. Se volessimo esplorarla con la fantasia corrotta ed ipercorretiva di un antropologo, non avremmo sbagliato strada, finiti in un pezzo dalla costellazione di villagi e borghi extramoenia sparsi per il pianeta, con gli uomini che sembrano guadagnare il potere per oscuri malefici dai recessi della terra, o che ne so, dal calcare, dai detriti di faglia, così scordatevi pure tutte quelle chiacchiere dei giuristi e dei filosofi. La forma non ha sostanza, è tempo puro; una torre, un orologio. La sostanza non ha forma, è campagna, orizzonte. Uomini e donne si direbbero come sedotti al broglio rituale, alla frode, all'invidia; i palazzi, le strade, le chiese, le torri, i vicoli, i ponti sono causa prima: sono loro che scelgono i capi e le pietre e le lapidi parlano al posto loro, più delle persone: è qui che la fantasia popolare maggiormente oppressa trova il suo appagamento in delle figure leggendarie e per certi versi consolatorie, a cui lo spirito umano si avvinchia come l'edera ai vecchi edifici decrepiti e li consuma, che si trasmutano in totem, statue di santi o persino spauracchi carnevaleschi che poi bruciano alla prima festa cittadina.

«'O so... 'O so...» Dovetti interrompermi. «'O so che Freud diceva altre cose quando parlava di totem e tabù». Egli non mi sembrò molto attento al mio discorso, ma non avevo altre parole al momento. Mio padre era nella mia immaginazione e la mia immaginazione nella mia città. Che dovevo fare? Critico e campagnolo ho sempre ripugnato le manifestazioni folcloriche, e doveva saperlo, come poteva pretendere di capirmi altrimenti? Io fantasticavo per lo più di vivere in una città che certo non è mai stata quella e mi fu così ancor più difficile accogliere quelle vocazioni di certa gente di paese che fra i tanti arlecchini devono aver coltivato anche quella specie di folletto che è stato mio padre. Che sia stato anche lui un piccolo eidolon cittadino... «Cosa?» M'interruppe. «Eidolon... simulacro...» un eidolon, tanto muto quanto puzzerebbe di piscio se stesse al centro di una piazza. Fu orfano di padre o quasi (in realtà mio nonno si arruolò nella milizia ferroviaria e da allora non lo vide più nessuno, forse per colpa di Mussolini dice nonna, per colpa dell'America dicevano i parenti suoi, per colpa di Roma e della Chiesa diceva mio padre), cresciuto dai barnabiti per diventare sacerdote e poi scacciato a quindici anni (tutti gli uomini dalle mie parti sono stati scacciati dai preti, al collegio, in chiesa, nel talamo... era l'unico modo per i casti tridentini, cacciare Adamo dal paradiso, per sedurre questa rozza popolazione pagana), quindi fu svezzato da un'impresa edile della Cassa del Mezzogiorno, fra le montagne del Lazio e i bordelli di Roma, per poi tornare in quelle campagne a scontare un intero ventennio da pappone, ora a casa della madre ora a casa di qualche sorella. «Ora, è facile capire perché mi opponevo all'etichetta di figlio d'Umberto, dottore», dissi. La luce pomeridiana cominciava a bagnare la stanza fino all'orlo della poltorna. Annuì. Mi distesi finalmente per cominciare a racontare qualcosa, ma dubito che quella specie di cefalo avesse avuto la più vaga idea di quello che stavo dicendo. (A.d.p.)

Si coricò...[modifica | modifica wikitesto]

Si coricò. Qualcun'altro sotto le coperte ancora pensava: «solo per me non c'è mai stato tempo».