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Viaggio nel Sud
AutoreAntonio Seccareccia
1ª ed. originale1958
Genereraccolta poetica
Lingua originaleitaliano

Viaggio nel Sud è una raccolta poetica di Antonio Seccareccia pubblicata nel 1958 da Amicucci.

Struttura[modifica | modifica wikitesto]

Viaggio nel sud è il titolo della prima raccolta di poesie di Antonio Seccareccia, pubblicata nel 1958 dall’editore Amicucci di Padova: si componeva di trenta liriche in quanto, per ragioni tipografiche, la collana in cui la raccolta era inserita prevedeva un numero standard di pagine. L’edizione ora disponibile, pubblicata da Hacca Edizioni nel 2009, raccoglie quarantasette liriche poiché, alle trenta precedenti, ne sono state aggiunte diciassette[1]. L’ordine delle poesie segue l’ordine manoscritto dallo stesso Seccareccia, come si evince dalle carte custodite dalla figlia Rita.

La raccolta è suddivisa in quattro sezioni non titolate, ma distinte da numeri romani. Quattro liriche presentano una dedica: Primizie, dedicata alla madre, Colloquio di fanciulli, dedicata “ai piccoli di S. Mauro Torinese”, Pomeriggio toscano dedicata al poeta lucchese Garibaldo Alessandrini, e infine Finestra su Roma, con dedica a Giorgio Caproni. La sezione III si apre con la lirica Viaggio nel Sud, che dà il titolo all’intera raccolta, la quale inizia e si conclude con due liriche alla madre: la già citata Primizie, e Lettera d’amore a mia madre (II).

Tutte le poesie hanno un titolo, che però viene loro attribuito dal poeta in maniera non uniforme: alcuni titoli indicano aspetti contenutistici del testo (Visione, Sera d’autunno, Sinfonia bianca), altri riprendono il verso iniziale (Il mio pane, Vorrei passare, La mia culla, Ogni giorno che passa, Son come favole), oppure ancora versi contenuti all’interno della lirica (Come il fiume, Due case due giardini, Aie). Appare abbastanza scoperta qualche allusione a componimenti pascoliani (Novembre, La voce, La sua sera) o montaliani, come la lirica Mediterranea. Meno probabile sembra il richiamo kafkiano di Lettera al padre, perché nella raccolta è ricorrente la forma della lirica-lettera, che ritroviamo anche in Lettera a Lea, Lettera d’amore a mia madre, Lettera d’amore a mia madre (II); è presente la lettera anche nella variante della cartolina, nella brevissima lirica La cartolina del volontario


Elementi stilistici e linguistici[modifica | modifica wikitesto]

«Quand’ero ragazzo, e sognavo
di diventar poeta, mi dicevo:
«Racconterò di queste fresche siepi
tra cui la strada scorre come un fiume,
di tutti questi nidi e queste more;
di queste acque gelate
che bevo con il cavo delle mani.
Voglio essere il poeta delle strade».»

Questa lirica può essere considerata come un piccolo manifesto programmatico della poetica di Seccareccia, e di quelle che saranno le sue scelte stilistiche e linguistiche: intanto vi si afferma una precoce volontà di seguire le strade del canto poetico che, fin da ragazzo, appaiono tracciate con precisione nella sua mente. Seccareccia si apre al sogno di diventare poeta, ma di una poesia che finisca col raccontare ciò che già sta vivendo, ovvero il piccolo orizzonte della sua campagna meridionale. Una poesia, dunque, che rimanga strettamente legata alle origini contadine e non perda mai i legami con la terra, il paesaggio e gli affetti di sempre. Da qui deriva l’insistenza sui dimostrativi, che servono a evidenziare la marcata presenza biografica; la presenza dei deittici deriva forse dall’influenza di Ungaretti, ma in questo caso richiama scopertamente L’infinito di Leopardi: “Queste fresche siepi”, “Questi nidi e queste more”, “Queste acque gelate”. Seccareccia, dunque, non cerca altro canto se non quello che appartiene all’universo ristretto e povero della sua vita, con l’ambizione, anzi con la precisa volontà, di diventare poeta di camminamenti: “Voglio essere il poeta delle strade”.

Conseguenza logica di questa premessa è che la sua scelta sia orientata a un’espressività immediata e scarsamente aderente ai filtri dell’artificio retorico; la poesia di Seccareccia si potrebbe definire “scabra ed essenziale” – parafrasando Montale –, come l’anima del ragazzo che la sta immaginando. La sua consapevole scelta espressiva si manterrà intatta per tutta la raccolta e si rifletterà, come vedremo, tanto negli esiti metrici quanto in un’elementarità della lingua. I versi liberi assumono il tono discorsivo della poesia-prosa che, per l’appunto, non si avvale di artifici tecnici o di sofisticati elementi retorici.

Il cielo chiuso di questa stagione ha un richiamo anche nella forma poetica delle liriche, in cui la strofa è tradizionale e la metrica sorvegliata. Gran parte delle poesie presenta una struttura breve, composta da otto o nove versi, e già il la prima lirica, Primizie, si sviluppa su due quartine come a introdurre, con la poesia di apertura, tutta la raccolta.

Si avverte sempre una certa cura dell’aspetto metrico – che rivela la necessità di mantenere in una forma predefinita lo svolgimento lirico –, ma all’interno di questa forma i versi sono molto vari. A parte pochi versi brevi, dominano il novenario – che mantiene la lirica sul tono cantilenante –, il decasillabo e soprattutto l’endecasillabo; solo a partire dalla sezione III, invece, il controllo si perde e si registra la presenza di versi molto lunghi, fino a quindici o sedici sillabe.

Si possono ravvisare, nella raccolta, molti di quei tratti che vengono considerati come caratteristici della poesia del secolo scorso. Tali elementi caratteristici consistono nel ricorso alla metafora, all’analogia, alla sinestesia, all’uso particolare dei verbi e agli pseudo-complementi di materia. Bisogna rilevare che, osservata da questo punto di vista, la poesia di Seccareccia presenta moltissimi aspetti che sono debitori del clima poetico di quegli anni, in particolare dell’Ermetismo, anche se rivisitato e temperato da una colloquialità potrebbe avere il suo ascendente in Caproni. L’influenza maggiore è esercitata dal cosiddetto Ermetismo “debole”, cioè dolce, sonoro e cantabile che faceva capo ad Alfonso Gatto, ma non si può non segnalare anche l’ascendente di Ungaretti, Caproni e Cardarelli. Quando Seccareccia parla di ‘immediatezza’ e ‘semplicità’ della sua poesia non significa, dunque, che non abbia debiti nei confronti della poesia coeva; semplicemente contrae questi debiti in modo sereno, senza velleità di grande poeta e senza ambire a particolari innovazioni linguistiche. Non si preoccupa di vietarsi espressioni che potrebbero suonare abusate per la poesia del suo tempo, cosa che accade in modo particolare con le metafore e le sinestesie.

Analisi tematica[modifica | modifica wikitesto]

Il cielo chiuso e il rimpianto dell'infanzia[modifica | modifica wikitesto]

Viaggio nel Sud è la raccolta poetica che raccoglie le liriche scritte principalmente durante la permanenza del poeta nell’Arma dei Carabinieri. Quasi tutte le poesie risentono, quindi, di una sensazione particolare, che è la prigione angosciante di un tempo senza stupore, come si legge nella lirica che dà il titolo a tutto il libro, Viaggio nel Sud (p.59):

«Sono stanco di questo cielo chiuso.
Sono anni che vado a letto e mi sveglio
al suono di una tromba, che porto
sempre lo stesso vestito.
So già le parole che mi diranno domani
e il tratto di strada che farò,
in un tempo già scritto,
come un treno sulle rotaie. […]»

Il “cielo chiuso”, il “tempo già scritto”, sono i simboli di una vita monotona, ripetitiva, asfittica, in cui l’uomo viene privato della sua capacità di autodeterminarsi. Per Seccareccia questa privazione della libertà è senz’altro l’ostacolo più grande allo sviluppo della vita e della personalità dell’uomo, che per sua natura dovrebbe avere la possibilità di scegliere il proprio cammino, e invece si trova costretto a procedere “come un treno sulle rotaie”. Da questa sensazione di prigionia e di meccanicità dell’esistenza, scaturisce la seconda parte della lirica:

«[…] Forse è stato solo in sogno
che una volta ho viaggiato nel Sud,
per strade fiorite d’oleandri,
e sentito il vento vivo sulla fronte.
Dio, quando spunterà il giorno
in cui uno sconosciuto mi dirà:
«Sei libero, puoi andare dove vuoi tu»?»

Il “viaggio nel Sud” di cui parla Seccareccia non è un semplice ritorno al Sud, verso la casa e il passato, né un mero rifugiarsi negli affetti e in quella che era stata la sua vita antecedente all’ingresso nella società. Certo, tali aspetti sono preponderanti, e possiamo rintracciare in quasi tutte le poesie il recupero di queste esperienze di vita; ma il suo viaggio non è un ritorno acritico nel passato. Il poeta si rivolge a un Sud rivisitato alla luce delle sue esperienze di vita, e dunque torna indietro con occhi nuovi, più consapevoli, con il sentimento di chi vuole reimmergersi nell’esperienza originaria, ma con sguardo rivolto al futuro: “Sei libero, puoi andare dove vuoi tu”.

Seccareccia fece realmente quel viaggio, decidendo di ritornare a casa in un periodo della sua vita in cui si trovava ad affrontare una crisi profondissima, umana e spirituale. Quando ritorna, però, si accorge che molte cose sono cambiate anche lì, e pertanto il suo Sud si fissa nella memoria come un luogo dello spirito e mitico, più che reale. Il Sud, cioè, diventa una sorta di terra promessa, un luogo del cuore che – contrapponendosi alla sua vita da automa – si carica di elementi vitali, come le “strade fiorite d’oleandri” e “il vento vivo sulla fronte”, quasi come fosse un soffio capace di ridonargli la vita.

Il ritorno al Sud permette al poeta anche di comprendere il valore di ciò che ha perso, e di riconoscere la ricchezza di quel mondo che da bambino non gli appariva così allettante. Guarda con tenerezza, ad esempio, quelle sue giornate “scandite dal ritmo semplice del lavoro e del riposo”[1], come nella poesia I mestieri (p.52):

«[…] Così, terra per terra diventai contadino
e zappai per chi mi pagava di più.
Almeno il giorno mangiavo libero
il pane e l’aringa, e bevevo
l’acqua alle sorgenti
e caldo vino alla fiasca comune.[…]»

La vita del contadino era una vita di stenti, ma era libera; e il tono del rimpianto ricorre in molte altre liriche della raccolta, come ne La voce (p.45), che si conclude con questi versi:

«[…] O erano
l’infanzia e il primo amore
che volevano prendersi giuoco di me,
di quando, stupido,
non pensavo che a crescere.»

Seccareccia racconta una fase dell’esistenza in cui la vitalità giovanile è esplosiva, spinge a guardare solamente avanti, e sembra voler bruciare le tappe per raggiungere l’agognata maturità. Poi, però, si verifica un’inversione: gli anni trascorrono troppo velocemente, e con le prime delusioni si inizia a guardare indietro, rimpiangendo il desiderio di aver voluto crescere così in fretta. Con versi semplici, sinceri, puliti, il poeta guarda a se stesso senza nessuna finzione, e si chiede a cosa siano servite tante esperienze e tanti viaggi compiuti, se ciò che la vita gli ha riservato – dopo la sua partenza dal Sud – in fondo è stato una corsa verso il nulla, come nella poesia Lo scrigno (p.65):

«[…] E mi dico: Non vale la pena
crescere di nuovo ora che sai,
che hai viaggiato in treno e visto
il mare e conosciuto anche l’amore.
Era per questo, no? che tu volevi
essere grande, e non per capire
gli uomini e far la corsa con il tempo,
perché tu non sei come il sole,
tu non hai che una giornata sola
per soffrire o essere felice.»

Se questa “corsa con il tempo” non gli ha fatto raggiungere nulla che già non sapesse, non valeva la pena di affannarsi tanto. Seccareccia, grande amante della letteratura latina, qui si ispira probabilmente all’immagine catulliana dei giorni che possono tramontare e risorgere, a differenza della vita umana, destinata a una notte eterna. La vita dell’uomo è fugace, non può splendere per sempre, e questa corsa per diventare adulto gli ha fatto soltanto sprecare un po’ di luce. Su tematiche simili si attesta anche Giorni di pioggia (p.75), in cui ritorna la mitizzazione del passato e dell’infanzia:

«Oh, i mattini d’una volta!
I compagni mi chiamavano
con un fischio dalla strada
(due dita fra le labbra), e via,
per la valle fresca di rugiada.
Portavo un pane rosso nella carta
e avevo gli abiti laceri
– un ginocchio nudo, – ma ero io,
il ragazzo di paese senza sogni.
Dopo, mi presero a tradimento, mi gridarono:
«Studia diventa un uomo».
Che ho imparato? Nulla,
neanche a soffrire. Neanche
a sopportare un giorno di pioggia
in un paese di villeggiatura.»

I primi contatti del poeta con la vita, da bambino, erano stati aspri e duri: indossava abiti vecchi, mangiava pane di granturco – che era quello più povero –, “ma ero io” afferma, cioè riconosce in quella povertà un modo di vivere puro e autentico. Il contatto con la vita sociale, da cui lui e gli altri si aspettavano un riscatto, viene dipinto, invece, come una delusione e addirittura come una diminuzione della capacità di vivere: “Che ho imparato? Nulla,/ neanche a soffrire”. La formazione e lo studio – soprattutto quello meccanico a cui era sottoposto in caserma[1] – non insegnano ad accettare le limitazioni e a sopportare la vita nei suoi disagi, nemmeno quando si tratta di una frustrazione lieve come un giorno di pioggia durante le vacanze.

Le delusioni dell'età adulta[modifica | modifica wikitesto]

Tutta la raccolta è pervasa da una concezione pessimistica della vita sociale, quella conosciuta nel momento in cui iniziò a viaggiare per entrare nell’Arma. Il poeta ce la descrive come una realtà deviata dall’interesse, dalla falsità e dall’autoritarismo. Anche se – come notava Caproni – le poesie attraversate da una tematica sociale sono forse quelle meno riuscite, Seccareccia possiede “un occhio infallibile nel ridurre al troppo umano, al semplice, al nudo, al niente persino, le vantate grandezze degli uomini”[1]. Nella lirica Finestra su Roma (p.88) affiora bene il senso di caducità del destino umano, tanto che persino la “città eterna” viene vista – con sguardo disilluso – come un cumulo di pietre:

«Roma nella pianura
è un lungo mucchio di pietre,
anche le chiese dove l’uomo prega,
le case dove ama, gli ospedali
bianchi dove si spegne.
Dove sono, stasera, i grandi uomini
che gridano e minacciano? […]»

Non esistono per Seccareccia i “grandi uomini”, perché siamo tutti uguali di fronte alla vita, all’amore e alla morte. Le pietre sono il simbolo di un ordine provvisorio che si può sempre disfare e ricomporre, proprio come provvisoria è l’esistenza di ogni uomo sulla Terra. Nella poesia La sua sera (p.47), i pensieri e i sogni di un mendicante stanco, che volano nel cielo “con gli ultimi cirri di fumo”, faranno la stessa fine di quelli dei potenti:

«[…] (Anche gli alti pensieri dei potenti
sono svaniti come i suoi pensieri!).»

Seccareccia sente una profonda empatia per quelli che sono soggetti a disprezzo ed emarginazione, poiché in loro rivede se stesso e le proprie esperienze. Così in Solitudine (p.60):

«La gente è partita per tempo
per una giornata di baldoria in montagna,
e in città siamo rimasti noi soli,
il soldato e la serva.
Per questo, incontrandoci
ci siamo riconosciuti fratelli,
ed abbiamo passeggiato come signori
per le grandi vie del centro,
e riposato nei giardini
con le gambe accavallate,
noi che abbiamo sempre dovuto
girare come ladri
per la periferia dopo il tramonto.»

Il soldato e la serva si riconoscono “fratelli” perché sono accomunati dallo stesso senso di emarginazione da parte della società,  e questa solitudine – mentre tutti sono via per le vacanze – diventa per loro un balsamo e un assaggio di libertà. Finalmente possono appropriarsi degli spazi della città come fossero veri signori, e vivere la vita senza la gabbia di condizionamenti e regole che la società impone loro. Il senso della fratellanza ritorna anche nella lirica Vorrei passare (p.51), nella quale il poeta immagina di poter camminare “cedendo il passo a tutti”, ovvero mettendo da parte l’orgoglio e i conflitti:

«[…]
Vorrei passare sulla terra
come Gesù sul lago di Cafarnao
per avere tutti fratelli.»

Di fronte a una vita che gli aveva riservato non poche difficoltà e umiliazioni, questi ideali evangelici di pace e fratellanza si configurarono sempre più, per il poeta, come semplici utopie. E anche il tema dell’amore, in questa raccolta, non ha connotazioni positive; è un tema sfumato e soltanto accennato, perché non è nell’amore che si risolve il percorso dell’uomo. L’amore è soltanto uno degli aspetti che aiuta a vivere e a superare alcune difficoltà, ma non è l’esperienza totalizzante che possa dare senso all’esistenza. Il suo compito principale è offrire sollievo alla condizione di solitudine in cui l’uomo costantemente vive, poiché per Seccareccia l’uomo è solo: sente il bisogno di condividere con gli altri i suoi problemi e le sue angosce, ma sa – con un certo scetticismo – che si tratta di consolazioni provvisorie:

«[…]
Ogni strada ha la sua gioia,
ogni siepe il suo mentastro,
ogni cima la sua luce
irradiata sulla valle solitaria.
Per questo, ora, ho ripreso
il mio cammino senza più cercarti.»

Come gli elementi citati – la strada, la siepe, la cima – anche l’uomo ha un destino individuale: l’incontro con gli altri nei rapporti può essere occasionale, ma poi bisogna accettare con coraggio di riprendere il proprio cammino in solitudine. Nell’amore delle donne il poeta non cerca mai promesse di eternità, ma il conforto della vicinanza e la condivisione di un breve tratto di strada:

«[…]
Tu dici «T’amo». Ma io non chiedo pietà.
Dimmi, piuttosto – non voglio sapere
perché lo farai, se mi ami davvero –
che staremo insieme l’inverno, e la sera
ci scalderemo le mani sulla fiamma.»

Con sguardo disilluso il poeta rifugge le promesse e non chiede all’amata parole vane, ma il calore della sua presenza; e da quel ricordo sarà confortato anche nei momenti di assenza, come in Lettera a Lea (p.76):

«[…]
Tu vieni, ma riparti, e non mi lasci di te[…]
Tu vieni, ma riparti, e non mi lasci di te
che il profumo dei capelli,
il ricordo di un’ora di felicità
da difendere contro giorni di solitudine. […]
che il profumo dei capelli,
il ricordo di un’ora di felicità
da difendere contro giorni di solitudine. […]»

La vita del carabiniere era una vita senza certezze, soggetta a continui trasferimenti, spesso repentini; è per questo che l’amore, nelle poesie di questa prima raccolta, non ha nessuna ambizione di durata. Molto spesso i rapporti sono segnati da lontananze e assenze anche nei giorni di festa, quando il desiderio di compagnia e di affetto si fa più forte. Nella lirica Nostalgia di Natale (p.87) il tepore di una casa in festa – con le bucce d’arance sulla tavola, il camino, i parenti vestiti con gli abiti nuovi – è spezzato dal pensiero della partenza imminente:

«[…]
Stasera – fra tre ore – dovrò partire.
(Lascerò anche te!).
Il lungo treno sarà freddo e vuoto:
chi parte la sera di Natale?
Addio, amore. Dormirò in treno,
gettato in un posto d’angolo. Anche tu
– forse – sarai triste (chi mi dice
che m’ami davvero?). Partirò solo,
il mio solito viaggio senza attesa.
Sarà una spina nel cuore il tuo ricordo,
l’ultima tua parola
gettata nel vento dietro il treno in fuga.»

La partenza è un brusco strappo, un passaggio dal calore degli affetti allo scompartimento freddo di un treno, simbolo di un viaggio anonimo che non ha nessuno ad attendere dall’altra parte. Ed è proprio in questi momenti che l’amore non solo si fa più incerto – “chi mi dice che m’ami davvero?” –, ma diventa un’esperienza lacerante, “una spina nel cuore”, che deve aggrapparsi al suono di una parola come ultimo momento di felicità.

Il rifugio nella memoria[modifica | modifica wikitesto]

Per ritrovare un po’ di umanità e di calore, il poeta cerca conforto nel proprio passato, e pertanto il motivo dominante di tutta la raccolta diviene il ricordo: dell’infanzia, del paese, del suo mondo piccolo e protettivo, disegnato tra orizzonti vicini e rassicuranti:

«Son come favole, adesso,
la mia infanzia e i pellegrinaggi estivi
ai santuari di montagna,
la voce di mia madre
seduta al sole davanti alla porta.
Forse non vedrò più
gli ulivi sulla collina
mutar colore nel vento, a vista d’occhio […]»

Sono tutti elementi, questi, che “son come favole adesso”, cioè talmente remoti da esistere ormai al limite tra realtà e fantasia, e cristallizzati per sempre in queste immagini. La memoria, infatti, è dipinta da Seccareccia come una memoria sfuggente[1], labile, una sorta di archivio da cui l’uomo tenta di recuperare i ricordi e fissarli, come in questi versi della poesia Novembre (p.37):

«[…] Io cerco di rivivere un ricordo,
prima che il tempo se lo porti via
come il vento una foglia nella strada.»

Il poeta sembra qui voler lottare contro un tempo tiranno che spazza via i suoi ricordi, e così si affretta a bloccarli nella mente e farli propri. C’è il rischio, altrimenti, che le esperienze vissute finiscano in un magma indistinto, come in questa poesia in cui una voce “di tanti anni fa”, da cui il poeta si sente chiamare, può ormai appartenere a chiunque; e per quanto si affanni a cercarne la fonte, resterà sempre nella nebbia dei ricordi:

«Così, mentre ero nella folla,
mi son sentito chiamare,
una voce di tanti anni fa. Forse
era un’antica compagna di giuochi
che voleva rivedere
nei miei occhi la sua gioia,
o una compagna di pena
conosciuta in un’isola Egea,
che voleva risentire una promessa
dalla mia voce. […]»

Nel ricordo la realtà perde la sua chiarezza e molte delle sue sfaccettature, ma è anche vero che ciò che la memoria cristallizza dentro di noi diventa eterno. Le esperienze assumono forme particolari e fisse che non tramonteranno più, e vengono di solito trasfigurate poiché colte nei loro momenti più belli:

«[…]
Fontane, fontane nascoste nel verde
di cui il passante
non conoscerà altro che la musica,
e un lontano riflesso
negli occhi dolci della sua compagna.
Nel mio cuore, il tempo
ha fatto dei castagni di Fiesole
una fioritura diafana
su cui non scenderà l’autunno.[…]»

Di una passeggiata lungo l’Arno rimangono nella memoria solo frammenti, come il suono delle fontane e i giochi di luce dell’acqua negli occhi di una ragazza, o ancora la fioritura dei castagni: pochi ricordi, ma immutabili, su cui “non scenderà l’autunno”. Persino le memorie degli anni di guerra perdono, nelle poesie di Seccareccia, i tratti più violenti e oscuri, e affiorano in poesia in una veste nuova:

«Il mare mi ricorda le terre,
le terre visitate da fante.
Del deserto africano serbo nel cuore
solo la luce bianca e il silenzio.
Delle battaglie, dei compagni morti,
delle lunghe colonne che marciavano lente
in nugoli di sabbia rossa,
oggi non ho quasi più memoria.
[…]La sera, al tramonto, il sole non era
che una piccola ostia di luce
sospesa nel duplice azzurro
come tra labbra umane:
e le labbra erano i due orizzonti.»

Dei viaggi di guerra, che portavano con sé morte e distruzione, paradossalmente rimangono solo ricordi di luce e di pace: la luce bianca, il silenzio, il sole al tramonto come una piccola ostia; si tratta, cioè, di immagini serene, come se la memoria, col tempo, le avesse ripulite da ogni negatività e bruttura.

Anche in Colloquio di fanciulli (p.39) torna il tema della memoria che trasfigura, quando tre ragazzi si confrontano sui rispettivi luoghi di nascita: “Uno sull’Alpi[…] al margine del bosco degli abeti”, “uno al centro, in cuore alla Maremma”, e “il terzo là in Sicilia, sulla costa”. Sono tre orfani, dunque ragazzi dal passato difficile, per i quali queste immagini – nonostante la giovane età – sono già diventate mitiche nel ricordo, proprio come accade a un esule anziano che ripensa alla propria giovinezza:

«[…]
Ed erano più belli nel ricordo,
perché lontani, quasi come infanzia
rivissuta da un esule canuto.
Nel cielo s’inseguivano le nuvole
dirette forse all’Alpi, alla Sicilia,
sulla pianura opaca di Maremma:
come dei tre fanciulli la memoria.»

La natura[modifica | modifica wikitesto]

Più il vissuto è stato duro e difficile, più i ricordi delle proprie origini assumono una connotazione di conforto, di un’età dell’oro ormai perduta. Questo accade anche al poeta, per il quale la memoria “trasforma ogni traccia di autobiografia in canto e favola”[1], e molte sue rievocazioni – soprattutto risalenti alla primissima infanzia – assumono delle tonalità elegiaco-fiabesche. È il caso del componimento La culla (p.54), in cui i contorni della realtà sfumano nella leggenda:

«La mia culla fu un vecchio mantello,
un nido di falco che mia madre
portava dalla casa alla campagna
e trasformava in amaca
per i miei riposi sereni.
La mia culla fu come un’ombra d’ala
nei rami bassi d’un albero
in fondo a un sentiero. Nella terra arsa
i passi di mia madre non avevano un’eco.
Più rumore facevano le foglie sul mio capo,
gli uccelli ch’io non impaurivo. […]»

La terra per il poeta è sempre terra-madre, una natura dal cui grembo sente di essere stato generato e con la quale è profondamente fuso, in una sorta di panismo che ritroveremo anche nella sua concezione della morte. Seccareccia conosceva perfettamente la natura, perché era cresciuto tra i campi e aveva fatto il contadino, e per questo in quasi tutte le sue liriche affronta questo tema con sicurezza, maestria e delicatezza di toni. Si capisce bene che versi come i suoi provengono da una consuetudine diretta e concreta col mondo naturale; non vi è, infatti, nulla di letterario o di astratto nei suoi paesaggi, nelle sue descrizioni e nei riferimenti ai tanti fenomeni atmosferici, come in Sera d’autunno (p.35):

«Ieri sera, sull’orizzonte
c’era una nuvola di fuoco:
«Avremo vento stanotte»
disse una vecchia passando,
e parve tremare.
Ora penso a mia madre che sta sola
nella vecchia casa di campagna,
e forse sta ascoltando impaurita – forse trema –
il soffio lungo della tramontana.»

Come si evince dal titolo di questa poesia, il viaggio nel Sud di Seccareccia si snoda attraverso tutte le stagioni dell’anno, e in particolare trovano ampio spazio l’estate meridionale – secca, afosa, straziante –, e l’autunno, ventoso ma più ricco di colori allusivi:

«Fruscìo di foglie morte
sui marciapiedi deserti,
sedie rosse davanti ai caffè.
Gli atrii vuoti degli alberghi
sono come vigne vendemmiate. Ogni tanto,
una folata di vento e di ricordi.
Solo, col cappello floscio
e il sigaro spento tra le labbra,
il poeta Cardarelli – svagato, indifferente –
scende verso Piazza Barberini
alla riscoperta della città.»

Via Veneto, la via romana de La dolce vita, era normalmente popolata da attori, cantanti, intellettuali e giornalisti: un punto d’incontro tra la vita mondana e la vita intellettuale della capitale. Seccareccia la ritrae, invece, in un momento di solitudine e di oblio, evocando il senso di decadenza dell’autunno, coi suoi caffè vuoti, i marciapiedi deserti e le foglie spazzate dal vento. Questo scenario dai colori caldi – su cui si staglia la figura svagata e assorta del poeta Cardarelli – sembra quasi un bozzetto impressionista, e a tal proposito è interessante soffermarsi sul cromatismo, diffusissimo nelle liriche di Seccareccia. Potremmo rintracciare quasi in ogni poesia delle notazioni coloristiche talmente efficaci da restituirci un’immagine viva e luminosa dei suoi paesaggi, come in Aie (p.42):

«Fiori di sole
sulle colline profumate d’infanzia,
polline d’oro è il grano
che cade sulle teste ricciute […]»

E ancora in Pomeriggio di giugno (p.81), lirica tutta pervasa dalla bellezza dello scenario naturale e dai giochi cromatici:

«I marciapiedi di terra
son coperti di fiori di melograno
come di papaveri un campo
(c’è anche qualche fresco ago di pino).
I papaveri sono come il sangue.
Il sole rosso s’infrange sulle pietre.
È l’ora. Siamo pronti per partire?
È tanto bello andare in bicicletta
per la strada in discesa, e sentire
il fresco vento di giugno nei capelli.»

Ricordo dell’estate (p.63) è un altro quadro pittoresco del suo mondo agreste, questa volta però tratteggiato con colori chiari – l’azzurro e il bianco – tanto da evocare altri scenari, come quello di una città orientale, probabilmente greca:

«Ora che è dietro di me,
rivedo le azzurre sere distese
da collina a collina
come i colori dell’arcobaleno,
i pomeriggi indolenti
in cui sedevo nella strada
a scrivere il mio nome nella polvere.
Avrei potuto contare le ore, così chiare,
come i grani di una corona, e illudermi
di essere in una città levantina,
tra le basse case bianche
e vecchie donne vestite di nero.»

In questa luminosità dei colori forse affiorava in modo inconsapevole, alla mente di Seccareccia, la lettura di Alfonso Gatto, poeta a lui carissimo; in molte liriche, infatti, c’è traccia di azzurro, il colore dominante nella poesia di Gatto, per il quale l’azzurro era “l’antidoto alla morte, che non ha colore”[1]. Molto più tenui e rari riemergono, invece, gli odori, e in particolare il profumo semplice e intenso del pane appena sfornato. Il pane, protagonista di molte poesie, è una parte preziosissima di quel bagaglio di vita che il poeta vuole gelosamente custodire: la madia dove fu impastato “ancora odora – odora di miracolo –,/ insieme al forno rustico/ dalla volta colore del tramonto” (Il mio pane, p.38).

Lo slancio vitale[modifica | modifica wikitesto]

In questa rievocazione di paesaggi, colori e profumi, occupano un posto di primo piano i volti consueti e le amicizie puerili che popolavano quei luoghi, come i compagni di festa e di gioco. Dunque, il viaggio nel Sud è un aggirarsi tra luoghi riconoscibili, che conservano le vite e le storie di queste vite, ma accanto all’elegia puramente nostalgica, si profila spesso il tema dell’andare avanti. In tutta la raccolta, il Sud profumato e ventoso di Seccareccia si manifesta più che altro come un sogno, di cui il poeta non chiede la realizzazione. Tornare al Sud non è la soluzione e non risolve l’angoscia del “cielo chiuso”, come spiega bene Luca Alvino in un suo contributo sulla raccolta:

«Sempre tentato dalla nostalgia di un passato edenico, protettivo e consolante rispetto alle difficoltà dei duri anni del dopoguerra, il meglio della poesia di Seccareccia si manifesta nel momento in cui egli allontana da sé il timore del presente e si apre al fluire delle possibilità. È allora che il poeta cessa di esaltare la dura terra – segno dei buoni e antichi valori del passato – per cantare la freschezza della sorgente, la liquida attualità del fiume, la promessa di vastità del mare.»

In Come il fiume (p.32), ad esempio, si percepisce bene questo senso di apertura alla vita:

«Io son come il fiume, perché scorro
in una vale immensa, senza fine.
E come il fiume, ho l’ora di burrasca,
l’ora di calma, l’ora di riposo
sul greto inesplorato della vita.
Ma non so il mare, il mare dove corro
ininterrottamente, senza posa,
perché dalla pianura dove passo
non vedo dove s’apre la mia foce.»

Il fiume diventa simbolo del percorso della vita, a volte placido e lento, a volte nervoso e costretto a snodarsi fra anse e curve; ma quello che traspare è soprattutto l’incertezza dell’arrivo (“Ma non so il mare, il mare dove corro”), poiché la vita scorre e fluisce, ma non sa dove sia la foce, né quando la si raggiungerà, e nemmeno a quale mare conduca. Anche la poesia successiva, Siamo vela anche noi (p.33) affronta lo stesso tema, ma impiega una metafora diversa, quella del navigare:

«Stasera c’è vento, e le vele son piene.
Le vele non sanno a qual porto
noi tendiamo con ansia tra mille,
e ci portano solo per gioco
– nel tempo, così, per due mari –
. È stanca la mano del naufrago:
dove andiamo? Chi siamo? Più nulla. […]»

L’uomo naviga nell’incertezza e non conosce il porto a cui approderà, però qui il poeta introduce un fattore nuovo, ovvero la volontà tutta umana di provare a dirigere la vela e dare una direzione al proprio percorso, nonostante la corrente sia comunque più forte – ecco perché “è stanca la mano del naufrago” –. Un’altra variazione su questo tema è presente in Visione (p.34), in cui la metafora adottata è quella di una mandria scalpitante di cavalli che procedono verso una direzione ignota:

«[…]
Dove vanno i cavalli, Cariana?
«Forse al bosco che il vento riscuote,
al mare che il sole inargenta…
Anche noi andiamo – per sempre! –
su una strada che porta al mistero».»

Queste liriche sembrano voler dire che per l’uomo è impossibile ostacolare le forze che determinano il corso esistenziale, o conoscerne la meta; ma è proprio in questo ‘andare’ che risiede il senso ultimo della vita, avendo sempre innanzi a sé una prospettiva di apertura, come in Fuga (p.56):

«Camminare senza tempo
lungo un verde sentiero nel tramonto
– che importa dove conduce il sentiero,
dove finisce? – e in fondo dormire
per sentirsi al risveglio ancora intatti,
di nuovo col cuore aperto alla speranza.
Chi ha sofferto, ha bisogno
di affidarsi al mare e diventare naufrago.»

L’uomo entra in sintonia con se stesso solo quando procede sulla stessa lunghezza d’onda della vita e si lascia trasportare, senza porsi troppe domande, ma semplicemente “affidandosi al mare”. In un’altra poesia, Preghiera (p.80), lo slancio vitale che si annida nel cuore del poeta gli fa desiderare di essere come un treno che avanza senza tentennamenti, o come il macchinista che lo guida, perché: “È come se lontano, l’aspettassero/ vento e sole di primavera,/ lieti di giorni di vacanza”. La libertà è la richiesta insistente di ogni sua preghiera a Dio:

«[…] Signore,
dammi l’antro del monte come casa,
fammi pregare come prega il vento.»

A tal proposito è importante notare come spesso, nelle poesie di Seccareccia, vi sia una tensione a identificarsi con le forze naturali, a fondersi con esse in uno slancio istintivo e gioioso, come ne La polla (p.46):

«Io non muoio, non importa
che sono una piccola polla.
Dalla terra dove son caduto
troverò il fiume nascosto
senza domandare la strada. […]
E là tu non mi riconoscerai più,
perché io non sarò più la polla solitaria
ma tutto il mare, tutto il mare azzurro.»

L’uomo non è altro che una “piccola polla”, un rivo insignificante, che però ha la forza di andare avanti fino a unirsi al fiume, per poi fluire nella vastità del mare. Questo panismo si ritrova persino nella visione della morte presente in Viaggio nel Sud, poiché la morte per il poeta è solo un passaggio, un cambiamento di stato, e Addio fantasmi (p.86) è la poesia più significativa:

«La notte, nel letto, quando urtavo
il freddo ferro col piede, dicevo:
«Forse sono una nuvola. Cresco come
il tralcio della vite».
E quando, più tardi, vedevo
l’alba impallidire alla finestra,
pensavo: «Per quando sarò grande
inventeranno come non morire».
(I passeri sulle querce
intonavano un canto nuziale).
Ora ripeto come una preghiera:
«La morte, per me, sarà
come il migrare autunnale per la rondine,
il guado del fiume per il viandante,
l’ora della vendemmia per la vigna,
la sera per il giorno…»
E trovo pace.»

Gli ultimi versi sono tutti simboli di cambiamento, di migrazione, ma non di fine: le rondini non muoiono, ma vanno verso le terre calde del Sud all’arrivo dell’autunno; il viandante passa da una sponda del fiume all’altra; la vigna vuota dopo la vendemmia si rigenererà, e alla sera seguirà una nuova alba. Il poeta trova pace solo nel momento in cui anche lui si sente parte di questo fluire ininterrotto, cercando lì la sua collocazione rassicurante e il suo equilibrio. In un’altra poesia, Sinfonia bianca (p.49), dice che del lungo cammino della vita ricorderà “il gran velo bianco/ che scenderà sui miei occhi/ quando mi porteranno a morire/ nel tramonto”, ovvero l’uomo che si ricongiunge al Sole, fondendo la sua vita e quella della stella in una stessa morte. Se da bambino sperava che inventassero “come non morire”, una volta adulto si predispone alla morte con rassegnazione serena, “che accoglie la morte già dentro la vita, ineluttabilmente e senza patetismo”[1].

Quella di Seccareccia sembra quasi una religiosità cosmica, nella quale anche l’uomo – come gli elementi della natura – si sente soggetto a una rigenerazione. Per questo motivo la vera morte, quella da temere realmente, è la fine delle speranze, la vita da automa che si blocca e non ha più possibilità di cambiamento e di apertura verso nuove mete. Non a caso, tra gli elementi naturali, quello maggiormente citato in tutte le poesie è il vento – forse la parola più frequente dell’intera raccolta –. Il vento da una parte è metafora di comunicazione e di trasporto, veicolo di odori, sentori e ricordi; ma dall’altra il vento è soprattutto un soffio che spazza via e rigenera, che porta cambiamenti e novità.

La bellezza della vita risiede in questa speranza di novità, poiché tutte le illusioni e tutti i sogni dell’uomo saranno sempre più affascinanti delle loro effettive realizzazioni, come nella lirica Addio alla festa (p.62):

«È triste girare per le strade
il giorno dopo la festa,
sotto gli archi senza più bandiere,
sopra i festoni infranti. Uno pensa
ai sogni della vigilia, alle ore belle
che poi non son venute e rivede
il volto d’una donna senza nome
intravista la sera tra la folla.
E sente il desiderio di partire,
di prendere il primo treno della notte
e viaggiar sempre, non importa dove.»

Quando la festa finisce rimane un senso di amarezza dovuto al fatto che la realtà è stata inadeguata rispetto “ai sogni della vigilia, alle ore belle/ che poi non son venute”. Così accade anche alla vita, che non è mai all’altezza delle nostre aspettative, e non riesce a colmare lo scarto troppo grande tra l’illusione e la realtà. L’uomo, dunque, ha bisogno di partire ancora per inseguire nuovi desideri, e questo viaggio – perpetuo, improvvisato, senza meta – è la condizione esistenziale perfetta del poeta.

Padre e madre[modifica | modifica wikitesto]

Non tutte le partenze raccontate in Viaggio nel Sud hanno, però, una connotazione positiva: è questo il caso del padre partito per il Canada una notte di inverno “quasi di nascosto”, e mai più tornato. Fin da bambino il poeta aveva conosciuto il sapore amaro delle partenze senza ritorno, come racconta con grande efficacia la lirica Lettera al padre (p.40):

«Tu mi lasciasti fanciullo
con la madre e la sorella
nella povera casa di campagna,
ai piedi dei monti di pietra;
così quasi di nascosto,
senza neppure baciarmi.
(Per non svegliarmi, dicesti,
altrimenti non saresti più partito).
Non una lacrima, non un lamento,
facesti varcando la soglia.

Era ancora notte alta
e mia madre t’accompagnò
fino all’ultime case con la lanterna.
Nel vento la piccola fiamma
tremava a ogni passo
come il cuore della tua compagna
che il dolore faceva di pietra.
Noi dormivamo soli, ignari,
sognando forse un balocco.
Sulla via del ritorno, alla madre
il debole lume si spense.
Nella casa solitaria, il tuo affetto
si spense per noi nel cuore dell’inverno.»

Il viaggio nel Sud di Seccareccia, dunque, è un viaggio circolare ma non chiuso, dal quale ogni tanto qualche vita si stacca e si perde tra le nebbie. Quando Seccareccia parla del padre, il cammino della memoria si fa più difficoltoso e doloroso: quella partenza, infatti, segna il drammatico rompersi del nucleo familiare, ed è la prima presa di coscienza del distacco come tragedia della vita. Tutti gli elementi della poesia sono immagini della fine: la partenza, il buio, la lanterna che si spegne, e aleggia un senso di ineluttabilità, perché quell’evento è la linea di demarcazione tra il passato e un futuro che si prospetta freddo come l’inverno. Il poeta ricorda se stesso bambino che, sebbene privato per sempre del padre, non prova astio, giudizio o ribellione, ma semplicemente accetta con senso di obbedienza l’evento fatale che si abbatte sulla sua famiglia. Questo padre che va via di notte senza nemmeno dare un bacio ai figli diventa, da qui in poi, una figura evanescente, che si perde tra le nebbie della memoria e non trova più spazio nella sua poesia – cosa che accadrà anche ne La memoria ferita –.

Come già si accennava, l’unica vera stella polare della poesia di Seccareccia è la madre. Tutta la raccolta sarebbe una specie di disordine barocco, nel quale i vari elementi sembrano disporsi casualmente, se non ci fosse la figura materna come punto focale, che li raccoglie e li dispone secondo precisi nessi sentimentali. Questa donna viene dipinta dal poeta con tratti eroici, e verso di lei nutre un profondo senso di riconoscenza:

«[…]
Tu sola, sapevi, tu sola
ricordavi quel giorno e quel seme:
ora t’offro il suo frutto,
perché il seme caduto era tuo.
»

È a lei che Seccareccia dedica la sua intera produzione poetica, perché la madre era stata l’unica a credere in lui quando aveva cominciato a scrivere. Non c’è una donna che si erga a musa della poesia, per via della sua concezione disillusa dell’amore; nel caso della madre, invece, affiora sia un trasporto filiale sincero, sia una sorta di ‘devozione’, che spinge il poeta a  porla su un piano superiore. La madre è la donna che gli ha dato la vita e gli ha permesso di crescere, compiendo continui sacrifici per i figli, e occupandosi anche del loro sviluppo umano e culturale. Ma questa riconoscenza va oltre, e fa sì che la madre diventi custode e simbolo di tutto l’universo originario del poeta e delle sue radici.

La madre è spesso rappresentata sulla soglia di casa, come nella poesia Sera d’autunno, in cui ascoltava impaurita “il soffio lungo della tramontana” e, come una sensitiva, sapeva ascoltare il fluire degli eventi e avvertire anche i più piccoli cambiamenti. La madre non era spaventata dal vento, ma da ciò che quel fenomeno atmosferico portava con sé, allegoria di un destino che minacciava qualcosa di grave.

La figura della madre sembra sottendere una divinità, tanto che persino il latte con cui ha nutrito i suoi figli è paragonato al cibo degli dèi:

«[…]
Il latte di mia madre stanca
(non so se ora ella riposa,
ora che vive sola lontano)
era come il miele sotto il sole,
ambrosia materializzata
per il mio crescere miracoloso.»

Accanto a questa mitizzazione, però, l’immagine materna appare anche in tutta la sua fisicità e nella concretezza del suo rapportarsi al figlio. In questo Sud è lei che occupa un posto di primo piano, e pertanto solo a lei sono dedicate due lettere d’amore, nelle quali il poeta rievoca la dolcezza del loro rapporto:

«Madre, una di queste lunghe sere d’inverno
dovrai raccontarmi la tua storia,
come hai potuto vivere solo di speranza,
in perpetua – e vana – attesa
d’un mio fugace ritorno.
Son quasi vent’anni, adesso, che dura,
e tu hai ancora la forza di sorridere!
Ora so che non mentivi
il giorno della mia partenza,
che le tue lacrime erano di gioia
perché io, tuo figlio, non avrei più
lavorato la terra per cinque lire il giorno,
non avrei più portato scarpe infangate
né mangiato sempre pane rosso
arido come terra di montagna. Tu, certo,
non pensavi a te stessa, agli anni
di solitudine che ti aspettavano.
Ma – ora possiamo dirlo alto! –
è stato tutto un’illusione,
che io ho dovuto alimentare ogni giorno
con cento menzogne.
Ricordi ancora le mie prime lettere?
«Qui mi danno pane bianco
ed ho una bellissima uniforme.
Potrai vedere tu stessa dal ritratto».
Se non t’avessi mentito,
se avessi detto che t’eri ingannata,
avresti pensato che la colpa era tua
e saresti stata capace di morire.
Per me, ormai, era crollato tutto.
Di te stessa non avevo che il ricordo,
le lunghe lettere scritte col lapis.
Eppure – a pensarci – siamo stati felici,
d’una amara felicità.
Ci siamo scritti come due innamorati,
ci siamo sentiti legati
dalla stessa lontananza, e col tempo
abbiamo imparato a leggere tra le righe,
a scoprire le cose non dette
(il desiderio di stare insieme un Natale!)…ora
– anche questo ha scoperto in qualche lettera? –
non mi resta che un sogno di ragazzo:
ritrovarti, al ritorno, sulla porta
dove tant’anni fa ci salutammo.»

In questa Lettera d’amore a mia madre (p.83) il poeta racconta alla madre ciò che lei aveva dovuto leggere fra le righe delle sue lettere, quando mascherava di entusiasmo una vita infelice. Dunque, nonostante l’intima lacerazione del figlio, c’è in lui una delicata premura nei confronti della madre, stando sempre attento a non infrangere quel sogno su cui lei – per il bene del figlio – aveva investito buona parte della sua vita e dei suoi sacrifici. “Eppure – a pensarci – siamo stati felici” è un verso che svela la tenerezza del poeta per aver alimentato il sogno materno: non aveva altra scelta che mentire, perché altrimenti avrebbe solo causato in lei nuovi dolori e un profondo rimorso.

Così come la raccolta si apre con Primizie, dedicata alla madre, allo stesso modo si chiude con un omaggio tenerissimo a lei, Lettera d’amore a mia madre (II), p.89. Il poeta sente che il ricordo della donna, già morta, si fa pungente nei giorni di aprile, perché ripensa a tutto ciò che lei non può più ammirare:

«[…]
«Non sono più per lei
questi pomeriggi di sole, il cielo rosso,
le lunghe strade tappezzate d’erba,
le voci della sera nella piazza,
la terra calda nel cavo della mano,
l’acqua che schiarisce nei canali,
la musica alla radio…» […]»

E riemerge il rimpianto delle cose non dette, ma anche il ringraziamento sincero per tutti i piccoli gesti a lei associati:

«[…]
Madre, ora non mi restano
che il pudore d’un bacio non donato,
il calore di certe sere, e la tua voce
scavati tra le pietre dei ricordi
nel mio cuore chiuso.»

Il poeta si sente inaridito dalle esperienze che la maturità gli aveva riservato, ma tra le “pietre dei ricordi” la figura calda e accogliente della madre si profila come il miglior conforto per il suo “cuore chiuso”.




Il tempo in cui furono scritti gli Ossi di seppia fu quello di futuristi e vociani, con la rottura del ritmo, della forma, della stessa struttura sintattica nei suoi componenti elementari. L'apparente distacco di Montale dagli eventi esterni - apparente in quanto egli seppe fare i conti con essi, trasformandoli alla luce delle proprie esigenze - si traduce in questa raccolta in una consapevole e misurata ricostruzione del verso nella sua forma "classica". Montale sembra dirci che una poetica che abbia come oggetto la disgregazione del senso e della vita può servirsi con più utilità, per raggiungere i suoi scopi, di una forma chiara e semplice nella sua rigorosità costruttiva.

Si può notare in questa preferenza per lo stile classico del verso un parallelo con l'atteggiamento dannunziano, che va tuttavia distinto: in D'Annunzio il recupero del passato è funzionale ad un "messaggio" ideologico, ad un "programma" poetico che intende agganciare un'idea di cultura già presente nella memoria storica con il suo bagaglio di simboli e significati. Nel nostro, il classico è uno strumento linguistico-formale, al contrario dello sperimentalismo delle avanguardie. Si è infatti talvolta paragonata la struttura ritmica degli Ossi di seppia a quella delle Myricae di Pascoli.

La semplice classicità di Montale è arricchita dall'uso della musicalità della lingua: rime, assonanze e consonanze, nonché l'uso raffinato della sintassi poetica, e altri effetti sonori.

Ecco un quadro metrico dei componimenti più importanti della raccolta, da cui è facile ricavare una chiara immagine complessiva dello stile metrico dell'opera:

Titolo Strofe Versi
In limine Quartine irregolari a rime incrociate e alternate Endecasillabi e settenari
I limoni Strofe libere Prevalentemente endecasillabi e settenari
Corno inglese Strofe libere  
Falsetto Tre strofe "a canzone" con distico finale Versi vari
Non chiederci la parola Quartine Versi vari
Meriggiare pallido e assorto Quartine irregolari Versi liberi
Mia vita, a te non chiedo Quartine Endecasillabi
Portami il girasole Quartine Versi liberi
Spesso il male di vivere Quartine Endecasillabi
Gloria de disteso mezzogiorno Quartine Versi vari
Il canneto rispunta i suoi cimelli Quartine Endecasillabi
Forse un mattino andando Quartine Versi liberi
Cigola la carrucola del pozzo   Endecasillabi
Arremba su la strinata proda Quartine Versi liberi

Lingua[modifica | modifica wikitesto]

Nella lingua di Montale ritroviamo musica e pittura, e in buona misura la lingua di Dante, di D'Annunzio e di Pascoli. Il "dantismo" di Montale è generalmente considerato un fenomeno unico nel Novecento italiano per intensità e attualizzazione delle situazioni: la lingua pietrosa e aspra e il fascino della condizione umana "infernali" hanno trovato in Montale un eco di grande forza. Come per le scelte metriche della raccolta, anche le citazioni non hanno lo scopo di istituire un collegamento con un passato idealizzato - quasi una sorta di passaggio di testimone tra poeti "incoronati" -, ma quello puramente strumentale di arricchire la lingua di apporti espressivi, anche se la citazione di un classico trascina sempre con sé i risvolti profondi del suo mondo di riferimento (Meriggiare).
Invece la lezione di Pascoli, perfettamente assorbita da Montale, fu la scelta di una terminologia esatta e specifica, soprattutto per gli elementi della flora e della fauna: la scientificità di una lingua trasformata in lente di ingrandimento per tutto ciò che è piccolo e comune, così comune da non avere nome (almeno in letteratura); il senso di una natura ostile e minacciosa; un certo "impressionismo interiore" (Mengaldo) caratterizzato dall'associazione quasi sinestesica tra eventi naturali e situazioni emotive (Mediterraneo, Scendendo qualche volta). A D'Annunzio, infine, va ricondotta - come già detto - la ricerca metrico-ritmica, e il gusto per l'invenzione delle parole, che si può far risalire al rapporto privilegiato con la natura, in alcuni momenti deformata allo sguardo del poeta dalla sua stessa forza vitale - non più positiva come in Alcyone ma negativa.
Esiste un nesso tra l'"aura" fenomenologica della poetica degli Ossi di seppia e le scelte linguistiche del loro autore; seguendo la lezione critica di Pier Vincenzo Mengaldo[1], così si individua:

  1. l'uso di parole rare non per la loro forma, ma per il loro ricorrere una volta sola in tutta la raccolta – in tal senso l'unicità oggettiva di ogni cosa è definitivamente marcata da un suo segno linguistico irripetibile;
  2. la scelta di singole parole "letterarie" (soprattutto dantesche e dannunziane) private di un contesto riconoscibile, tale che il lettore possa subito vedere in trasparenza la loro origine, trasforma anch'esse in elementi espressionistici utili a marcare la rarità delle cose, più che delle parole;
  3. L'uso di una terminologia precisa impedisce il crearsi di qualsiasi alone simbolico attorno alle parole: più che evocare qualcos'altro, la parola di Montale "rimbalza" sul lettore come una domanda che non ha ricevuto risposta.

Il soggettivismo linguistico di Montale (che consiste in un'assoluta libertà di scelta nel repertorio lessicale – dalla lingua storica a quella scientifica) diviene così strumento per denotare le cose di una forte oggettività.

Edizioni[modifica | modifica wikitesto]

  • Ossi di seppia, Torino, Piero Gobetti editore, 1925 (Edizione originale).
  • Ossi di seppia, Con un'introduzione di Alfredo Gargiulo, 2.a edizione, Torino, fratelli Ribet editori, 1928 (Seconda edizione, con 6 poesie aggiunte: Vento e bandiere, Fuscello teso dal muro, I morti, Delta, Incontro, Arsenio; e 1 eliminata: Musica sognata).
  • Ossi di seppia, Lanciano, Giuseppe Carabba editore, 1931 (Terza edizione).
  • Ossi di seppia, Lanciano, editore R. Carabba, 1941 (Quarta edizione).
  • Ossi di seppia, Torino, Einaudi, 1942 (Quinta edizione).
  • Ossi di seppia, Sesta edizione, Torino, Einaudi, 1942.
  • Ossi di seppia, Settima edizione, Torino, Einaudi, 1943.
  • Ossi di seppia, Verona, Mondadori, 1948 (Collana: «I poeti dello Specchio»).
  • Ossi di seppia, Edizione a cura di Pietro Cataldi e Floriana D'Amely, Milano, Oscar Mondadori, 2003 (Collana: «Poesia del Novecento», 62).

Note[modifica | modifica wikitesto]

  1. ^ L'opera in versi di E. Montale, cit. pp. 653-5

Bibliografia[modifica | modifica wikitesto]

  • Ettore Bonora, Poesia di Montale. Lettura degli «Ossi di seppia», Torino, S. Gheroni, 1962.
  • Ettore Bonora, Lettura di Montale. «Ossi di seppia», Torino, Tirrenia, 1980.
  • Ettore Bonora, La poesia di Montale. «Ossi di seppia», Padova, Liviana, 1982.
  • Angiola Ferraris, Se il vento. Lettura degli «Ossi di seppia» di Eugenio Montale, Roma, Donzelli, 1995.
  • Angiola Ferraris, Montale e gli «Ossi di seppia». Una lettura, Roma, Donzelli, 2000.
  • Massimiliano Tortora, Vivere la propria contraddizione, Immanenza e trascendenza in «Ossi di seppia» di Eugenio Montale, Pisa, Pacini, 2015.
  • Marco Villoresi, Come leggere «Ossi di seppia» di Eugenio Montale, Milano, Mursia, 1997.
  • Giacomo Zazzaretta, «Ossi di seppia» di Montale. Divagazioni e parafrasi, Urbisaglia, Cegna, 1977.

Altri progetti[modifica | modifica wikitesto]

Collegamenti esterni[modifica | modifica wikitesto]

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bliografia

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  • Raffaele Alliegro, Quei mille litri di vino per salvare la poesia, in «Il Messaggero », Roma, 3 marzo 1989.
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  • Benedetta Centovalli,Luca Lenzini ,Paolo Maccari, Romano Bilenchi nel centenario della nascita: Atti dei convegni di Milano e Colle Val d’Elsa, ottobre-novembre 2009, Fiesole, Edizioni Cadmo, 2013, ISBN 978-88-7923-420-7.
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  • Amerigo Iannacone, “La memoria ferita” di Antonio Seccareccia, in Testimonianze. Interventi critici, Venafro (IS), Edizioni Eva 1999.
  • Leopoldo Meneghelli, Un maresciallo dei C.C. scrittore, «Il Paese», Roma, anno XII, n°180, 29 giugno 1960.
  • Pier Vincenzo Mengaldo, Il Novecento, in Francesco Bruni (a cura di), Storia della lingua italiana, Bologna, Società editrice il Mulino, 1994, ISBN 88-15-04332-2.
  • Tiziana Migliaccio  (a cura di), Omaggio ad Antonio Seccareccia, curato da Tiziana Migliaccio, Franco Capasso e Rita Seccareccia, in «Sincronie: rivista semestrale di letterature, teatro e sistemi di pensiero», Vecchiarelli Editore, anno IX, fascicoli 17-18, gennaio dicembre 2005.
  • Tiziana Migliaccio, Questo è il tuo pane: povertà e poesia, in «La Luna: pensiero 38», a cura di Eugenio De Signoribus, Grafiche Fioroni, Casette d’Ete (AP), luglio 2006.
  • Renato Minore, Seccareccia e il piccolo seme della poesia, in «Il Messaggero», 18 gennaio 2010.
  • Fabrizio Patriarca, Il poeta da riscoprire, «Oggi Castelli», anno VII, n°50, 28 febbraio 2002.
  • Luigi Reina, Nunzia Acanfora (a cura di), Alfonso Gatto: L’uomo, il poeta. Atti del Convegno di Studi promosso nel quadro delle celebrazioni per il 25° anniversario della morte, Fisciano-Salerno, 30-31 maggio 2001, Napoli, Liguori Editore, 2014, ISBN 978-88-207-5508-9.
  • Rosalma Salina Borrello, “La mia poesia è dedicata agli amici”. Il mondo poetico di Antonio Seccareccia tra miraggio e memoria, in«La Clessidra: semestrale di cultura letteraria», Edizioni Joker, gennaio 2001.
  • Maria Grazia Virone, La scrittura in versi e in prosa di Antonio Seccareccia (1920-1997), Tesi di laurea Università degli Studi di Siena, Dipartimento di filologia e critica delle letterature antiche e moderne, A.A. 2015/16, Relatore prof. Stefano Dal Bianco.