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Ambasciatori del jazz[1] (in inglese Jazz ambassadors) è il nome dato ai musicisti jazz statunitensi inviati dal Dipartimento di Stato degli Stati Uniti d'America della presidenza Eisenhower in una tournée in Europa orientale, nelle regioni centro-sud asiatiche e in Africa con lo scopo di diffondere la cultura e i valori statunitensi nel mondo.[2]
La cosiddetta «diplomazia del jazz», nel contesto delle discriminazioni razziali interne al Paese e di uno scenario internazionale sempre più aperto e polarizzato (i primi anni della Guerra fredda), era una forma di diplomazia culturale che aveva lo scopo di promuovere un'immagine degli Stati Uniti più accogliente e distante dalle accuse sovietiche di instabilità interna legata alle tensioni razziali.[3][4] Tra i primi ambasciatori nel 1956 figurano artisti del calibro di Louis Armstrong, Dizzy Gillespie, Dave Brubeck, Benny Goodman e Duke Ellington.[5]
Antefatti[modifica | modifica wikitesto]
All'inizio degli anni Cinquanta, durante le lotte dei movimenti per i diritti civili, la decolonizzazione e la guerra fredda, i politici statunitensi si resero conto che era necessario un nuovo approccio alla diplomazia culturale statunitense.[6][7] L'allora presidente in carica, Dwight Eisenhower, era particolarmente preoccupato di come le tensioni razziali interne influenzassero la reputazione internazionale del Paese.[7] Vedeva la guerra fredda come una battaglia di idee, pensando che un programma di scambio culturale avrebbe potuto affrontare alcune di queste preoccupazioni.[6] Nel 1956 il Congresso formalizzò il President's Special International Program for Participation in International Affairs, conosciuto anche come Cultural Presentations Program; funzionari statunitensi spiegarono che lo scopo principale del programma era quello di «contrastare la propaganda russa».[6]
Il programma fu supervisionato dal Dipartimento di Stato, che ha avuto l'approvazione finale per la scelta dei musicisti,[6] e dall'American National Theatre and Academy. Fu sponsorizzato dall'emittente televisiva governativa Voice of America.[8] Nonostante il programma includesse un'ampia varietà di forme artistiche e culturali, il jazz venne ben accolto dal Dipartimento di Stato per il suo essere una forma d'arte indigena americana.[7] L'associazione del jazz con gli afroamericani, così come le sue band miste a livello razziale, potevano servire come una dimostrazione di equità razziale ed armonia.[9][10] Il Dipartimento di Stato si assicurò che le commissioni di selezione scegliessero solo artisti adatti, tenendo conto del loro talento musicale, della loro "americanità", della loro integrità, del loro carattere personale e della composizione razziale della band.[6]
Le tournée[modifica | modifica wikitesto]
Eredità culturale[modifica | modifica wikitesto]
I tour degli ambasciatori del jazz hanno esposto i musicisti statunitensi a nuovi stili e tradizioni musicali dei Paesi che hanno visitato. Gli album di Duke Ellington Far East Suite, Latin American Suite e Afro-Eurasian Eclipse hanno preso ispirazione dalle tournée di questo periodo,[11] e similmente il brano Rio Pakistan di Dizzy Gillespie prende ispirazione dal tour del 1956.[12] Quest'ultimo registrò diversi album durante i tour, come Dizzy in Greece e World Statesman. Anche l'album Jazz Impressions di Dave Brubeck del 1958 nasce dalla musica che aveva ascoltato durante il periodo da ambasciatore del jazz.[13] I ritmi sincopati che Brubeck sentì dai musicisti di strada turchi ispirarono il suo standard Blue Rondo à la Turk.[14]
Sebbene influenzati dalla musica tradizionale dei Paesi visitati durante le tournée, gli ambasciatori del jazz a loro volta furono in grado di influenzare la gente nei Paesi non allineati. La ricerca e l'incorporazione della musica locale di ogni Stato visitato permise ai musicisti finanziati dallo Stato di presentare degli Stati Uniti capaci di celebrare ed apprezzare le culture locali straniere.[10]
Note[modifica | modifica wikitesto]
- ^ Satchmo, Dizzy e gli ambasciatori del Jazz, su rai.it, Rai, 15 settembre 2020. URL consultato il 9 novembre 2023.
- ^ (EN) Billy Perrigo, How the U.S. Used Jazz as a Cold War Secret Weapon, su time.com, Time, 22 dicembre 2017. URL consultato il 9 novembre 2023.
- ^ Paolo Petrocelli, Jazz e diplomazia, su treccani.it, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 3 maggio 2023. URL consultato il 9 novembre 2023.
- ^ Von Eschen, 2006, pp. 3-4
- ^ Marcello Lorrai, Ambasciatori del jazz, su rsi.ch, RSI, 1° dicembre 2015. URL consultato il 9 novembre 2023.
- ^ a b c d e Davenport, pp. 38-39
- ^ a b c Von Eschen, 2006, pp. 5-6
- ^ (EN) James E. Dillard, All That Jazz: CIA, Voice of America, and Jazz Diplomacy in the Early Cold War Years, 1955-1965, in American Intelligence Journal, vol. 30, n. 2, 2012, pp. 39-50, ISSN 0883-072X .
- ^ Davenport, p. 7
- ^ a b (EN) Fred Kaplan, When Ambassadors Had Rhythm, su nytimes.com, The New York Times, 29 giugno 2008. URL consultato il 31 maggio 2024.
- ^ (EN) Rebecca E. Coyne, The Jazz Ambassadors: Intersections of American Foreign Power and Black Artistry in Duke Ellington's Far East Suite, in Inquiries Journal, vol. 13, n. 5.
- ^ (EN) Ajay Kamalakaran, Jazz Diplomacy in South Asia, su The Friday Times, 20 settembre 2019. URL consultato il 31 maggio 2024 (archiviato dall'url originale il 26 novembre 2020).
- ^ (EN) Naresh Fernandes, America’s original ambassador of cool, su thehindu.com, The Hindu, 18 ottobre 2016. URL consultato il 31 maggio 2024.
- ^ (EN) Fred M. Kaplan, 1959: The Year Everything Changed, John Wiley & Sons, 2009, pp. 130-131, ISBN 978-0-470-38781-8.
Bibliografia[modifica | modifica wikitesto]
- (EN) Lisa E. Davenport, Jazz Diplomacy: Promoting America in the Cold Era, University Press of Mississippi, 20 luglio 2009, ISBN 978-16-04732-68-9.
- (EN) Penny M. Von Eschen, Satchmo Blows Up the World: Jazz Ambassadors Play the Cold War, Harvard University Press, 30 settembre 2006, ISBN 978-06-74022-60-7.