Utente:Manub72/Sandbox

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Il processo alle streghe di Rifreddo e Gambasca[modifica | modifica wikitesto]

Introduzione[modifica | modifica wikitesto]

Nell’autunno del 1495 l’inquisitore e frate predicatore Vito dei Beggiami fu chiamato a svolgere il suo ufficio in due piccoli borghi del nord-ovest della penisola: Rifreddo e Gambasca, villaggi appartenenti al Marchesato di Saluzzo retto in questo periodo storico dal marchese Ludovico II.

Il procedimento giudiziario riguardò nove donne del luogo, sette abitanti a Rifreddo e due a Gambasca. Tutte furono accusate del reato di stregoneria.

Protagonisti della vicenda[modifica | modifica wikitesto]

L’inquisitore Vito dei Beggiami frate predicatore del convento di Savigliano, “magister” in “sacrae theologie doctor”, era delegato dalla sede apostolica all’ufficio inquisitoriale, da metà agosto di quello stesso anno, “nella Provincia di Lombardia, e della Marca genovese e di tutto il Piemonte”. L’ incarico dell’ottobre 1495 fu quindi il suo primo impegno ufficiale[1].

A metà novembre circa venne coinvolto nel procedimento anche Michele de Madeis, dottore in teologia e diritto canonico, che agiva non nelle vesti di inquisitore ma in quelle di “commissario” di Ludovico II, a garanzia delle prerogative e diritti marchionali. De Madeis rappresentava dunque il potere del marchese.

Monastero Santa Maria della Stella Rifreddo

A capo del monastero all’interno del quale avvenne l’aggressione (con successivo decesso) che costituì il probabile impulso che darà il via all’azione inquisitoriale, c'era la badessa Margherita de Manton, eletta alla carica tra il 1488 e il 1489 quando il marchesato era momentaneamente passato sotto la breve dominazione sabauda. Il dato istituzionale interessante è che la giurisdizione ecclesiastica e civile (“iurisdictio in spiritualibus et temporalibus”) sui distretti di Rifreddo e Gambasca rimane un po' dubbia: pare comunque che spettasse al monastero di Santa Maria della Stella e a chi ne era via via a capo, (in quel momento appunto la badessa Margherita), se Ludovico II tornato al potere dopo i Savoia, costrinse le comunità a prestargli giuramento di fedeltà, ma precisando che ciò avveniva nel rispetto dei “iura et privilegi” del monastero e della badessa, e successivamente dopo l’inizio del processo invii il suo fidato consigliere nonché confessore de Madeis a controllarne la regolarità.

Le donne inquisite e coinvolte a più livelli nel processo saranno,  nove. Sette originarie di Rifreddo e due di Gambasca. Non sussistono ad oggi ricerche che delineino chiaramente la fisionomia e i profili delle stesse, le scarse notizie si possono ricavare unicamente dai tre fascicoli processuali ritrovati e dal volume Consignamenta nova del 1483.

I fascicoli ritrovati riguardano solamente tre delle accusate: Giovanna Motossa, sposata col già vedovo Benedetto Motosso, di cui rimane a sua volta vedova ereditandone solamente piccoli appezzamenti di terreno poco fertili e di conseguenza poco redditizi, lasciando la donna “povera con debiti da pagare”.

Dalla documentazione anche Caterina Borrella risulta vedova (“relicta Iohannis Borrelli”), il marito la lasciò coperta dai debiti contratti con un prestatore di denaro di origine ebraica, per il cui mancato pagamento era lui stesso già stato incarcerato.

L’ultima imputata di cui è stato ritrovato il fascicolo giudiziario è Caterina Bonivarda che gode invece una condizione completamente diversa dalle precedenti: aveva un marito, Bonivardo de Bonivardi, ed un fratello. La famiglia era benestante, a giudicare dai documenti relativi ai possedimenti terrieri. Entrambi tenteranno, inutilmente, di far scagionare la congiunta dalle accuse.

Le accuse e lo svolgimento del processo[modifica | modifica wikitesto]

L’inquisitore Vito dei Beggiami giunse all’abbazia su probabile sollecito della badessa agli inizi dell’ottobre 1495. Il 4 ottobre proclamò il “tempus gratiae”, i tre giorni di tempo concessi a tutti coloro che avevano notizie (o pensavano di averne) sui crimini commessi, per potersi presentare spontaneamente davanti all’autorità giudiziaria rendendo, o piena confessione, o comunque portando l’inquisitore a conoscenza di particolari utili al prosieguo dell’azione. Il tutto aveva lo scopo di ottenere testimonianze e di portare al pentimento i responsabili dei crimini ricevendone in cambio “ipso facto” l’assoluzione per ogni delitto di fede compiuto.

L’avvio del processo fu probabilmente determinato dalla morte violenta di una giovane inserviente del monastero, tale Maria, che in punto di morte, costretta a letto, avrebbe confessato alla madre di essere stata picchiata da una donna, Giovanna Motossa, che aveva scoperto a rubare erbe officinali nell’orto (interessante che il fatto risalga alla primavera precedente: perché questo scarto temporale tra l’accadimento e l’intervento dell’inquisitore?). Il decesso della giovane probabilmente turbò l’equilibrio non solo del monastero ma dell’intera comunità e almeno nella visione della badessa, doveva trovare soluzione a più alte sfere rispetto alla normale procedura affidata al gastaldo e al giudice abbaziale.

Durante il tempus gratiae furono undici le persone che si recarono dall’inquisitore col loro carico di notizie e informazioni. Tutte riferirono che era ormai noto da tempo che Giovanna Motossa (publica vox et fama) era una “masca”. La nomea della donna venne confermata da tutti i testimoni e, a suffragio della tesi che la indica come tale, gli stessi aggiunsero numerosi e stereotipati particolari quali ad esempio il sospetto che le sue arti magiche avessero provocato la cecità di uno di loro o il lancinante dolore alla spalla di un altro. Insomma tutti erano a conoscenza che la Motossa era una masca e tutti avevano qualcosa da dire a conferma di tale fama.

E’ necessario a questo punto, ai fini di comprendere il perché dell’azione giudiziaria, sottolineare che la stregoneria era stata ufficialmente equiparata all’eresia da papa Innocenzo III nel dicembre del 1484 nella lettera Summus desiderantes affectibus.

Le basi per l’azione giudiziaria c’erano dunque tutte: un omicidio (anche se probabilmente preterintenzionale), la reputazione della donna, le testimonianze raccolte durante il tempus gratiae. E c’era soprattutto una donna sola, in stato di indigenza e quindi estremamente fragile e suggestionabile.

Fu la stessa Giovanna a recarsi dall’inquisitore l’8 ottobre dove rese una confessione molto particolareggiata non solo sul crimine di cui era accusata, ma sulla secta mascharum di cui faceva parte da ben diciotto anni assieme alle altre otto donne (le streghe per essere credute devono necessariamente fare i nomi delle complici perché non agiscono mai da sole). Con la confessione la donna si illuse di sollevarsi dalle sue responsabilità e ottenere perdono.  Le esondanti ammissioni compresero tutto l’immaginario popolare collegato, ormai da secoli, alla stregoneria: le riunioni assieme alle complici sul greto del Po, le congiunzioni carnali col demonio, la croce gettata a terra e poi calpestata, fino ad arrivare a gesti più gravi come il provocare la morte del bestiame e l’antropofagia di cui le stesse sarebbero state responsabili. Davanti all’inquisitore ed a tutti i rappresentanti del potere civile ed ecclesiastico, la confessione della donna assieme a “quanto era già noto” costituirono la base certa e comunque sufficiente per le successive azioni.

Bisogna a questo punto soffermarsi sulla logica che a fine ‘400 era condivisa trasversalmente a tutti i livelli sociali: le streghe esistevano, non agivano mai da sole e compivano sempre determinati atti. Comuni a tutta l’area mediterranea erano soprattutto i danni alla salute delle persone in genere, in particolare l’ammalarsi ed il morire di neonati, a loro attribuiti, ma che fa largamente sospettare che i piccoli fossero involontariamente schiacciati dal peso dei genitori con cui dormivano, tanto che si cercò sistematicamente di imporre l’uso della culla attraverso l’emanazione di leggi ecclesiastiche che proibiscano di far dormire gli infanti nello stesso letto dei genitori.

La particolarità italiana fu dunque molto diversa da quella franco-tedesca in cui il “patto col diavolo” risultava completo. Col “mito” delle masche di solito si conviveva e sul perché Oscar di Simplicio ne ha fornito una spiegazione molto convincente: nella maggior parte dei casi le voci e i fatti non sfociavano in atti giudiziari repressivi e punitivi in quanto si poneva in essere quello che può essere definito come “controllo naturale” a livello locale, ci si poneva cioè in diretto confronto con colei (o coloro) che sarebbero state  responsabili dei malefici, avviando così una serie di pressioni che inducevano la (le) responsabili a “disfare” il maleficio stesso, in una sorta di processo di auto-diagnosi e cura all’interno del gruppo sociale locale.

Ma torniamo al processo. La confessione della Motossa portò agli arresti successivi di Caterina Borrella e Caterina Bonivarda . Quest’ultima, rinchiusa da giorni nell’abbazia e interrogata per giorni, continuò a negare ogni addebito. Le carte processuali rinvenute non consentono di affermare con certezza che la successiva confessione della donna sia stata ottenuta con l’utilizzo della tortura (il cui utilizzo era stato autorizzato da papa Innocenzo IV con la bolla Ad extirpandam), ma lo scarto temporale tra l’inizio dell’interrogatorio (19 ottobre) e la piena confessione (25 novembre) e l’utilizzo della formula “extra torturam et locum torture” (“fuori dalla tortura e dal luogo della tortura”), fa propendere per tale conclusione.

Il 6 dicembre la conclusione: tutte le donne inquisite furono convocate assieme e resero in sostanze le medesime confessioni. Ogni corretta e verificata procedura accertativa che dovrebbe porre un argine tra ciò che è realmente accaduto, e ciò che si crede o vocifera sia accaduto, è posta in secondo piano rispetto a quel mondo immaginario o “metareale” come definito da G.G. Merlo, di cui la stregoneria fa parte. La “dimensione demoniaca” (partendo dall’unico fatto certo che è la morte della giovane inserviente) ha le sue logiche e i suoi effetti che non possono essere fermate. La “verità” delle confessioni non è mai messa in dubbio, tutta la società crede in questo universo fatto di delitti procurati a terzi con mezzi magici, ed alle “sette stregonesche” esecutrici dei comandi del grande nemico, il diavolo. Le molteplici pressioni, tra cui quella che in epoca contemporanea è definita “carcerazione preventiva”, la minaccia (o effettivo utilizzo) della tortura per incrinare gli spiriti e le volontà, completano l’iter processuale. Le parole non sono né contestualizzate né sono sottoposte a vaglio per verificarne l’autenticità, divengono automaticamente “la verità dei fatti”. Tutto ciò era parte della cultura e del folklore delle popolazioni, ed espressione di un crimine per coloro che erano deputati alla sua persecuzione ed estirpazione.

Conclusioni[modifica | modifica wikitesto]

I tre fascicoli processuali rinvenuti non consentono di avere certezza di quella che a fine processo fu la sorte delle sventurate donne. Probabile la condanna in quanto “heretiche, masche et apostate” e dunque la consegna alle autorità secolari per la comminazione della pena prevista e cioè la condanna al rogo.

Come considerazione finale si può sottolineare che nonostante la relativa assenza di “cacce” che caratterizza il territorio italiano a differenza del Sacro romano Impero almeno fino metà del XVII secolo, si dovrà comunque attendere il 1624 quando la Congregazione cardinalizia del Sant’Uffizio farà circolare seppure in modo ufficioso, ma comunque scritto, una Instructio pro formandis processibus in causis strigum, dove si sottolineerà la scarsa concretezza dei processi di stregoneria spesso fondati su indizi inconsistenti. Materia dunque da trattare con cautela e scetticismo.

Bibliografia[modifica | modifica wikitesto]

·       E. BRAMBILLA, La giustizia intollerante, Inquisizione e tribunali confessionali in Europa (secoli IV-XVIII), Roma, Carocci, 2006

·       G. CASIRAGHI, La diocesi di Torino nel Medioevo, Torino, Deputazione Subalpina di storia patria, 1979

·       O. DI SIMPLICIO, Autunno della stregoneria, Bologna, Il Mulino, 2005

·       R. COMBA, A. NICOLINI, “Lucea talvolta la luna”. I processi alle “masche” di Rifreddo e Gambasca del 1495, Cuneo, Società per gli studi storici della Provincia di Cuneo, 2004

·        G. G. MERLO, Contro gli eretici, Bologna , Il Mulino, 1996

·       Id., Streghe, Bologna, Il Mulino, 2006

·       G. ROMEO, L’inquisizione nell’Italia moderna, Bari, Laterza, 2002

Note[modifica | modifica wikitesto]

  1. ^ Salvo dove diversamente indicato le informazioni presentate nella voce provengono da R. COMBA, A. NICOLINI, "Lucea talvolta la luna". I processi alle "masche" di Rifreddo e Gambasca del 1495, Cuneo, Società per gli studi storici della Provincia di Cuneo, 2004.