Utente:Erredi68/Sandbox3

Da Wikipedia, l'enciclopedia libera.
Vai alla navigazione Vai alla ricerca
Eccidio di Schio
strage
Data6–7 luglio 1945
LuogoCarcere cittadino
StatoBandiera dell'Italia Italia
Regione  Veneto
Provincia  Vicenza
Comune Schio
ObiettivoPrigionieri civili e militari
ResponsabiliPartigiani delle Brigate Garibaldi quali agenti della polizia ausiliaria partigiana
MotivazioneRappresaglia per l'uccisione di Giacomo Bogotto e per la strage di Pedescala.

L'eccidio di Schio è il massacro compiuto nella notte tra il 6 e il 7 luglio 1945 (due mesi dopo la fine della guerra) a Schio (Vicenza) da un gruppo formato da partigiani del Battaglione "Ramina-Bedin" della Divisione garibaldina "Ateo Garemi" inquadrati quali agenti della Polizia ausiliaria partigiana (istituita alla fine della guerra e composta da ex partigiani).

Il contesto[modifica | modifica wikitesto]

Schio, nella provincia di Vicenza, aveva pagato cara l'opposizione al fascismo da parte di molti suoi abitanti durante la seconda guerra mondiale. In quella zona, gli occupanti nazisti e i loro alleati fedeli a Mussolini repressero l'antifascismo in modo particolarmente feroce. Inoltre, la zona divenne un punto di raccolta di truppe tedesche verso la fine del conflitto, provocando fortissime tensioni con la popolazione ed innumerevoli violenze[1].

Il 14 aprile 1945, le Brigate Nere arrestarono il partigiano scledense Giacomo Bogotto, lo torturarono, gli cavarono gli occhi e forse lo seppellirono vivo (secondo la testimonianza del partigiano Valentino Bortoloso, che trovò il corpo sotto un masso di circa 20-30 kg). Secondo rapporti di parte fascista invece il Bogotto fu trovato morto al mattino seguente all'interrogatorio a causa delle pesanti sevizie. Il 29 aprile quattro fascisti (2 dei quali civili), ritenuti implicati per le torture e l’assassinio di Giacomo Bogotto, furono passati per le armi e i loro cadaveri abbandonati in Valletta dei Frati. La salma del Bogotto fu riesumata il giorno dopo (30 aprile), davanti agli occhi di una popolazione sconvolta ed inferocita[1]. A maggio arrivarono le notizie della strage di Pedescala: 80 civili innocenti e 2 militari uccisi dai tedeschi in ritirata, come rappresaglia di un attacco effettuato dai partigiani mentre i tedeschi cercavano di raggiungere il Trentino. Il 3 maggio 20 prigionieri, prelevati dalle carceri di Schio dai partigiani, furono condotti a Pedescala per essere giustiziati. L'intervento di un ufficiale inglese sembrò sventare il proponimento riportando ad Arsiero i prigionieri. Ma la notte stessa 5 di loro furono di nuovo portati a Pedescala dove 4 vennero barbaramente torturati, mutilati ed uccisi (il quinto riuscì a fuggire).

Il 27 giugno William Pierdicchi, unico sopravvissuto dei 14 antifascisti di Schio deportati a Mauthausen-Gusen e Dachau a causa delle delazioni degli aderenti scledensi alla Repubblica Sociale Italiana, rientrò in città in uno stato miserabile, ridotto al peso di 38 chili, suscitando un forte moto di rabbia popolare: il giorno dopo un'enorme folla si radunò nella piazza principale del borgo chiedendo giustizia[2].

Vi erano nel carcere mandamentale di Schio persone fermate per indagini su eventuali loro corresponsabilità col regime fascista e con la R.S.I. Alcune erano da tempo imprigionate solo in quanto parenti di militi della Repubblica Sociale Italiana (R.S.I.), altre perché legate sentimentalmente a ricercati. Altre infine per motivi extra giudiziali (ad esempio una delle vittime, Elisa Stella - 68 anni - imprigionata in quanto aveva affittato un appartamento ad un partigiano il quale, non volendo pagare l'affitto, la denunciò come fascista). Tuttavia la maggior parte non era stata coinvolta direttamente in reati. Il capitano Chambers, responsabile alleato dell'ordine cittadino, accese ulteriormente gli animi annunciando che, se non fossero state presentate denunce circostanziate entro cinque giorni, le persone arrestate senza denuncia sarebbero state liberate. In questo clima maturò l'eccidio del 6 luglio.

La situazione politico-militare[modifica | modifica wikitesto]

Nella zona di Schio durante la Resistenza era stata attivata la Divisione Garibaldi "Ateo Garemi" con i battaglioni "Ramina-Bedin" e "Ismene", di orientamento prevalentemente comunista. Alla fine della guerra le formazioni partigiane ebbero l'ordine di consegnare le armi e di smobilitare: la maggior parte dei partigiani eseguirono l'ordine, ma alcuni di essi, che avevano lottato non solo per cacciare lo straniero, ma anche per arrivare ad un nuovo ordine sociale, mostrarono molta reticenza[3]. A Schio nel maggio del 1945 il potere civile era tenuto dal locale CLN e dal nuovo consiglio comunale da esso nominato: sindaco era il comunista Domenico Baron. Il potere militare era detenuto dall'esercito alleato, da reparti dell'esercito Italiano, da pochi Carabinieri della locale stazione e da ex-partigiani delle ex-Brigate Garibaldi ingaggiati nella Polizia ausiliaria partigiana per il mantenimento dell'ordine pubblico.

L'eccidio[modifica | modifica wikitesto]

I locali che ospitavano tribunale e carceri nel 1945, teatro dell'eccidio.

Un gruppo di ex-partigiani appartenenti alla Polizia Ausiliaria Partigiana, armati e mascherati, ex della citata brigata garibaldina, agli ordini di Valentino Bortoloso (nome di battaglia "Teppa"), nella notte del 6 luglio entrò nel carcere mandamentale della città. I capi partigiani Igino Piva, Gaetano Pegoraro e Ruggero Maltauro[4] (capo della stessa Polizia Ausiliaria Partigiana), erano in quel momento ben lontani dalle carceri, per avere a disposizione un alibi (come riportato dallo storico Luca Valente). Non disponendo di elenchi di fascisti, li cercarono ma, non avendoli trovati, le vittime furono scelte tra i 99 detenuti del carcere. Tra questi, solo 5 erano stati indicati al momento dell'arresto come detenuti comuni, mentre 92 erano stati incarcerati come "politici" di possibile parte fascista, sebbene non tutti fossero compromessi con il fascismo ed in molti casi fossero stati arrestati forse per errore, oppure per forzare qualche loro congiunto a costituirsi. In ogni caso nessun procedimento penale era stato avviato.

Erano infatti ancora in corso gli accertamenti delle posizioni individuali: per alcuni era già stata accertata l'estraneità alle accuse ed era altresì programmata la scarcerazione, non avvenuta per lentezze burocratiche (o, secondo altre fonti, colpevolmente bloccata dall'allora segretario comunale Pietro Bolognesi - ex fascista - poi esponente del C.L.N.). I 5 detenuti comuni vennero subito esclusi dalla lista, insieme con 2 detenute politiche, che non furono riconosciute come tali in quanto stavano lavando le scale al momento dell'irruzione. Dal gruppo dei detenuti politici invece furono escluse, sulla base di conoscenze personali, altre sei persone: 2 donne da parte del Bortoloso, Carozzi Massimo da parte del partigiano Gaetano Canova, ed altri 3.

Dopo il tentativo di fare una cernita tra i rimanenti, che suscitò contrasti tra gli stessi partigiani, alcuni proposero che fossero risparmiate almeno le donne, che in genere non erano state arrestate per responsabilità personale ma solo fermate per legami personali con fascisti o per indurle a testimoniare nell'inchiesta in corso. "Teppa" si oppose dicendo: «Gli ordini sono ordini e vanno eseguiti», ma non disse da chi provenivano gli ordini (e non fu mai chiaramente accertato, nonostante un processo apposito nel 1956). Nelle confessioni e nei verbali delle testimonianze, alcuni imputati dichiararono che la decisione della strage era stata presa da Igino Piva, Ruggero Maltauro e Nello Pegoraro, e che l'azione era avvenuta sotto il comando di Valentino Bortoloso. Il fatto che ci fossero degli ordini, presume anche l'esistenza di un piano dettagliato e di una premeditazione, cosa che escluderebbe la tesi di un fatto impulsivo dominato dal risentimento di quei giorni.

Dopo un'ora di incertezza, mentre alcuni partigiani non convinti si allontanarono, i detenuti e le detenute vennero ammassate in due celle, al piano terra ed al secondo piano delle carceri. Uno dei detenuti, il dott. Giulio Vescovi, capitano e pluridecorato, chiese di parlare da soldato a soldato con il capo partigiano, ma fu da questi respinto e schiaffeggiato. Quindi alle 12:15 vennero uccise a colpi di mitragliatore 54 persone, tra cui 14 donne (4 sotto i 21 anni quindi minorenni), e ne vennero ferite altre 17 (la più giovane 16 anni). Alcuni detenuti (15), coperti dai corpi dei caduti, si salvarono indenni, e questo nonostante gli omicidi avessero anche sparato più di un caricatore con i loro mitra (v. verbale del 4° interrogatorio del Bortoloso). Delle donne detenute parecchie sopravvissero poiché i detenuti maschi, in un estremo tentativo di proteggerle si schierarono davanti ad esse. Quando giunsero, i soccorritori trovarono il sangue che colava sulla scala e sul cortile, arrivando fin sulla strada.[5] Un primo gruppo di barellieri, provenienti dal vicino ospedale, fu respinto e minacciato, lasciando nella strada 6 barelle vuote[6]. Solo successivamente i feriti furono trasportati all'ospedale.

Anche qui medici, ed infermieri, dediti alla cura dei sopravvissuti feriti subirono minacce. Alcuni feriti dichiararono di essere stati malmenati. Uno di questi, Borghesan Antonio, dichiarò nella sua testimonianza del 27 agosto 1945 che, trovandosi all'interno dell'ospedale essendo ferito, fu avvicinato da un uomo che lo invitò ad uscire dicendo che una macchina lo stava aspettando. Però, nonostante l'uomo fosse vestito come i sanitari dell'ospedale, un altro paziente, l'ingegner Gentilini, lo riconobbe come uno dei partigiani autori della strage. A quel punto fu informato il carabiniere di guardia il quale gli ordinò di non uscire.

Anche un altro fatto dà l'idea del clima sociale del periodo. Il corteo funebre delle vittime, che andava verso il cimitero, passò davanti all'area dove si trovava il luna park allestito per la sagra del santo patrono di Schio (29 giugno). Mentre passava non furono fermate le giostre, né silenziata la musica.

Il giorno dopo l'eccidio, ovvero l'8 Luglio 1945, morì Germano Baron ("Turco"), capo partigiano della Brigata Marzarotto/Pasubiana, ufficialmente a causa di un incidente in motocicletta avvenuto la stessa notte della strage, le cui circostanze però non furono mai chiarite. (L'incidente fu dichiarato essere accaduto presso Trento ma il Baron, gravemente ferito, fu trasportato all'ospedale di Schio). La sua figura, per l'autorevolezza e per la sua posizione di capo partigiano, era ritenuta di grande interesse dalle autorità alleate, anche per le indagini sulla strage.

Dopo l'eccidio[modifica | modifica wikitesto]

L'evento ebbe grande risonanza non solo nazionale ma anche internazionale, perché venne utilizzato per dimostrare il pericolo costituito dal persistere di formazioni solo nominalmente dipendenti dal CLN. Su pressione delle autorità di occupazione alleate venne aperta un'inchiesta e nel processo postumo del 1952 risultò che, tra le persone colpite, solo 27 erano affiliate al Partito Fascista. Altre risultarono completamente estranee.

Tuttavia l'azione degli ex-partigiani riscosse un certo sostegno nel paese in quanto molti temevano, dopo il discorso di Chambers, che quelli tra loro che avessero avuto responsabilità fasciste avrebbero facilmente guadagnato l'impunità[7].

«Si può dire che la causa antifascista era più giusta perché si opponeva a un regime fascista che si era affermato con la violenza, l'oppressione e la soppressione dei diritti dell'individuo [...] Ma l'episodio di Schio è avvenuto al di fuori del periodo di guerra, quando uccidere era diventato inaccettabile. Questo era un atto fuori legge e fuori dalle regole, portato a termine dai partigiani in aperta sfida anche ai loro stessi superiori.»

Resta da notare, peraltro, che all'indomani dell'evento il CLN, la Camera del Lavoro e il Partito Comunista Italiano condannarono pubblicamente l'accaduto (quest'ultimo definendo gli autori "provocatori Trotskysti") in quanto la guerra era già finita da nove settimane e si sarebbe dovuto attendere l'inchiesta sulle responsabilità individuali delle persone arrestate. In realtà invece, l'organizzazione del PCI aiutò tre degli assassini ad espatriare segretamente a Praga (vedi successivo capitolo "L'atteggiamento del PCI"), su disposizione dello stesso Togliatti che aveva consultato Secchia e Longo (come riportato da Massimo Caprara, al tempo segretario particolare di Togliatti). Altri otto ricercati ripararono invece nella Jugoslavia (al tempo in mano ai partigiani di Tito), probabilmente tramite gli stessi canali.

I tre processi[modifica | modifica wikitesto]

Il processo militare alleato[modifica | modifica wikitesto]

Il governo militare alleato, nella persona del generale Dunlop governatore militare del Veneto, affidò le indagini agli investigatori John Valentino e Therton Snyder. Lo stesso generale così condannò con parole dure l'eccidio l’8 luglio 1945 al Municipio di Schio:

«“Sono qui venuto per una incresciosa missione, per un anno e mezzo ho lavorato per il bene dell’Italia, la mia opera e la mia amicizia sono state, io lo so, riconosciute e apprezzate, è mio dovere dirvi che mai prima d’ora il nome dell’Italia è caduto tanto in basso nella mia stima, non è libertà, non è civiltà che delle donne vengano allineate contro un muro e colpite al ventre con raffiche di armi automatiche e a bruciapelo. Io prometto severa e rapida giustizia verso i delinquenti, confido che il rimorso di questo turpe delitto li tormenterà in eterno e che in giorni migliori la città di Schio ricorderà con vergogna e orrore questa spaventosa notte e con ciò ho detto tutto”»

In due mesi di indagini Valentino e Snyder identificarono quindici dei presunti autori della strage, di cui otto erano scappati in Jugoslavia prima dell'arresto e sette vennero arrestati. Il processo istituito dalle autorità militari alleate si svolse nell'autunno del 1945. La Corte militare alleata, presieduta dal colonnello statunitense Beherens, assolse due degli imputati presenti e condannò gli altri cinque, tre di essi furono condannati a morte, due furono condannati all'ergastolo, altri tre imputati furono condannati in contumacia a ventiquattro e a dodici anni di reclusione (le condanne a morte verranno commutate nel carcere a vita dal capo del governo militare alleato, il contrammiraglio Ellery Stone).

Furono emesse condanne:

La pena effettivamente scontata dai cinque condannati presenti al processo fu tra i 10 e i 12 anni.

Ruggero Maltauro ed Igino Piva (latitanti), pur sospettati di essere i capi, non vennero giudicati in quanto il processo è stato celebrato con rito anglosassone, il quale non prevede giudizi in capo agli imputati assenti. Il Maltauro sarà poi condannato all'ergastolo dal processo italiano del 1952, dopo essere stato estradato dalla Jugoslavia (v. successivo paragrafo). Il Piva invece rientrò in Italia, dopo l'ennesima amnistia, nel 1974 senza scontare neppure un giorno di carcere.

Il processo penale italiano[modifica | modifica wikitesto]

Altri autori dell'eccidio furono individuati successivamente e fu istruito un secondo processo, condotto da una corte italiana. Il secondo processo si tenne a Milano e la sentenza fu emessa dalla Corte d'Assise di Milano, il 13 novembre del 1952, con otto condanne all'ergastolo. Tuttavia uno solo sarà presente, gli altri sette erano fuggiti nei paesi dell'Est dove trovarono protezione (come molti altri autori di stragi, ad esempio Francesco Moranino):

  • Ruggero Maltauro, estradato dalla Jugoslavia dopo la rottura con il Comintern, condannato all'ergastolo, ma che in seguito godrà di uno sconto della pena.

Il terzo processo[modifica | modifica wikitesto]

Nel 1956, undici anni dopo l'eccidio, si tenne a Vicenza un terzo processo. Erano da accertare due fatti, le eventuali responsabilità del ritardo a dare esecuzione all'ordine di scarcerazione di una parte dei detenuti, emesso a Vicenza e trasmesso per competenza a Schio ma non eseguito, e l'individuazione della catena gerarchica da cui era partito l'ordine di eseguire la strage. Si trattava di individuare eventuali responsabilità nel ritardo dell'esecuzione dell'ordine di scarcerazione, ritardo costato la vita a varie persone, e individuare i mandanti della strage, indicati dal Maltauro, alla corte d'Assise di Vicenza. Erano imputati Pietro Bolognesi, segretario comunale e Gastone Sterchele, ex vicecomandante della Brigata Garibaldi Martiri della Val Leogra. Sterchele fu assolto con formula piena, Bolognesi per insufficienza di prove; in appello fu anch'egli assolto per non aver commesso il fatto.

L'atteggiamento del PCI[modifica | modifica wikitesto]

L'Unità aveva definito i responsabili dell'eccidio "provocatori trotskisti": in realtà, i partigiani che avevano condotto l'eccidio al carcere di Schio erano legati al Partito Comunista e alle ex-Brigate Garibaldi, essendo tutti affiliati al Battaglione "Ramina-Bedin" unità garibaldina della Divisione "Garemi". Tre di loro infatti, sfuggiti alla cattura, si recarono a Roma al Ministero di Grazia e Giustizia per conferire con Palmiro Togliatti, che all'epoca guidava il dicastero dal quale dipendeva il carcere di Schio, che inoltre era nello stesso tempo segretario del PCI.

Li ricevette in via Arenula, allora sede del Ministero, il segretario del ministro, Massimo Caprara. Il Ministro della Giustizia incaricò la Direzione del partito di provvedere e su richiesta della direzione del partito i tre partigiani, coautori dell'eccidio, vennero aiutati dall'organizzazione del PCI a rifugiarsi a Praga. Durante una visita nella capitale cecoslovacca di Togliatti e Caprara, essi ebbero un incontro casuale e ringraziarono per averli aiutati. Di questo episodio Caprara, che materialmente accolse e trattò con gli omicidi per conto del ministro Togliatti, fece una dettagliata descrizione nel suo famoso libro La strage di Schio. Riportò tra l'altro la reazione di Togliatti alla notizia dell'eccidio. "Disgraziati" disse stizzito.

Nel 1946 fu approvata la cosiddetta amnistia Togliatti, di cui beneficiarono migliaia di fascisti e collaborazionisti, ma anche partigiani autori di eccidi e di moltissimi altri casi simili di giustizia sommaria.

Le commemorazioni[modifica | modifica wikitesto]

Recentemente il fatto di sangue è stato riportato alla ribalta dai libri di Giampaolo Pansa sulla Resistenza e di Massimo Caprara, nonché dell'antropologa Sarah Morgan e dagli storici locali, Simini, Valente e De Grandis. Questo fatto di sangue è stato commemorato per decenni quasi esclusivamente dalle famiglie delle vittime finché, dopo un percorso complesso di riavvicinamento, nel 2006 (recte: 2005) è stata firmata una "Dichiarazione sui valori della concordia civica" tra il sindaco di Schio, Luigi Dalla Via, i rappresentanti del "Comitato familiari delle vittime dell'Eccidio di Schio" e i rappresentanti dell'ANPI e dell'AVL[9].

Oltre ai familiari delle vittime, costituiti dapprima in comitato ed ora in associazione, da tempo sono presenti con proprie manifestazioni gruppi della destra neofascista che ricordano l'eccidio con un corteo nella cittadina, fatto che suscita sempre notevoli polemiche da parte dell'ANPI[10] e di numerosi cittadini, partiti e movimenti democratici e della sinistra supportati dai Centri Sociali, nonché, dopo il 2005, in modo espresso più o meno marcato, da parte del Comune di Schio.

Le varie amministrazioni comunali succedutesi dal 1945 invano richiesero il conferimento al Comune di Schio della medaglia d'oro per la Resistenza. Una nuova occasione fu quando nel 1978 il presidente Pertini visitò il monte Pasubio. La richiesta fu presentata personalmente, ma il presidente, noto per la sua schiettezza, rispose solo "No". Successivamente però nel 1984 fu conferita al comune la medaglia d'argento.

Nel 1993 la redazione RAI di Mixer produsse sulla strage un docu-film intitolato "Un Paese diviso" per la regia di Enzo Antonio Cicchino. Il filmato una volta terminato, fu però tenuto bloccato fino al 1998 quando fu trasmesso su Rai3 (che anche all'epoca vantava ascolti notevolmente inferiori alla prevista Rai2) e ad un orario in cui tali ascolti toccano il minimo (verso mezzanotte).

Nel 2016 Valentino Bortoloso (peraltro già premiato nel 1985 con diploma del Presidente della Repubblica Pertini) fu incluso nella lista dei partigiani meritevoli della Medaglia della Liberazione[10], che gli è stata assegnata in prima istanza[11] a quanto pare senza alcuna verifica da parte del prefetto, né da parte del governo in carica. Questi si giustificarono dicendo che avevano inoltrato il nominativo segnalato loro dall'ANPI. Successivamente l'onorificenza è stata revocata dal Ministero della Difesa, su impulso dell'Associazione parenti delle vittime e su richiesta del sindaco di Schio[12].

Uno dei parenti, Anna Vescovi, figlia del Commissario prefettizio Giulio Vescovi[13] vittima nell'eccidio, ha tuttavia meditatamente provveduto a ricostruire un percorso di avvicinamento personale e famigliare che si è poi concluso col suo perdono del partigiano Bortoloso e la sottoscrizione da parte di entrambi di una lettera aperta di riconciliazione nella e per la pace: il documento è stato solennemente firmato davanti al vescovo di Vicenza il 3 febbraio 2017, nel consapevole e dichiarato solco tracciato dalla fondamentale "Dichiarazione" del 2005, meglio nota come "Patto di Concordia civica".

Resta ancora al giorno d'oggi la questione della lapide, che venne posta nel luogo del massacro solo decenni dopo i fatti. Vi sono incisi solo i nomi delle vittime senza alcun riferimento ai fatti, ai colpevoli ed alle circostanze. Un tentativo di cambiarla, proposto in anni recenti, fu rifiutato con sdegno dai familiari delle vittime in quanto nel nuovo testo si sarebbe fatto riferimento a metodi sbagliati per fare giustizia, senza quindi tenere in considerazione l'alto numero di innocenti tra le vittime (nei successivi processi venne infatti appurato che solo 27 persone erano coinvolte con il fascismo), e l'assenza di qualsivoglia istruttoria per gli altri.

Condannati come autori dell'eccidio[modifica | modifica wikitesto]

  • Valentino Bortoloso, condannato a morte, pena successivamente commutata in carcerazione, scontò circa 10 anni.
  • Renzo Franceschini, condannato a morte, pena successivamente commutata in carcerazione.
  • Antonio Fochesato, condannato a morte, pena successivamente commutata in carcerazione.
  • Gaetano Canova, condannato all'ergastolo.
  • Aldo Santacaterina, condannato all'ergastolo.
  • Ruggero Maltauro, condannato all'ergastolo.

Due altre persone furono condannate a 24 anni e una terza fu condannata a 12 anni.

Tutti i condannati fruirono delle numerose amnistie ed indulti promulgati nel dopoguerra.

Le vittime dell'eccidio[modifica | modifica wikitesto]

Morti sul posto[modifica | modifica wikitesto]

  1. Teresa Alcarro, anni 45, segretaria del Fascio Repubblicano Femminile di Torrebelvicino, operaia tessile
  2. Michele Arlotta, anni 62, membro del Direttorio del Fascio Repubblicano di Schio, chirurgo e primario dell'ospedale di Schio
  3. Irma Baldi, anni 20, iscritta al Fascio Repubblicano di Schio, casalinga
  4. Quinta Bernardi, anni 28, operaia tessile
  5. Umberto Bettini, anni 40, iscritto al Fascio Repubblicano di Schio, impiegato
  6. Giuseppe Bicci, anni 20, della Milizia stradale della G.N.R., impiegato
  7. Ettore Calvi, anni 46, legionario fiumano, commissario del Fascio di Torrebelvicino e di Valli del Pasubio, tipografo
  8. Livio Ceccato, anni 37, fondatore del Fascio Repubblicano di Schio, brigadiere della G.N.R., impiegato
  9. Maria Teresa Dal Collo, anni 56, casalinga
  10. Irma Dal Cucco, anni 19, casalinga, di Valli del Pasubio
  11. Anna Dal Dosso, anni 19, operaia
  12. Antonio Dal Santo, anni 37, iscritto al Fascio Repubblicano, caporalmaggiore della G.N.R., operaio
  13. Francesco Dellai, anni 42, iscritto al Fascio Repubblicano di Schio, operaio tessile
  14. Settimio Fadin, anni 49, squadrista antemarcia, comandante la squadra fascista La Disperata, fondatore del Fascio Repubblicano di Schio, commerciante
  15. Mario Faggion, anni 27, iscritto al Fascio Repubblicano di Schio, milite della G.N.R., autista
  16. Severino Fasson, anni 20, milite della G.N.R., calzolaio
  17. Fernanda Franchin, anni 39, iscritta al Fascio Repubblicano di Schio, casalinga
  18. Silvio Govoni, anni 55, membro del Comando della Brigata Nera di Schio, impiegato
  19. Adone Lovise, anni 40, impiegato
  20. Angela Irma Lovise, anni 44, iscritta al Fascio Repubblicano di Schio, casalinga
  21. Blandina Lovise, anni 33, ausiliaria della R.S.I., impiegata
  22. Lidia Magnabosco, anni 18, prestò servizio presso i tedeschi, casalinga
  23. Roberto Mantovani, anni 44, commissario prefettizio di Tretto, segretario comunale
  24. Isidoro Dorino Marchioro, anni 35, segretario del Fascio di Schio e di San Vito di Leguzzano, commerciante
  25. Alfredo Menegardi, anni 37, milite della Brigata Nera di Thiene, capostazione
  26. Egidio Miazzon, anni 44, fondatore del Fascio Repubblicano di Schio, membro del Direttorio, impiegato
  27. Giambattista Mignani, anni 25, milite della G.N.R
  28. Luigi Nardello, anni 35, brigadiere della G.N.R., cuoco
  29. Teresa Omedio Ciscato, anni 41, operaia tessile
  30. Giovanna Pangrazio, anni 31, ausiliaria della R.S.I., impiegata al Fascio Repubblicano di Torrebelvicino
  31. Alfredo Perazzolo, anni 29, iscritto al Fascio Repubblicano di Schio, meccanico
  32. Vito Ponzo, anni 57, commerciante
  33. Giuseppe Pozzolo, anni 45, impiegato
  34. Giselda Rinacchia, anni 24, iscritta al Fascio Repubblicano di Schio, operaia
  35. Ruggero Rizzoli, anni 51, maggiore, della segreteria del Duce, diresse l'Ufficio Dispersi della RSI a Gargnano
  36. Leonetto Rossi, anni 20, studente, della Milizia stradale della G.N.R
  37. Antonio Sella, anni 60, ex podestà di Valli del Pasubio, del Direttorio del Fascio Repubblicano di Schio, farmacista
  38. Antonio Slivar, anni 65, commissario prefettizio e segretario del Fascio Repubblicano di Malo, pensionato
  39. Luigi Spinato, anni 36, iscritto al Fascio Repubblicano di Schio, portiere
  40. Giuseppe Stefani, anni 63, Podestà di Valdastico, impresario
  41. Elisa Stella, anni 68, casalinga (accusata di fascismo da un suo inquilino, partigiano, che non pagava l'affitto)
  42. Carlo Tadiello, anni 22, studente, ufficiale G.N.R
  43. Santo Tomasi, anni 53, fiduciario del commissario del Fascio di Schio ,capitano alpini collaborazionisti, impiegato
  44. Luigi Tonti, anni 48, iscritto al Fascio Repubblicano di Schio, commerciante
  45. Francesco Trentin, anni 56, iscritto al Fascio Repubblicano di Schio, delatore, invalido, operaio tessile
  46. Giulio Ziliotto, anni 38, Iscritto al Fascio Repubblicano di Schio, commissario comunale dell'Opera Nazionale Balilla, impiegato
  47. Oddone Zinzolini, anni 40, squadrista antemarcia, iscritto al Fascio Repubblicano di Schio, rappresentante

Deceduti nei giorni successivi per le ferite riportate[modifica | modifica wikitesto]

  1. Giovanni Baù, anni 44, commerciante
  2. Settima Bernardi, anni 21, operaia
  3. Arturo De Munari, anni 43, tessitore
  4. Giuseppe Fistarol, anni 47, maggiore genio
  5. Mario Plebani, anni 49, squadrista antemarcia comandante di coorte, reggente del Fascio Repubblicano di Schio, commerciante
  6. Carlo Sandonà, anni 74, membro della Milizia, pensionato ex-barbiere
  7. Giulio Vescovi, anni 35, commissario prefettizio (capitano della Divisione corazzata "Ariete", pluridecorato al valor militare). Pur avendo subìto ferite non gravi agli arti, decedeva all'ospedale il 18 luglio 1945 - ufficialmente per "morte naturale".

Sopravvissuti[modifica | modifica wikitesto]

Feriti ma non uccisi[modifica | modifica wikitesto]

  1. Luigi Bigon, anni 42, rappresentante
  2. Antonio Borghesan, anni 19, iscritto al Fascio Repubblicano, della Brigata Nera di Schio, elettricista
  3. Giuseppe Cortiana, anni 53, ex podestà di Torrebelvicino
  4. Maria Dall'Alba, anni 23, casalinga
  5. Anselmo Dal Zotto, anni 25, milite della Polizia Ausiliaria Repubblicana
  6. Guido Facchini, anni 25, milite della Brigata Nera di Schio
  7. Giuseppe Faggion, anni 36, fondatore del Fascio Repubblicano di Schio, gestore della mensa della G.N.R.
  8. Mario Fantini, anni 24, milite della G.N.R.
  9. Anna Maria Franco, anni 16
  10. Emilia Gavasso, anni 49
  11. Carlo Gentilini, anni 38, ingegnere
  12. Emilio Ghezzo, anni 47, meccanico
  13. Olga Pavesi (Clamer), anni 41, segretaria del Fascio Repubblicano Femminile di Schio, casalinga
  14. Calcedonio Pillitteri, anni 30, reduce dalla Russia, interprete per i tedeschi all'officina ILMA
  15. Dr. Arturo Perin, anni 34, ufficiale istruttore della Milizia Stradale della G.N.R. di Piovene Rocchette
  16. Rino Tadiello, anni 55, fondatore e commissario del Fascio Repubblicano di Schio
  17. Rosa Tisato, anni 35

Illesi[modifica | modifica wikitesto]

Non colpiti:

  1. Giovanni Alcaro, segretario del Fascio Repubblicano di Torrebelvicino
  2. Bruno Busato, iscritto al Fascio Repubblicano di Schio.
  3. Giuseppe Bastianello
  4. Pietro Calgaro, squadrista antemarcia, fondatore del Fascio Repubblicano di Schio.
  5. Rosa Canale
  6. Diego Capozzo, ex vicecommissario prefettizio fascista
  7. Augusto Cecchin, fondatore del Fascio Repubblicano di Schio, sergente della Milizia.
  8. Alessandro Federle, membro della Milizia della R.S.I.
  9. Vittorio Federle
  10. Agostino Micheletti, maggiore della G.N.R.
  11. Umberto Perazzolo, iscritto al Fascio Repubblicano di Schio, Istruttore premilitare della G.I.L.
  12. Caterina Sartori
  13. Ferry Slivar, iscritto al Fascio Repubblicano di Schio
  14. Alfredo Tommasi, iscritto al Fascio Repubblicano di Schio.
  15. Basilio Trombetta, fondatore del Fascio Repubblicano di Schio.

Risparmiati dai partigiani:

  1. Carlo Albrizio
  2. Antonio Antoniazzi
  3. Massimo Carozzi
  4. Bruno Maron
  5. Irma Dechino
  6. Lucia Santacaterina

In totale 21 illesi, come da relazione del Capitano Chambers.

Oltre ai 7 detenuti comuni.

Note[modifica | modifica wikitesto]

  1. ^ a b L'eccidio di schio illustrato Pubblicato sul Giornale di Vicenza del 20 settembre 2004, su lucavalente.it. URL consultato il 22 maggio 2009 (archiviato dall'url originale il 15 maggio 2006).
  2. ^ Dai lager una sola voce, su lucavalente.it. URL consultato il 22 maggio 2009 (archiviato dall'url originale il 15 maggio 2006).
  3. ^ Lo stesso Valentino Bortoloso "Teppa", uno degli assassini, dichiarò che il suo mitra gli fu rubato la mattina successiva alla strage.
  4. ^ Il Maltauro era un ex appartenente alla Polizia Ausiliaria Fascista. Dopo solo un paio di anni si trovava quindi a ricoprire lo stesso ruolo (ma da comandante) ma dalla parte avversaria.
  5. ^ Luca Valente - Giornale di Vicenza del 24 settembre 2004
  6. ^ Vedi l'articolo di Giorgio Marenghi
  7. ^ Luca Valente, su lucavalente.it. URL consultato il 19 settembre 2006 (archiviato dall'url originale il 6 maggio 2006).
  8. ^ Eccidio di Schio, su groups.google.com. URL consultato il 27 marzo 2018.
  9. ^ http://www.anpi-vicenza.it/patto-concordia-civica/
  10. ^ a b Documento del Comitato Provinciale del 2 luglio 2016 – A.N.P.I. Vicenza, su anpi-vicenza.it, 13 luglio 2016. URL consultato il 18 agosto 2016.
  11. ^ Eccidio di Schio, uno dei responsabili riceve la medaglia della Resistenza. Il sindaco: "Inopportuno", su Il Fatto Quotidiano, 18 giugno 2016. URL consultato il 18 agosto 2016.
  12. ^ Vicenza, medaglia a partigiano dell'eccidio di Schio. E il ministero della Difesa la revoca, su Il Fatto Quotidiano, 10 agosto 2016. URL consultato il 18 agosto 2016.
  13. ^ Giulio Vescovi, ufficiale pluridecorato, aveva comandato un'unità in Africa dove militava il figlio del segretario comunale Pietro Bolognesi, rimasto però ucciso in combattimento. Si ipotizzò che questo fosse il motivo per cui gli ordini di scarcerazione, da giorni nel cassetto del segretario comunale, non fossero stati eseguiti. Il Vescovi, ferito in modo non grave durante la strage, morì due settimane dopo, ancora all'ospedale di Schio, ufficialmente per "morte naturale".

Bibliografia[modifica | modifica wikitesto]

  • Ezio Maria Simini - ...e Abele uccise Caino - Elementi per una rilettura critica del bimestre della "resa dei conti" - Schio 29 aprile - 7 luglio 1945, Schio 2000
  • Ugo de Grandis - E la piazza decise - Schio, 7 luglio 1945. L'Eccidio, Schio, 2016.

Voci correlate[modifica | modifica wikitesto]

Collegamenti esterni[modifica | modifica wikitesto]


Schio Eccidio Categoria:Storia di Schio