Utente:Facquis/Sandbox/Repubblicanesimo in Italia

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Il repubblicanesimo in Italia

Storia[modifica | modifica wikitesto]

Le idee repubblicane e l'unità d'Italia[modifica | modifica wikitesto]

Lo stesso argomento in dettaglio: Statuto Albertino e Unità d'Italia.
Giuseppe Mazzini

Il movimento repubblicano italiano moderno affonda le sue origini nella storia delle repubbliche del mondo antico (Roma, p.e.) e nella storia delle repubbliche medievali (p.e. Pisa, Siena, Lucca, Firenze, Genova, Veneia, Amalfi, Ragusa...), che entrarono in crisi definitiva nel Rinascimento (solo alcune sopravvissero, tra queste quella di San Marino, ancora esistente e quindi considerata la più antica entità di governo esistente). Tra i principali teorici e attivisti nella difesa delle repubbliche medievali spiccano uomini come Girolamo Savonarola, Niccolò Machiavelli e Francesco Burlamacchi. Dopo la Rivoluzione francese il repubblicanesimo tornò a conquistare seguaci anche in Italia (vedi le così dette Repubbliche giacobine). Con la restaurazione dell'inizio '800 il movimento repubblicano divenne molto forte e fu il protagonista dei fatti del 1848. Tra i principali fautori del repubblicanesimo risorgimentale potremmo citare Giuseppe Mazzini, Carlo Cattaneo, Giuseppe Ferrari, Carlo Pisacane, Cristina Trivulzio di Belgiojoso. Nel luglio 1831, Giuseppe Mazzini, esule a Marsiglia, fondò la Giovine Italia, il movimento politico che, per primo, si pose come obiettivo quello di trasformare l'Italia in una repubblica democratica unitaria, secondo i principi di libertà, indipendenza e unità, destituendo le monarchie degli stati preunitari, Regno di Sardegna compreso. La Giovine Italia costituì uno dei momenti fondamentali nell'ambito del Risorgimento italiano e il suo programma repubblicano precedette nel tempo sia l'ideologia neoguelfa di Vincenzo Gioberti (unificazione d'Italia sotto il Papato), sia quella filo-piemontese di Cesare Balbo. Successivamente, il milanese Carlo Cattaneo si fece promotore di un'Italia laica come intesa da Mazzini, ma organizzata in repubblica federale.

Il progetto politico mazziniano e quello di Cattaneo furono vanificati dall'azione del presidente del Consiglio piemontese Camillo Benso di Cavour e di Giuseppe Garibaldi; quest'ultimo, pur provenendo dalle file della Giovine Italia mazziniana accantonò il problema istituzionale ai fini dell'Unità d'Italia. Dopo aver proceduto alla conquista di quasi tutta l'Italia meridionale (Regno delle Due Sicilie), con l'impresa della Spedizione dei Mille, Garibaldi consegnò i territori conquistati al Re di Sardegna Vittorio Emanuele II, ricevendo pesanti critiche da alcuni repubblicani stessi che lo accusarono di tradimento, anche se Garibaldi continuò ad agire di propria volontà e in continuo contrasto con il governo monarchico italiano.

Il 17 marzo 1861 il Parlamento Subalpino proclamò Vittorio Emanuele II non re degli italiani ma «re d'Italia, per grazia di Dio e volontà della nazione». Non "primo", come re d'Italia, ma "secondo" come segno distintivo della continuità della dinastia di casa Savoia[1]. La costituzione adottata fu lo Statuto Albertino promulgato nel 1848 da Carlo Alberto di Savoia, re di Sardegna[2].

Felice Cavallotti

Nel 1861, quando, in seguito al processo di unificazione, al Regno di Sardegna successe il Regno d'Italia, lo statuto non fu modificato (non era prevista una revisione costituzionale) e restò dunque il cardine giuridico al quale si sottometteva anche il nuovo stato nazionale. Prevedeva un sistema bicamerale, con il parlamento suddiviso nella Camera dei deputati, elettiva (ma solo nel 1911 si sarebbe giunti, con Giolitti, al suffragio universale maschile), e nel Senato, di sola nomina regia.

Gli esponenti repubblicani – che, nel 1853, avevano costituito il Partito d'Azione – parteciparono anch'essi alle elezioni del Parlamento italiano; gli stessi Mazzini e Garibaldi risultarono eletti in talune occasioni. Nel 1877, repubblicani e democratici costituirono il gruppo parlamentare dell'estrema sinistra. Il problema del giuramento di fedeltà alla monarchia, richiesto agli eletti, fu polemicamente risolto dal maggior esponente dell'"estrema", Felice Cavallotti, il quale, prima di recitare la formula dovuta, ribadì le sue convinzioni repubblicane, precisando di non attribuire alcun valore etico o morale alla formalità cui si stava sottoponendo[3]. Nel 1895 anche i repubblicani più intransigenti cominciarono a partecipare alla vita politica del Regno, costituendo il Partito Repubblicano Italiano. Due anni dopo, l'estrema sinistra conseguì il massimo storico degli eletti al Parlamento con 81 deputati, nelle tre componenti radical-democratica, socialista e repubblicana.

Con la morte di Cavallotti e l'ingresso nel XX secolo, la componente radicale rinunciò per prima alla riproposizione del problema istituzionale. Nel 1901, il suo leader Ettore Sacchi affermò che ogni “pregiudiziale” nei confronti della monarchia doveva essere abbandonata, ritenendo tutte le riforme propugnate dai radicali compatibili con l'istituto monarchico[4]. Nel 1913, tuttavia, i socialisti ufficiali, i sindacalisti e i repubblicani conseguirono un lusinghiero risultato, riuscendo a far eleggere ben 77 deputati[5], senza contare i socialisti riformisti, filo-monarchici.

Nel 1914, allo scoppio della prima guerra mondiale, l'Italia poteva essere annoverata fra le democrazie liberali, benché le tensioni interne, dovute alle rivendicazioni delle classi popolari, insieme con la non risolta questione del rapporto con la Chiesa cattolica per i fatti del 1870 (presa di Porta Pia e occupazione di Roma), lasciassero ampie zone d'ombra.

Il repubblicanesimo nel primo dopoguerra e l'avvento del fascismo[modifica | modifica wikitesto]

Alle elezioni del 1919, i partiti di ideologia repubblicana (i Socialisti massimalisti e il Partito Repubblicano) conseguirono alla Camera dei deputati 165 seggi su 508[6]; nel 1921, dopo la fondazione del Partito Comunista d'Italia, i tre partiti elessero complessivamente 145 deputati su 535[7]. Sostanzialmente, all'inizio del primo dopoguerra, circa il 30% degli eletti alla Camera era favorevole a una Repubblica democratica o socialista.

In questo contesto si inserì Mussolini fondando i Fasci italiani di combattimento, che, in breve, utilizzando le tematiche care ai nazionalisti italiani e sfruttando la delusione per la "vittoria mutilata", si sarebbe presentato come baluardo del sistema politico liberale italiano filo monarchico contro la sinistra marxista e rivoluzionaria di ideologia repubblicana. Non indifferente fu l'appoggio al giovane movimento dell'alta borghesia, sia terriera sia industriale, dell'aristocrazia (la stessa regina madre, Margherita di Savoia, fu sostenitrice del fascismo), dell'alto clero e degli ufficiali, naturalmente dato dopo aver espunto quei caratteri socialisteggianti tipici del sansepolcrismo. In realtà il sistema politico liberale elesse il fascismo a suo baluardo ma ne fu a sua volta vittima, poiché venne sostituito da un regime autoritario, totalitario, militarista e nazionalista.

La nomina, da parte di Vittorio Emanuele III, di Benito Mussolini come primo ministro, nell'ottobre 1922, seppur non contraria allo Statuto, che attribuiva al re ampio potere di designare il governo, era contraria alla prassi che si era instaurata nei decenni precedenti. Lo stesso Statuto albertino ne uscì svuotato nei contenuti dopo l'instaurazione effettiva della dittatura fascista nel 1925. Le libertà che esso garantiva furono sospese e il Parlamento fu addomesticato al volere del nuovo governo. Infatti, la posizione del cittadino al cospetto delle istituzioni vide, durante il fascismo, una duplicazione della sottomissione prima dovuta al re, e ora anche al "duce" (Benito Mussolini), e si fece più labile la condizione di pariteticità fra i cittadini (e fra questi e le istituzioni), allontanandosi dai principi democratici già raggiunti. La rappresentanza fu fortemente (se non assolutamente) condizionata, vietando tutti i partiti e le associazioni che non fossero controllate dal regime (eccezion fatta per quelle controllate dalla Chiesa cattolica, comunque soggette a forti condizionamenti, e della Confindustria), giungendo a trasformare la Camera dei deputati in Camera dei Fasci e delle Corporazioni, in violazione allo Statuto. In tutti questi anni, da parte del potere regale, non vi fu alcun esplicito tentativo di opporsi alla politica del governo fascista[8].

Note[modifica | modifica wikitesto]

  1. ^ Alfredo Oriani, La lotta politica in Italia 1892 in Tommaso Detti, Giovanni Gozzini, Ottocento, Pearson Paravia Bruno Mondadadori, 2000, p. 184
  2. ^ Giorgio Rebuffa, Lo Statuto Albertino. Il Mulino, 2003.
  3. ^ Alessandro Galante Garrone, I radicali in Italia (1849-1925), Garzanti, Milano, 1973, p. 129-131
  4. ^ Alessandro Galante Garrone, Cit., p. 363
  5. ^ Francesco Bartolotta, Parlamenti e Governi d'Italia dal 1848 al 1970, Vol. I, Vito Bianco Editore, Roma, 1971, p. 165
  6. ^ Francesco Bartolotta, cit., p. 174
  7. ^ Francesco Bartolotta, cit., p. 179
  8. ^ P. Viola, op. cit., pp. 69-75 e 83-107

Bibliografia[modifica | modifica wikitesto]