Utente:Claudio Gioseffi/Sandbox 16

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Sandbox Claudio Gioseffi
Modifica in corso: Voce in creazione sulla Storia socio economica del territorio vicentino

Preistoria[modifica | modifica wikitesto]

Sviluppo delle attività umane nel corso dei millenni

Età romana[modifica | modifica wikitesto]

  • Agricoltura
  • Allevamento
  • Attività manifatturiera
  • Commercio
  • Attilio Previtali, Vicenza paleocristiana: cenni storici, Vicenza, 1991., p. 14:

In età romana Vicenza era una piccola città di provincia, una cittadina di campagna, viveva in simbiosi con la campagna, così da fare del foro cittadino il centro di ogni realtà economica, sociale, amministrativa e religiosa di tutto il territorio. La città viveva primariamente dei prodotti agricoli della campagna. Il lungo periodo di prosperità e di pace conosciuto nei primi due secoli dell'impero con il nome di pax romana fu seguito, almeno dalla seconda metà del terzo, da un decadimento economico e sociale. pag. 15: il profondo contrasto città-campagna passò attraverso il rigido ordinamento fiscale introdotto da Diocleziano. Si concretizzò tra i funzionari dello Stato, resi esattori garanti della riscossione delle imposte, e le varie categorie di coloni e di piccoli proprietari spinti dalla grande pressione fiscale a trovare altre vie di uscita e di sopravvivenza. La classe emergente fu quella dei grandi proprietari terrieri che consolidò la base rurale della propria potenza sociale, economica e politica, e risolse a suo favore anche il confronto con il latifondo imperiale.

Nelle piccole città accanto della presenza pubblica, divennero lavorare fino le manutenzioni delle opere pubbliche.

Medioevo[modifica | modifica wikitesto]

Popolazione e situazione politica[modifica | modifica wikitesto]

Pur non essendo in possesso di dati attendibili, si può pensare che, come in tutta Europa, a partire dal Mille fino alla metà del Trecento anche a Vicenza vi sia stato un costante aumento demografico. Ne sono attestazione la costruzione delle nuove mura, con le quali gli Scaligeri vollero nel 1365-70 racchiudere i borghi nei quali la città si era allargata al di fuori della cinta altomedievale.

Testo in corsivo=== il controllo del territorio da parte della città===

Lo stesso argomento in dettaglio: Storia del territorio vicentino § Basso Medioevo.

Nel corso del basso medioevo, in tutta Italia le città tesero a dominare le campagne, costruendosi un contado: la campagna forniva le derrate alimentari, costituiva l'area dove cittadini effettuavano gli investimenti fondiari e si rifornivano di manodopera flessibile e a basso costo. Così fece anche Vicenza, con un processo che iniziò a metà del XII secolo e si concluse alla fine del XIII.

L'economia rurale nel Trecento[modifica | modifica wikitesto]

Lo stesso argomento in dettaglio: Storia di Vicenza § L'economia rurale nel Trecento.

Il quadro generale dell'economia rurale non è stato descritto dalla storiografia locale dell'epoca e si deve ricavare dagli statuti rurali e dagli innumerevoli atti notarili tra privati che sono stati ritrovati[1].

Data la scarsa numerosità della popolazione e la presenza importante sia di rilievi (Lessini, Altopiano, Berici) che di acque (i laghi di Pusterla e di Longara e i terreni paludosi presenti in tutti i fondovalle), nel Trecento la maggior parte del territorio doveva essere incolto e coperto da boschi. Anche nelle zone coltivate – come la coltura della città, cioè la fascia periferica fuori le mura - così come nei grandi patrimoni privati una parte era tenuta a bosco, per ricavarne legname e frutta e per cacciare cinghiali, caprioli e piccoli animali.

Il coltivo, che probabilmente si avvaleva delle nuove tecniche – l'aratro con vomere di ferro e la rotazione triennale – era comunque tenuto a coltura estensiva di miglio e sorgo e il rapporto tra semente e produzione era mediamente di 1:4. La parte di territorio coltivata si espanse nella prima metà del Trecento, risalendo anche le pendici dei colli e le vallate, fruendo dell'immigrazione di popolazioni tedesche provenienti dal Trentino[1].

Nella seconda metà del secolo il territorio era fortemente frammentato e popolato da mansi a conduzione monofamiliare, che comprendevano una parte coltivata per la produzione di cereali, una parte a prato per l'allevamento del bestiame e un piccolo vigneto.

L'inizio dello sviluppo dell'attività tessile laniera[modifica | modifica wikitesto]

(sintesi)

A differenza di altre città venete sede di signoria, come Verona e Padova, nel tardo medioevo Vicenza vide uno sviluppo della manifattura tessile laniera piuttosto lento.

Nel corso del XIII secolo però, grazie a un'ampia disponibilità di lana locale di qualità medio alta, dovuta a un allevamento espressamente finalizzato a questo obiettivo, gli imprenditori vicentini poterono sviluppare quest'attività riducendo al minimo il ricorso alla molto più costosa importazione di lane inglesi.

Risale al 1330 un primo provvedimento delle autorità comunali, seguito da altri, che offriva protezione agli artigiani locali nei confronti dei manufatti foresti[2]; nove anni dopo gli addetti a questo settore erano organizzati in corporazione che verso la fine del secolo divenne tra le più importanti in ordine di priorità[3].

Le conseguenze della peste del 1348 portarono ad una riconversione agricola e a uno sviluppo dell'allevamento. Così nacque e si consolidò ulteriormente come fattore produttivo l'arte della lana: è documentata la sua presenza in alcuni monasteri situati nei borghi suburbani presso i corsi d'acqua. A metà del secolo era presente in città sia la fraglia dei lanarii che quella dei mercatores di panni, che possedevano botteghe nel peronio, la principale piazza della città[4]. Lo statuto dell'arte del 1410 annovera circa 7.000 occupati in città[5].

Attività mineraria[modifica | modifica wikitesto]

Le prime notizie relative a un'attività mineraria nell'alto vicentino riguardano la presenza di qualche modesta attività di estrazione e lavorazione del ferro, di qualche forno per fondere il metallo, di quali alcune fucine che producono attrezzi in metallo per un mercato prevalentemente locale. Le scarse notizie in proposito sono confermate dall'esistenza, nell'area compresa tra la valle dell'Astico e quella di Posina, di diversi toponini che richiamano la lavorazione dei metalli come Forni e Fusine[6].

Età moderna[modifica | modifica wikitesto]

Popolazione, salute ed economia[modifica | modifica wikitesto]

La peste del 1348-50 e quelle, di poco successive, della seconda metà del XIV secolo, avevano sensibilmente ridimensionato - praticamente dimezzandola - la popolazione della città e del contado e questi eventi avevano mutato radicalmente anche l'economia della zona, riducendo da una parte il numero delle bocche da sfamare ma riducendo, nello stesso tempo, anche la manodopera in grado di lavorare i campi.

Durante il Quattrocento iniziò, seppure lentamente, quel ripopolamento, che sarebbe continuato con un lento sviluppo numerico fino alla fine del Settecento. Verso la metà del Cinquecento Vicenza contava oltre 21.000 abitanti e, nel suo territorio, almeno cinque centri - Lonigo, Marostica, Schio, Bassano e Arzignano - superavano i 2.000 abitanti[7].

Gli equilibri demografici, così come quelli economico e sociale, furono in tutto il periodo estremamente fragili, con alternanza di momenti di lenta crescita ad altri di crisi determinata da epidemie e da carestie</ref>.

La peste e il voto alla Madonna - Pala di Giambattista Maganza il Giovane (1617), Chiesa di San Giorgio in Gogna, Vicenza

Il flagello della peste, quasi sempre concomitante o conseguente ai periodi di carestia, faceva strage nella popolazione già debilitata per la mancanza di cibo. Essa si presentò nel territorio vicentino con episodi ricorrenti dall'inizio del Trecento fino al 1631, anno in cui la città adempì al voto fatto alla Madonna di Monte Berico[8]. Le cronache del tempo e le stime - relative alle due maggiori pestilenze dopo quella di metà 300 - parlano di 3.000 morti in città (il 10% della popolazione urbana in quel momento) durante la pestilenza del 1576-77; di 15.000 morti in città e di 30.000 nel contado durante quella del 1630-31[9].

Dopo questa data la peste scomparve e non ne sono tuttora chiarite le reali ragioni. Probabilmente le forme di prevenzione - come i controlli sanitari e le quarantene - si erano affinate; le case di mattoni, ormai più in uso, erano meno infestate dai topi di quelle di legno. Stanti le conoscenze del tempo, non è neppure certo che si trattasse sempre di peste: le cronache di allora definivano con questo nome la morbilità che si diffondeva rapidamente per contagio e conduceva a morte. Ma, a parte questi episodi, in un ambiente con gravi carenze igieniche e di persone debilitate, il rischio di contrarre malattie infettive e di morirne era endemico[10]. Questo naturalmente significa che l'impatto era diverso a seconda delle classi sociali: la mortalità era certamente più bassa presso i nobili che, meglio nutriti, all'insorgenza dell'epidemia andavano a rifugiarsi nelle ville di campagna, lontano dal contagio[11].

È assodata la stretta correlazione tra questi tre fattori: crescita, salute e tenore economico di una popolazione.

Le annate di carestia erano frequenti: un'economia - com'era a quel tempo quella vicentina - strutturalmente basata su una produzione agricola poco diversificata e una con scarsa capacità di produzione e di accumulo dipendeva dalle condizioni climatiche e meteorologiche. Dai documenti si ha notizia di numerose annate di gelo o di troppo calore, di piogge incessanti e di arsura e, quando si succedevano più annate negative, la produzione era così scarsa che il prezzo dei cereali si alzava a livelli impraticabili per le classi più povere. I cereali - che costituivano l'alimentazione base se non esclusiva dei contadini - erano prodotti facilmente deperibili e pesanti da trasportare e le eventuali scorte venivano destinate alle città, in primo luogo a Venezia. Spossata dalla mancanza di cibo, la gente era esasperata: a Vicenza nel 1648 vi fu una vera e propria rivolta urbana, al sentire che mercanti senza scrupoli esportavano illegalmente cereali verso la Dominante[12].

L'impoverimento colpiva in primo luogo la campagna, dove i contadini non avevano i mezzi per riseminare i campi ad inizio stagione ed erano costretti a indebitarsi con i signori cittadini cui dovevano comunque il pagamento del canone di affitto e con gli usurai, spesso le medesime persone. La fame e l'insicurezza sociale erano anche la fonte di continue ruberie e di una criminalità diffusa.

La carestia colpiva anche la città, verso la quale si riversavano folle di affamati per mendicare e ricevere un aiuto dal Comune, che era più organizzato e disponeva di maggiori mezzi rispetto alle comunità rurali. Il Comune, da parte sua, preoccupato delle tensioni sociali che nascevano dal bisogno, reagiva con tutti i mezzi a sua disposizione: per erogare sussidi cercava denaro aumentando le imposte e chiedendo prestiti al Monte dei Pegni, ma nello stesso tempo vietava ai poveri di chiedere l'elemosina ed espelleva coloro che non appartenevano alla comunità cittadinaref>Mometto, 1989, p. 16</ref>.

Le famiglie patrizie che governavano il Comune, d'altra parte, erano preoccupate per il fatto che le carestie minavano i loro interessi. Era il periodo in cui esse stavano costruendo i più grandi e sontuosi palazzi di Vicenza e il denaro necessario proveniva quasi esclusivamente dalle rendite fondiarie, cioè dai proventi della produzione agricola e dell'allevamento e dai canoni pagati dagli affittuari.

Così nel 1590 - uno dei momenti di maggiore difficoltà, durante un triennio terribile al punto che i lupi arrivarono fino alla città - il Podestà e il Consiglio deliberarono di estendere l'aiuto anche al contado, “non tanto per beneficio de infinite persone miserabile, la quale non avendo raccolto robba da per se stesse per la sterilità dell'anno andranno in pericolo, anzi quasi certezza, de morir de fame, quanto a beneficio de tutti i cittadini i quali mancando il territorio resteriano in conseguenza privi delle loro intrade”[13]. Alla distribuzione dei sussidi era deputata una speciale magistratura, i Presidenti alle biade.

Naturalmente questo incideva negativamente anche sulla crescita della popolazione: i dati demografici, seppur parziali e localizzati, indicano in corrispondenza delle crisi una riduzione dei matrimoni e della natalità e un aumento della mortalità.

Solo nella seconda metà del XVIII secolo anche a Vicenza - come nel resto dell'Europa - si compì la cosiddetta transizione demografica, cioè la riduzione sia dei tassi di mortalità che di natalità. Nel contado a nord della città e specialmente nelle zone collinari - dove ancora esisteva la piccola proprietà contadina - questo portò ad un aumento della popolazione, mentre in pianura il saldo restò stazionario[14], ancora una volta a dimostrazione dell'incidenza dei fattori sociali su quelli demografici.

Una società di ceti[modifica | modifica wikitesto]

Lo stesso argomento in dettaglio: Storia di Vicenza § Privilegiati dal privilegio.

La stabilità politica che per quattro secoli Venezia avrebbe dato a Vicenza - dopo la dedizione della città nel 1404 - avrebbe garantito a quest'ultima anche e soprattutto il predominio sul territorio. Se i magistrati di Vicenza venivano nominati dalla Serenissima, quelli delle comunità rurali erano scelti dalla città capoluogo. Poteva così continuare lo sfruttamento della città sulla campagna, iniziato durante il medioevo, in particolare assicurando alla prima la disponibilità delle derrate alimentari e delle materie prime prodotte nel contado.

La società era divisa in ceti tendenzialmente chiusi, ben individuabili dai modi esteriori di vita, oltre che dai bilanci familiari.

Gli aristocratici[modifica | modifica wikitesto]

Le famiglie nobili - che tali erano diventate durante il Medioevo arricchendosi per diversi motivi, meriti militari, favore dei signori del tempo, usura - ora si vedevano assicurata una stabilità, data sia dalle proprietà che dal fatto che soltanto dal loro ceto uscivano le magistrature cittadine del contado e potevano così contare su regole fatte e fatte osservare sempre in loro favore.

Possedevano case in città, spesso addirittura vaste aree nel centro storico sulle quali costruivano i loro palazzi (come i Porto, i Valmarana, i Trissino) e notevoli proprietà in campagna. Dai terreni dati in affitto in campagna traevano rendite, che venivano reinvestite in città, appunto nella costruzione di palazzi sempre più grandi e maestosi, di cappelle e altari costosissimi nelle chiese in cui avevano il patronato. In campagna costruivano le ville, vero simbolo di questo mondo, un complesso in cui alla bellezza e alla grandiosità della residenza signorile si affiancavano gli edifici necessari alla gestione della tenuta circostante: la villa aveva dunque, a differenza di altri sistemi di ville, una doppia funzione, sia di rappresentanza e di svago, che di centro produttivo. Erano adatte da una parte per controllare l'attività produttiva, dall'altra per impressionare gli affittuari e i vicini oltre che per intrattenere gli ospiti importanti; erano quindi efficaci al fine di stabilire una presenza sociale e politica nelle campagne e, nello stesso tempo, adatte per il riposo, la caccia, e per sfuggire dalla città, soprattutto nel periodo estivo. Circondate da vaste estensioni di campi coltivati e vigneti, le ville comprendevano magazzini, stalle e depositi per il lavoro agricolo. Di norma presentano ali laterali, le barchesse, destinate a contenere gli ambienti di lavoro, dividendo razionalmente lo spazio del corpo centrale, destinato ai proprietari, da quello dei lavoratori, in modo da non sovrapporre le diverse attività. Il corpo centrale è a sua volta suddiviso in senso verticale, dove ogni piano assolve a funzioni diverse.

Le rendite permettevano alle famiglie nobili di tenere una vita - per quel tempo - sfarzosa e di assicurare la carriera politica e militare dei figli e una cospicua dote per le figlie.

Il bilancio familiare: il 30% in alimentazione (compresa quella della servitù), il 20% per il vestiario, circa il 50% può essere destinato a spese extra, spese per i figli, donazioni alle chiese e investimenti nella costruzione di edifici[15].

I nobili decaduti

Classi medie[modifica | modifica wikitesto]

Nella classe media (notai, funzionari pubblici, commercianti, artigiani affermati) la spesa alimentare rappresentava circa metà del reddito, l'altra metà serviva per vestiario e bianchire a e le spese per il mantenimento della casa e dell'attività[16].

Contadini e classi urbane[modifica | modifica wikitesto]

In questa fascia reddito e consumi coincidevano. La spesa alimentare assorbiva il 70-80% del reddito, un altro 10-15% andava in vestiario e biancheria, il restante 10-15% serviva per il pagamento dell'affitto, del riscaldamento e degli arredi[17].

Alimentazione e vita materiale[modifica | modifica wikitesto]

Attività manifatturiera[modifica | modifica wikitesto]

Già nel XV e XVI secolo la città di Vicenza e il territorio a settentrione di essa - una fascia pedemontana con un terreno poco adatto a una elevata resa di cereali, ma ricca di acqua e di legname, densamente popolata, ricca di paesi e di grossi borghi[18] - rappresentava un'area caratterizzata da una rilevante presenza di attività manifatturiere. A sud della città, invece, le attività economiche erano invece limitate all'agricoltura e alla pastorizia[19].

in questi due secoli Vicenza è una città dalla marcata impronta manifatturiera, con alcuni settori-come il lanificio e il setificio-di livello internazionale e con alcune aree suburbane-come i borghi di San Pietro e di Pusterla- che sono delle vere proprie zone industriali, vista la forte concentrazione nei pressi del bacchiglione di impianti ed energia idraulica, botteghe e laboratori destinati alle più disparate attività produttive.

Altrettanto rilevante è lo sviluppo dei diversi settori manifatturieri in svariati centri del territorio, soprattutto dell'area pedemontana e di bassa montagna, in cui ampiamente diffusi sono non solo la manifattura laniera e la gelsibachicoltura, ma anche la concia dei pellame, la lavorazione del legname, l'industria estrattiva con la connessa lavorazione dei metalli. Sono le località che riusciranno nel 17º secolo a ritagliarsi spazi di azione sempre più ampi, fino alla costituzione di poli produttivi specializzati.

Importante fu il ruolo degli aristocratici vicentini nella diffusione e nello sviluppo dei vari settori industriali operanti tanto in ambito urbano quanto nel territorio. Essi furono infatti investitori e finanziatori delle attività produttive, talora addirittura veri e propri mercanti imprenditori, tanto nel lanificio che nel setificio, nella concia dei pellame e dello sfruttamento delle risorse minerarie e del settore vetraio, dovunque l'attività poteva ottenere dei buoni risultati economici. Questo risultato fu, molto probabilmente, anche il fattore determinante che li fece diventare committenti dei grandi palazzi ideati da Andrea Palladio, In una città la cui popolazione non superava i 20.000 abitanti[20].

I fattori produttivi
Le acque

Durante l'età moderna, l'acqua ha rappresentato il principale fattore di sviluppo dell'attività manifatturiera e protoindustriale, necessaria per alimentare le più importanti filiere produttive del settore tessile, della metallurgia, della concia, della carta. Oltre che necessario per le diverse operazioni di separazione e di pulizia dei materiali, il flusso di corrente, trasformato in moto rotatorio dalle pale dei mulini, era praticamente il solo sistema in grado di muovere i complessi macchinari indispensabili per elevare la produttività del lavoro umano. Nel 16º secolo era ormai stata messa a punto una pluralità di congegni che adattavano il moto circolare ottenuto dai mulini alle diverse funzioni utensili: i martelli delle gualchiere, i magli per la forgiatura dei metalli, i pestelli per impastare la cellulosa ottenuta dagli stracci, le seghe nelle segherie e i mantici nelle fucine.

La presenza dell'acqua determinò la localizzazione delle manifatture: come nelle due città principali-Vicenza e bassano-nacquero delle zone proto industriali lungo i fiumi, così il territorio fu diviso, tra un alto vicentino dove i corsi d'acqua erano più numerosi e con portata e dislivello maggiori, che divenne ricco di attività manifatturiere, e un basso vicentino Dove il terreno era più fertile, che rimase esclusivamente agricolo e tale rimase fino al novecento[21].

La proprietà terriera

Nella parte sud orientale del territorio, da Camisano Barbara, il corso del bar anche potuto garantire un certo livello di forza motrice industriale, ma la presenza della grande proprietà agraria, della nobiltà vicentina e veneziana, non favorì l'attecchire delle lavorazioni industriali. Queste ultime avrebbero infatti richiesto manodopera nei momenti morti del ciclo agrario, ma in queste zone la popolazione contadina fu completamente utilizzata iper lo sfruttamento intensivo delle risorse agricole.

L'impiego della manodopera per la manifattura fu invece molto più comune nelle zone della piccola proprietà contadina a livello familiare[22].

Le materie prime

Altro fattore importante che determinò la localizzazione delle attività manifatturiere fu la presenza e la disponibilità di materie prime: la lana delle greggi allevate in zona pedemontana e montana, soprattutto nell'altopiano di Asiago, gli stracci di lino e di canapa, la seta dei bachi da seta allevati nelle case contadine, le pelli vaccine e il legname delle zone montuose rappresentarono i principali fattori produttivi.

Fin dal tardo medioevo e per tutte l'età moderna vi fu uno stretto rapporto tra i lanifici delle località pedemontane e l'allevamento ovino in Lessinia, sulle piccole Dolomiti e sull'altopiano di Asiago. Nel fondovalle veniva esercitato il cosiddetto "diritto di posta", che consentiva ai pastori della montagna di svernare ogni anno senza difficoltà; spesso questo avveniva nelle grandi proprietà nobiliari o ecclesiastiche dei territori di Camisano, Brendola, Orgiano, Barbarano in Montecchio, che così usufruivano di un notevole apporto di concime[23].

La gelsibachicoltura era già diffusa nel territorio vicentino verso la metà del 14º secolo; da allora e fino alla metà dell'ottocento l'allevamento dei bachi e la trattura del filo avveniva esclusivamente a domicilio delle famiglie contadine; una serie di intermediari pagati e percentuale batteva poi le campagne per fare incetta di tutti i quantitativi di seta prodotti dalle famiglie; i mercanti imprenditori infine provvedevano a rivendere parte della seta cruda fuori dei confini dello Stato, nonostante i divieti emanati dalle autorità Veneziane e con la parte restante alimentavano il numerosi filatori torcitoi di Vicenza. Il considerevole sviluppo del setificio nel 17º e 18º secolo, specialmente nel distretto di bassano, diede un ulteriore impulso alla gelsibachicoltura del territorio vicentino, raggiungendo la massima intensità verso la fine del settecento, quando circa un migliaio di fornelli lavoravano in media ogni anno un totale di 60-70 tonnellate di seta tratta[24].

Mentre l'estrazione dell'argento ebbe un ciclo molto breve nel corso del cinquecento perché le miniere si esaurirono, durarono molto più lungo le cave di marmo della valle del Chiampo e dell'altopiano di Asiago - soprattutto nella zona di Lusiana - che rifornivano i cantieri edili rispettivamente del capoluogo e del bassanese[25].

Manifattura laniera[modifica | modifica wikitesto]

XV e XVI secolo

Nel corso del 15º secolo - il primo della dominazione veneziana - la manifattura laniera di Vicenza fece un notevole salto di qualità, raggiungendo una produzione di 3000 panni alti verso la metà del secolo e d1 4000 negli anni 80, senza contare quelli fabbricati a Marostica e Lonigo, le cosiddette terre murate dov'era permessa la lavorazione dei panni alti; la produzione di panni bassi era diffusa in tutto il territorio vicentino.

La qualità dei panni medio-alti prodotti a Vicenza - di pregio e destinati prevalentemente all'esportazione - era garantita dalle buone lane locali, le fiorete e i zentili; il Comune intervenne più volte con norme rivolte a controllare e limitare l'introduzione di lane straniere: erano ammesse soltanto le lane inglesi, chiamate fiandrine o francesche, quelle catalano-aragonesi di San Matteo e le subtilissime di Verona, Mantova e della Bassa padovana denominate scorciane[26].

Complessa era l'organizzazione della manifattura cittadina, articolata in circa 25-30 operazioni, che potevano essere raggruppate in cinque fasi - la preparazione della lana, la filatura, l'orditura insieme alla tessitura, la rifinitura e la tintura - fasi tutte coordinate dal mercante-imprenditore. Questi generalmente apparteneva all'aristocrazia cittadina[27], impiegava il proprio capitale, gestiva le cure operazioni di preparazione della materia prima e anche nei propri ambienti, riservata al lavoro a domicilio di artigiani Indipendenti le successive fasi di lavorazione. In alcuni casi vi furono alcuni grandi mercanti - come i Garzadori - proprietari di telai o di botteghe per la tintura e la rifinitura dei manufatti, che gestivano direttamente tutte le fasi produttive, senza affidarle a botteghe artigiane autonome. Dai documenti rimasti, risultano anche numerosi I piccoli produttori che gestivano, con minuscole imprese autonome su base familiare, varie fasi della lavorazione[28].

Altre lane venivano importate, come le scadenti lane pugliesi, quelle salonicche di provenienza balcanica o ancora lane spagnole, ma potevano venire utilizzate - insieme con le lane non strade di seconda scelta, chiamate grosse, grosselle e zacole - soltanto per i panni bassi, di minor qualità, prodotti fuori città, in numerosi centri rurali o semi urbani, specialmente dell'area pedemontana come Arzignano, Cornedo, Marostica, Schio, Thiene e Valdagno. In questi centri, la forma di produzione prevalente era costituita dalla piccola impresa autonoma su base familiare, che integrava agricoltura e manifattura e dove tutti componenti della famiglia compresi i bambini partecipavano in qualche modo all'attività produttiva; in qualche caso, però, l'organizzazione era simile a quella urbana, gestita da un imprenditore che affidava il lavoro a domicilio[29].

Se una parte (non quantificabile) della produzione veniva venduta nelle botteghe dei venditori al minuto di panni e scampoli ubicate soprattutto nel Peronio[30], la maggior parte dei panni alti prodotti in città veniva destinata all'esportazione, talora diretta ma più spesso attraverso l'intermediazione di Venezia. Essa era destinata alle varie regioni che si affacciavano sulll'Adriatico, ma raggiungeva anche il Levante e i paesi tedeschi. La produzione di panni bassi veniva invece venduta principalmente sui mercati locali, talvolta barattata con materie prime[31].

La guerra della lega di Cambrai assestò un colpo decisivo alla produzione laniera vicentina; anche se qualche anno dopo fu una parziale ripresa, che durò però soltanto qualche decennio, perché già nella seconda metà del secolo la produzione era di molto ridotta e all'inizio del Seicento quasi scomparsa. Tra le diverse cause di questo declino - tra queste la riduzione della qualità dell'allevamento e l'attrazione esercitata dall'attività serica - la più importante fu probabilmente la concorrenza di Venezia che durante il 16º secolo aveva quintuplicato la produzione, in particolare dei tessuti di qualità media, più leggeri di quelli vicentini ma più richiesti dal mercato internazionale, perché costavano molto meno, utilizzando una quantità di lana molto minore e semplicità nelle operazioni di finitura[32].

Anche nei centri lanieri del territorio la produzione cambiò radicalmente; pur continuando a fabbricare i tradizionali panni bassi, divenne prevalente la produzione delle mezzelane e dei cosiddetti panni cotonati, in cui entravano materie prime assai scadenti, come canapa o stoppa.

XVII e XVIII secolo
Lo stesso argomento in dettaglio: Schio § Repubblica veneta (1406-1797).

All'inizio del seicento, mentre la produzione laniera nel capoluogo era completamente crollata, nella zona pedemontana il settore continuava a rivestire una notevole importanza; il centro più importante era quello di Schio. La peste del 1630-31 interruppe soltanto per pochi anni questa produzione che riprese a pieno ritmo nei decenni centrali del secolo; nella seconda metà del secolo continuarono a registrarsi nuove concessioni di uso delle acque e la dotazione degli impianti Aldo significativamente aumentando. Nel 1701 il consiglio di Vicenza approvò la concessione a Schio del perla poter liberamente fabbricare i panni alti, un tempo riservati esclusivamente alla città di Vicenza.e questo fu il simbolo del nuovo corsoImboccato dalla cittadina sul Leogra. Così a Schio, a differenza degli altri centri produttivi, si produssero all'inizio del settecento tessuti di media qualità come i mezzetti alti, ad imitazione di generi fiamminghi, ottenuti con lane dell'altopiano di Asiago. Sì iniziò poi la produzione dei cosiddetti panni ad uso estero tinti ini mischio, cioè tessuti con lana cardata, tinta e mescolata nelle diverse colorazioni[33].

Nella seconda parte del secolo i tessuti di Schio si affermarono sui mercati internazionali e la cittadina divenne il principale centro laniero italiano, le tecniche e le strategie delle di trovarti imitatori, prima di tutto negli altri centri lanieri vicentini come Valdagno e tiene, Arzignano, ma lui bassano. Alla rapidissima aumento della produzione fisica si accompagnò l'ingrandirsi delle imprese maggiori, aumento del numero di produttori, il miglioramento qualitativo della dotazione tecnologica. Fu questa l'età d'oro dell'industria laniera vicentina che alla fine del secolo raggiungeva la cifra annua di 21.000 panni a uso estero. Negli anni 90 circa 6000 persone erano impegnate a tempo pieno nella difficile, mentre altrettante lavoravano a domicilio soprattutto nella filatura[34].

Un aspetto negativo fu per molto tempo il tipo di organizzazione produttiva, molto frammentata, basata sul lavoro a domicilio a totale carico delle famiglie contadine, mentre erano centralizzate soltanto le operazioni di finitura. nella seconda metà del settecento però l'organizzazione del lavoro ed è rapida evoluzione passando a un modello ad un play specializzati: la filatura resto affidata esclusivamente a domicilio, la La tintura e il fissaggio restano operazione centralizzate perché richiedevano la tua professionalità e il ricorso a macchinari, la tessitura si spostò all'interno di vere proprie fabbriche . Negli anni 80 vennero costruiti i primi edifici a originaria destinazione industriale. Vi fu anche un profondo cambiamento nelle relazioni sociali esistenti, con l'emergere di una élite imprenditoriale e la formazione di una classe di salariati che nel 1799 a Schio rappresentava quasi il 70% delle famiglie. Il settecento laniero dell'alto vicentino si chiuse in piena espansione, appena scalfita dal forte rincaro subito dalle lane locali, a causa della forte pressione della domanda[35].

L'industria della seta[modifica | modifica wikitesto]

XV e XVI secolo

Nel territorio vicentino e la gelsibachicoltura si sviluppò già nel 15º secolo, soprattutto nell'area pedemontana (Schio, tiene, Marano, malo, valgano e arzignano,) e, misura minore alle pendici dei colli berici e negli immediate vicinanze del capoluogo. Nell'ultimo ventennio del quattrocento la coltivazione dei gelsi e l'allevamento dei bachi da seta vengono definiti come la principale attività di sostentamento per i vicentini e il "tesoro della comunità". Un ulteriore forte sviluppo avviene nella prima metà del cinquecento; alla metà del secolo il vicentino ha una produzione tale che lo colloca tra i più importanti produttori della penisola italiana in questo periodo. La seta diviene uno dei principali Investimenti della classe dirigente vicentina che introduce la coltivazione dei gelsi in maniera massiccia dei propri possedimenti terrieri, tanto che i morari ormai si trovano ovunque sia in città che in campagna[36].

L'organizzazione del lavoro si basa su un sistema di manifattura decentrata o a domicilio: la sede centrale delle compagnie rappresenta solo il centro amministrativo e direzionale con il mercante imprenditore occupato a sovraintendere controllare le varie fasi di lavorazione e a collocare sul mercato il prodotto grezzo, semilavorato o finito. Il processo produttivo serico consiste in cinque fasi fondamentali: la raccolta delle foglie di gelso e il nutrimento dei bachi, la trattura, la filatura torcitura con l'incannatura, la bollitura con la tintura, l'orditura con la tessitura.

In questi due secoli, però,il setificio vicentino era un grosso produttore di sete grezze e semilavorate, mentre la fabbricazione dei drappi di seta era un'attività solo secondaria. Nel 500 le prime due fasi erano prevalentemente svolte in ambito rurale, facendo ricorso a manodopera femminile e infantile; la terza e la quarta invece venivano effettuate quasi esclusivamente in ambito urbano. Fino a tutta la prima metà del cinquecento, però, la tessitura non era autorizzata da parte di Venezia che la riservava a sé; solo nella seconda metà del cinquecento la Dominante concesse anche alle città della Terraferma la tessitura dei tessuti di seta, così a Vicenza si passò dalla produzione dei velluti a quella degli ormesini, un tessuto leggero assai richiesto sul mercato tedesco.

Anche quale conseguenza di questa concessione, le esportazioni che fino a quel momento erano dirette verso altre regioni d'Italia, cominciarono a dirigersi con sete di maggior qualità verso il Nord Europa. Verso la fine del secolo in città vi erano almeno cento mulini da seta, alcuni azionati a mano, altri posti nelle vicinanze dei fiumi per essere mossi dalle acque. Data la redditività della produzione e del commercio della seta, imprenditori e soci dell'attività manifatturiera erano soprattutto gli esponenti delle famiglie più importanti e aristocratiche della città, che in essa investivano i proventi della proprietà terriera[37].

XVII e XVIII secolo

Nel 17º e il 18º secolo in tutta Europa il consumo di seta si espanse senza interruzione. Il guardaroba dei nobili, dei cittadini e perfino dei ceti rurali si arricchì di vestiti, veli, borse e fazzoletti di seta; questa domanda diede un forte sviluppo alla produzione del semilavorato da esportazione (organzino) e dei tessuti vicentini[38].

L'attività conciaria e la lavorazione delle pelli[modifica | modifica wikitesto]

Vi sono documenti che parlano di calzolai vicentini già verso la fine del 12º secolo e nel 1264 si ha notizia dell'esistenza di una corporazione di cerdones. In questo stesso anno gli statuti del Comune fanno divieto di immergere nelle acque del retrone le pelli conciate per non inquinarne l'acqua. Nel 1311 nasceva una nuova corporazione di pellicciari che si affianca a quella dei calzolai: a inizio quattrocento diventeranno un'unica fraglia di "calegari, conciatori e pellettieri, per cui da quel momento diventerà impossibile distinguere gli artigiani che si occupano di tutte le fasi del ciclo produttivo da quelli che si limitano al confezionamento di scarpe, selle e oggettistica varia[39].

Già nel quattrocento l'attività conciaria era uno dei settori più importanti dell'economia vicentina, secondo soltanto a quella laniera. Molte erano le società in questo settore, formate da un socio finanziatore che conferiva il capitale - spesso un aristocratico proprietario terriero o un affermato mercante - e un socio attivo che metteva a disposizione la propria capacità lavorativa; ricoprivano quest'ultimo ruolo molti inurbati dai centri dell'alto vicentino o da località dell'altopiano di asiago, ma anche tedeschi veri e propri.

Le botteghe, i laboratori e gli impianti idraulici utilizzati nell'attività conciaria erano situati prevalentemente lungo il corso del Bacchiglione, nei borghi Pusterla e San Pietro[40] dove potevano disporre di notevole quantità di acqua, sia per muovere le ruote dei mulini che per scaricare - nonostante i numerosi divieti per ragioni di igiene pubblica - le sostanze adoperate per la conce. Altri impianti, come mulini a martello per la lavorazione del pellame, tiratoi per la stenditura delle pelli e laboratori per l'arte conciaria si trovavano anche lungo altri corsi d'acqua che attraversavano la città, come l'asticella e il retrone.

Tra il 15º e 16º secolo l'attività conciaria, era praticata in quasi tutti i principali centri dell'area pedemontana e località dell'altopiano dei sette comuni, in località favorite dalla presenza dell'acqua per forza motrice e soprattutto Dalla materia prima utilizzabile, cioè le pelli di allevamento soprattutto ovino; ciò nonostante la varietà e la qualità delle pelli di provenienza locale non era sufficiente per coprire il fabbisogno di un settore così diffuso, per cui molte portate anche dai territori vicini O addirittura dai paesi d'oltralpe. quanto alla produzione, e venivano prodotte selle, cinture, calzature e altri oggetti in pelle destinati quasi esclusivamente al consumo locale[41].

Miniere e metalli[modifica | modifica wikitesto]

L'attività metallurgica - essenzialmente l'estrazione dell'argento - si sviluppa notevolmente nell'alto vicentino nei secoli 15º e 16º, favorita dalla serenissima che ha gran bisogno di questo metallo per i propri traffici commerciali. Dai documenti risulta che le concessioni minerarie furono date a imprenditori di origine tedesca che si avvalevano prevalentemente di popolazione, anch'essa tedesca, insediatosi in quel territorio nel 13º secolo. Questa attività si inserisce nel boom europeo delle attività minerarie e metallurgiche tra il 1460 e il 1530. Favorita dalla Repubblica di Venezia e addirittura un codice minerario Proprio codice e istituisce un apposito magistrato, il vicario generale alle miniere.

Alla fine del quattrocento due sono le investiture rilasciate: una a Girolamo Morosini per i monti sopra Schio, l'altra al Melchiorre da Vicenza per l'intero territorio vicentino. Il periodo di maggior produzione è quello del primo decennio del cinquecento quando vengono estratti annualmente 500-600 chili di argento, soprattutto sull'altopiano del Tretto, a Torrebelvicino e a Recoaro. In questo periodo la zona è molto frequentata da alemanni: concessionari, maestri, minatori, fonditori, che vi apportano il patrimonio di conoscenze tecniche maturate nelle regioni di provenienza. I lavori di scavo di trasporto e raffinazione dell'argento fornisce impiego anche un gran numero di lavoratori locali, mentre la richiesta di legna da ardere e di costruzione mobilitare le risorse di una vasta area circostante. Oltre ai patrizi veneziani, i soci delle compagnie minerarie sono nobili e mercanti vicentini come i Civena, i da Schio, gli Angarano e i Piovene, gli scledensi Toaldo e Zamboni.

Già nel secondo decennio del cinquecento, però, la produzione cala drasticamente, le vene di argento si esauriscono e neppure nuove tecniche - come l'uso della polvere da sparo - riescono a riattivare l'attività. Nei secoli successivi verranno fatti diversi tentativi per riattivare le miniere, ma tutti senza esito; l'unica attività estrattiva della zona sarà quella del caolino, destinato alla manifattura ceramica[42].

la produzione della carta e la stampa[modifica | modifica wikitesto]

Lo stesso argomento in dettaglio: Remondini.

Della seconda metà del quattrocento si hanno diversi documenti relativi alle cartiere, situate sul Bacchiglione presso Ponte degli Angeli, di proprietà del monastero delle benedettine di San Pietro, impianti che vennero dati in gestione a diversi maestri cartari; altri folli da carta in città erano presenti vicino a ponte Pusterla e fuori città si hanno notizie di un impianto di proprietà del nobile Gasparo Monza a Dueville. Nei primi anni del secolo successivo il settore sembra entrare in crisi e dagli estimi cittadini i nomi degli addetti alla produzione e al commercio della carta divennero sempre meno numerosi fino alla quasi totale scomparsa. Restò attiva soltanto la piccola cartiera di Dueville che passò di mano in mano, fino ad essere gestita nella seconda metà del secolo dallo stampatore e cartaro e libraro Perin Zanini, che ne è attivò anche un'altra a Vivaro in società con Iseppo da Porto[43].

Nel corso del sei e del settecento si avviò un nuovo ramo manifatturiero vero e proprio, definibile a cartiera diffusa, lungo i due fiumi principali dell'astico e del brenta. Lungo il primo sorsero infatti cartiere a Piovene, a Torrebelvicino e soprattutto ad Arsiero Che alla fine del seicento divenne il centro produttivo più importante del vicentino e mantenne questo ruolo fino al terzo decennio del settecento. in questo secolo il bollo del canale di brenta, che già aveva cantiere a Campese, Arrivò a equipararsi a quello sull'astico con le cartiere di Oliero, di Roncobello di Valstagna, di rossano e di Carmignano.

L'espansione della produzione in questo settore fu determinato dalla domanda interna delle tipografie ma anche dei molteplici usi commerciali come la carta straccia e da imballo, e i cartoni di vario tipo. anche al momento della caduta della Repubblica di Venezia, il settore cartario vicentino si presentava solido e piuttosto importante[44].

Come avvenne per altri centri, l'arte della stampa a Vicenza e nel suo territorio sembra sia stata introdotta a partire dagli anni 70 del 15º secolo. A parte il Perin, quasi tutti gli stampatori di Vicenza furono di origine tedesca: il principale fu Leonard Eckart di Basilea, che stampò opere di soggetto diverso, dal campo religioso a quello scolastico, dalla letteratura alle scienze, dalle pubblicazioni di occasione a quelle per commissioni ufficiali; altri furono Giovanni da Reno, Hermann Liechtenstein da Colonia e Stephan Koblinger da Vienna. Un tipografo italiano fu Giovanni Leonardo Longo, attivo dapprima nel capoluogo dov'era parroco di San Paolo, poi a Torrebelvicino che divenne un centro di primario interesse per l'editoria vicentina; l'unico locale sembra sia stato Enrico Zeno, originario di Santorso, forse più mercante di libri che produttore. Complessivamente la produzione vicentina quattrocentesca fu uno di qualità. Nella prima metà del cinquecento essa però fin quasi indifferente ripresa nell'ultimo quarto del XVI secolo con Giorgio Angelieri, Agostino Dalla Noce, Giorgio Greco e soprattutto Perin Zanini, che possedeva una libreria in piazza dei signori, punto di riferimento per la cultura vicentina dell'epoca, in cui i libri venivano venduti ma anche prestati[45].

Il vetro[modifica | modifica wikitesto]

La presenza di fornaci da vetro continua ad essere attestata a partire dal terzo decennio del 15º secolo e fino agli anni 60 del 500. nel 1427 un atto notarile cita un laboratorio - situato presso la piazza dell'Isola - attrezzato nello stesso modo di quelli veneziani e che quindi probabilmente realizzava lo stesso genere di manufatti; annesso all'abitazione, comprendeva anche una calcaria, il forno dove veniva preparata la massa vetrosa, per cui probabilmente il ciclo produttivo era completo. 10 anni dopo il laboratorio fu spostato in un edificio nella contrada di San Lorenzo, gestito da prima dai fratelli Amatori e poi ceduta a Battista Garzadori, un esponente dell'importante famiglia di lanaioli vicentini.

Altre testimonianze dell'esistenza di fornaci da vetro a Vicenza viene da altri documenti del 500. sembra che la produzione fosse rivolta soprattutto alla fabbricazione di diversi tipi di bicchieri che nel corso degli anni subì modifiche o innovazioni dettate dei cambiamenti di gusto in continua evoluzione[46].

L'oreficeria e le altre attività produttive[modifica | modifica wikitesto]

L'attività orafa a Vicenza e attestata fin da 300, secolo nel quale vengono redatti i primi statuti della fraglia degli orefici . Nel quattrocento il settore è già affermato, vengo in città e maestri orafi e apprendisti per imparare il mestiere dalle città e dalle regioni vicine. non si conosce molto della tipologia dei prodotti: anelli d'ore Tarcento, cinture Borchiate in oro, Oggetti liturgici e bottoni. Le botteghe, tutte proprietà del Comune e site all'interno del peroni o, vengono spesso controllate dal Gastaldo della fraglia che esamina i metalli, le pietre preziose e le bilance utilizzati, la qualità degli eventuali gioielli di importazione forestiera e commina multe ai falsificatori. Verso fine secolo il settore sempre entrare in crisi e verrà rinnovato a partire dal 1536, quando verranno rinnovati gli statuti e te entrerà a far parte della fraglia degli orafi il Famoso maestro Valerio di Antonio Belli[47].

Altre attività[modifica | modifica wikitesto]

Gli artigiani detti "boccalotti" producono terraglie fittili, talora di pregio

Attività edilizia, Che coinvolge produttore di materiale da costruzione, muratori la cui corporazione ha uno statuto del 1407, fornitori di legname, gestori di segherie, falegnami carpentieri, fabbri e lapicidi

Lavorazione del cotone, del lino e della canapa

Berrettificio, fabbricazione di botti di rovere, castagno o abete. Costruzione di burchi o altre imbarcazioni per la navigazione fluviale. Fabbricazione di armi e armature. Produzione di salnitro e di sapone[48].

Età contemporanea[modifica | modifica wikitesto]

Caratteristiche del processo di industrializzazione nel Vicentino[modifica | modifica wikitesto]

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  • il precoce avvio,
  • la forte concentrazione territoriale
  • il suo sviluppo «ondulare»
  • i caratteri endogeni, quelli che non dipendono, cioè, da massicce sollecitazioni statuali (che pur ci saranno, a un certo punto). Dal basso Medioevo all'Età moderna l'attività manifatturiera nella città e nelle campagne intensificò la mobilizzazione del capitale, accumulò abilità tecniche e attitudini imprenditoriali, diede Incentivo alla commercializzazione e ai rapporti economici. L'allargamento dei mercati stimolò l'iniziativa industriale nei luoghi in cui si erano venute concentrando energie impren¬ditoriali, competenze specialistiche e disponibilità di forza- lavoro.

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  • La compenetrazione fra attività manifatturiere e società rurale rimase a lungo molto stretta, non solo per l'organizza¬zione produttiva, per l'offerta di materie prime e di forza-lavoro, ma anche per i livelli della domanda, le tipologie pro¬duttive e i meccanismi di accumulazione.
I settori industriali

Il laniero giunse prima di altri settori a sviluppare le premes¬se dei tempi lunghi nel periodo compreso tra la Restaurazio¬ne e l'annessione del Veneto all'Italia, con significativi mo¬menti di passaggio intorno agli anni Trenta e a cavallo del¬l'unificazione.

  • L'impresa-chiave, il Lanificio Rossi, recuperò sempre maggiore terreno nei confronti dell'industria straniera precedendo l'evoluzione generale del settore in Italia e gua-dagnando significativi riconoscimenti sul piano internazio¬nale.
  • A qualche lustro di distanza, nella vicina vallata dell'Agno, anche il lanificio Marzotto cominciò a segnalarsi nel panorama laniero italiano.

Nei tradizionali settori della seta, della ceramica e del¬l'oreficeria, del conciario, del legno e del cartario, nelle atti¬vità estrattive, nella metallurgia e nell'industria del laterizio la risposta ai mutati scenari economici e politici fu più lenta e contraddittoria. Alcune aree manifestarono maggiore capa¬cità di adattamento, mentre altre ristagnavano o decaddero più o meno bruscamente. I cam-biamenti strutturali avvennero in maniera graduale e selettiva, innestandosi sul sistema preesistente e facendo convivere per buona parte dell'Ottocento il nuovo modo di produzione con le lavorazioni domestiche.

349

Lo sviluppo industriale

Nella prima metà dell'Ottocento fino agli anni sessanta le prime «isole» industriali dovettero fare i conti con un quadro di difficoltà economiche, di frammentazione politica e doganale, con mercati ristretti e con difficili collegamenti. In questa fase, tut¬tavia, uscirono le nuove figure imprendito¬riali che nella prima metà del secolo diedero il via alle più importanti iniziative venete di industrializzazione capitalisti¬ca introducendo sostanziali innovazioni nelle tecnologie, nei prodotti e nei rapporti di produzione. Segui il decollo dei maggiori lani¬fici e la diffusione del sistema di fabbrica in nuclei tessili territorialmente concentrati, permeati da un clima sociale favorevole all'industria e caratterizzati da mentalità, attitudi¬ni, valori e condizioni di vita omogenei. Dalla metà del seco- lo altre piccole ditte operanti nelle fasi terminali del ciclo diedero impulso a processi di accentramento, mentre si pro¬filavano i caratteri di un'imprenditorialità di spicco formata- si con un caratteristico impasto di cultura tecnico-industria¬le e di cultura umanistica.

Tra la seconda metà degli anni Sessanta e gli anni Ottanta dell'Ottocento si può collocare la seconda fase di questo per¬corso: nacque un gruppo di società azionarie, le imprese pioniere fecero un decisivo balzo in avanti, raggiun¬gendo un alto grado di maturità tecnologica e un correlato volume di investimenti in capitale fisso, quote di occupazio¬ne stabile e un rapporto tra intensità di capitale e intensità di lavoro degni di nota da parte della concorrenza europea.

350

Il capitale veneto manifestò una caratteristica propen¬sione alla circolazione interna ed una notevole capacità di legarsi ai movimenti capitalistici su scala interregionale e internazionale.

Lo spostamento dalla terra e dall'interesse al profitto favori concentrazioni e strategie industriali come quelle attuate da Alessandro Rossi prima per la grande fi¬latura-tessitura pettinata di Piovene-Rocchette, poi per la costituzione dell'Anonima che fece della sua azienda il la¬nificio più importante in Italia, leader nel cardato e monopolista nel pettinato. In un breve arco di tempo il Rossi sviluppò il decentramento delle strutture produtti¬ve, il correlato sforzo di pianificazione sociale e la diversificazione settoriale, mentre il Lanificio Marzotto usciva dalle condizioni di arretratezza tecnico-produttiva e le imprese minori dell'Alto Vicentino operavano una più decisa conversione alla meccanizzazione e alla razionalizzazione degli impianti.

La rapida ascesa dell'industria del lino e della canapa e la con¬centrazione delle tratture seriche in grossi opifici del capo¬luogo e di altri centri della provincia s'aggiunsero al forte sviluppo laniero nel fare dell'industria leggera l'ossatura por¬tante dell'apparato industriale vicentino.

Una terza fase comprende il successivo decennio fino al tornante degli anni Novanta, attraversa il periodo del prote¬zionismo e dell'interventismo statale, della fine del corso forzoso, dello sviluppo edilizio delle città maggiori e dei ser¬vizi urbani, della crisi bancaria ma anche dello sviluppo del¬l'apparato creditizio locale, della crisi agraria e della grande emigrazione con i conseguenti riflessi sul mercato del lavoro e sui costi salariali. Furono gli anni degli investimenti extra-agricoli e dell'osmosi tra gli industriali e il ceto dirigente tra¬dizionale.

Nel Vicentino l'evoluzione dei grandi lanifici, stret¬tamente interconnessa con i mutamenti politici ed economi¬ci sul piano nazionale, si caratterizzò per le specializzazioni, il rinnovamento tecnico-impiantistico, le crescite dimensio¬nali e le ristrutturazioni organizzative. 351

Non solo tessile

Ma il dato nuovo con¬sisteva nel fatto che l'industria capitalistica non era più solo quella tessile e che il processo ora determinava anche le pri¬i-ne vistose trasformazioni territoriali.

Oltre a lana, canapa e seta cominciarono infatti a svilup¬parsi industrie cotoniere, cartarie, conciarie, meccanico-me¬tallurgiche, chimiche, tipografiche e dei laterizi, che avreb¬bero fatto nascere un tessuto di imprese di media grandezza e di notevole flessibilità in grado di incidere fortemente sui futuri passaggi dell'industrializzazione vicentina.

Si perfezio¬nava anche il modello di organizzazione comunitaria della vita operaia e si estendevano le infrastrutture a supporto del¬l'apparato industriale evitando fenomeni troppo accentuati di urbanizzazione e favorendo una più larga distribuzione geografica degli insediamenti.

La conclusione dell'itinerario formativo della base indu¬striale vicentina coincise, sul piano nazionale, con l'uscita dalla crisi di fine secolo, con lo spurt del 1896-1913 e la maturazione di un ambiente più largamente industriale, col dispiegarsi dell'azione dello Stato e delle banche d'affari, e con l'avvio della legislazione sociale. Il secondario vicentino si inseriva nello sviluppo «bifronte» dell'industria italiana, impegnata da un lato a completare il recupero sulla prima rivoluzione industriale, dall'altro a sviluppare le nuove industrie del Second Wind, quella elettrica, chimica e dell'acciaio. In que¬sta fase, il Vicentino, pur confermandosi una delle province italiane più industrializzate, non poté approfittare come in precedenza del sostegno dello Stato e della mobilitazione dei capitali a causa della debolezza relativa dell'industria metal¬lurgica e meccanica.

Nell'ultimo ventennio del secolo, la diversificazione settoriale e l'irradiazione territoriale generate dal più forte Polo di crescita si saldarono con la maggiore propensione a favorire gli insediamenti industriali da parte del gruppo diri¬gente del capoluogo e con gli effetti prodotti sui settori chi¬mico e meccanico dal rinnovamento tecnico in agricoltura e dalla modernizzazione della vita urbana. Grazie alle trasfor-mazioni dell'industria leggera e alla formazione di un polo chimico di rilievo nazionale, il tessuto industriale vicentino dell'età giolittiana non mancò di segnare ulteriori e significa¬tivi sviluppi. 352 Gli imprenditori utilizzarono i benefici del mutato quadro nazionale ed internazionale per procedere a con¬centrazioni, ristrutturazioni tecnico-produttive e riassetti societari. Mentre alcune piccole o medie imprese si emanci¬parono definitivamente dalle maggiori o dall'artigianato di servizio, il mutuo sostegno tra settori in espansione favorì il decollo di altre industrie-chiave, di industrie di base e di beni strumentali che o prepararon il terreno per la formazione, nei successivi decenni, di nuovi poli di insediamento come quel¬lo del capoluogo provinciale o quello meccanico di Arzignano¬Montecchio.

Qui il lento declino delle tradizionali lavorazio¬ni seriche ebbe parte importante nel passaggio all'industria di un altro settore tradizionale, la concia e la lavorazione del¬le pelli, ponendo le condizioni per lo sviluppo sull'asse Arzignano-Chiampo di un distretto specializzato destinato ad assumere, nel secondo Novecento, posizioni di assoluto rilievo sul piano internazionale.

Entravano in scena nel frattempo nuove generazioni im¬prenditoriali in grado di far crescere rapidamente le loro azien¬de grazie alle precondizioni create dalle industrie pioniere, agli apporti del credito, all'innovazione tecnologica e gestionale, nonché ai temporanei favori della congiuntura. In questo periodo diverse zone del Vicentino videro espan¬dersi un tessuto industriale piuttosto articolato settorialmente e dimensionalmente, si registrò un notevole incremento oc¬cupazionale e l'industria assunse definitivamente il ruolo di motore del sistema economico-sociale.

Dalla protoindustria all'industria moderna: formazione ed ascesa di un nuovo ceto manifatturiero[modifica | modifica wikitesto]

Come in precedenti epoche storiche, anche nella transi¬zione all'industria moderna fu nella fascia pedemontana che si ritrovarono i prerequisiti fondamentali del successivo svi¬luppo della regione: antica attività proto-industriale, accu¬mulazione di sapere tecnico, abbondanza relativa di risorse energetiche e di materie prime, naturale vocazione all'interscambio con aree esterne allo stato di appartenenza, propensione al rischio d'impresa e così via. In questo contesto, l'attitudine all'industria e all'iniziativa imprenditoriale era la risultante di un ambiente che induceva a svariate for¬me di integrazione agricolo-commerciale-artigianale e a pro¬lungate pratiche di pluriattività.

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Come in altre aree della «regione originaria» dell'indu¬strializzazione italiana, il processo di industrializzazione ap¬pare qui l'esito di un riuscito adattamento a condizioni am¬bientali poco favorevoli mediante il sapiente e variabile sfrut¬tamento di un mix di risorse naturali limitate, ma adatte ad acclimatare culture industriali (minerali, legno, lana, seta, paglia, pelli ecc. con un'abbondante disponibilità di energia idrica, risorsa strategica per le localizzazioni industriali del periodo) e di un'offerta molto elastica di forza-lavoro, in un processo di crescente integrazione dei mercati.

Nel tumultuoso periodo che va dalla caduta della Repub¬blica di Venezia alla Restaurazione, con la dura selezione e il drastico avvicendamento delle famiglie imprenditoriali, le vi- cende del lanificio altovicentino resero manifesto l'alto tasso di endogeneità del sistema. In questo ambiente fortemente specializzato sotto il profilo umano, tecnologico, merceologico, i mercanti-imprenditori costituivano il gruppo dominante, consapevole della propria forza e del proprio riconosciuto pre¬stigio presso gli organi di governo.

In questo periodo, le esi¬genze del ceto manifatturiero, la sua visione dei problemi, la corposità degli interessi consolidati e la tenacia nel difenderli trovarono rappresentanza ai livelli più alti nella figura e nel¬l'azione di Sebastiano Bologna, l'ultimo discendente della dit¬ta che per prima, poco oltre la metà del Settecento, era passata ad una progressiva riorganizzazione aziendale imperniata sul¬la tessitura e sulle fasi terminali del ciclo. Esperto fin dalla giovane età del commercio internazio¬nale; artefice della fortunata casa di vendita aperta in un cen¬tro commerciale di primaria importanza come la città di Bo¬logna e lì emerso quale uno degli «uomini nuovi» della tran¬sizione rivoluzionaria; esponente di punta dei ceti mercantili e manifatturieri e poi influente notabile del Regno Italico; tenace difensore dell'industria «nazionale» e con essa di quella del Bacchiglione presso gli organi di governo e nel Consiglio generale di commercio, arti e manifatture di Milano, 354 il Bologna non completò il cammino evolutivo dal mercante all'im¬prenditore sia per le troppo forti radici settecentesche sia per i preminenti interessi politico-istituzionali, ma attraverso la con¬tinuità della sua ditta con l'azienda di Francesco Rossi, suo nipote acquisito, venne a saldare il vecchio mondo manifattu-riero con le origini della prima industria capitalistica veneta.

Non è certo trascurabile la presenza nell'albero genealogico di Alessandro Rossi di un uomo che per tutto il dominio francese fu autorevolmente attivo negli snodi istitu¬zionali dei rapporti Stato-società, tenendo sempre congiunte la figura politica e la rappresentanza categoriale. Di un uomo che si studiò di far coincidere gli interessi locali, e propri, con quelli «nazionali» e di impiegare tutto il suo «credito e potere» per tutelarli con l'ostinata rivendicazione di un in¬terventismo statale, in cui i richiami al mercantilismo duttile e articolato del governo veneziano nei confronti dei fabbri¬canti scledensi si mescolavano alle impostazioni di un Melchiorre Gioia nel tentativo non riuscito di mediare gli interessi francesi e il peso delle sete gregge sulla bilancia com¬merciale con i drammatici problemi industriali derivanti dal¬lo sconvolgimento dei circuiti mercantili tradizionali.

Quest'esperienza appartiene agli esordi della selezione imprenditoriale, alla rotazione del ceto mercantil-imprendi¬toriale nella fase in cui si destabilizza l'ordinamento produt¬tivo tradizionale e si impongono nuovi atteggiamenti e stra¬tegie di fronte al completo mutamento del quadro interna- zíonale.

Setificio

Fu il periodo in cui il ceto industriale si trovò nel pieno di problemi assai gravi, in particolare per le grandi manifatture seriche vicentine, che subirono le durissime con¬seguenze dell'ingresso in un più vasto sistema economico europeo dove a prevalere erano gli interessi dell'industria fran¬cese. La perdita dei vitali mercati del centro-nord europeo, dove si era intanto formata un'industria indipendente, e la conversione del greggio e del miglior filo di seta italiano a sostegno dell'apparato francese furono passaggi di una parti¬ta giocata su scala continentale, che si prolungò con lo stesso segno sotto il nuovo dominatore asburgico. L'arrestonegli sviluppi tecnici, i dissesti commerciali e «la mancanza di que' grandi capitali che richiedeva l'istituzione delle macchine e di nuovi metodi»' consentirono a qualcuna delle maggiori ditte di sopravvivere solo per qual¬che tempo.

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Le attività si concentrarono sull'esportazione della materia prima e sulle primissime lavorazioni in regime di sussidiarietà con le province e regioni limitrofe. La divisione internazionale del lavoro ridusse la tradizione protoindustriale a qualche torcitoio ad energia idraulica e a pochi telai a mano del residuo artigianato cittadino, mentre la specializzazione si limitava alla trattura del filo. Poco oltre la metà del secolo in provincia si sarebbe registrata una sessantina di telai, mentre sarebbero risultate attive più di 200 filande con 1.146 baci¬nelle e quasi 4.000 addetti.

La deindustrialízzazione serica non disperse completa- mente la sedimentazione di abilità tecniche e gestionali. La diffusione di tratture e torciture contribuì a formare una manodopera agro-industriale e a suscitare interessi in grado sia di richiamare dall'esterno capitali ed imprenditori sia di sollecitare l'iniziativa dell'imprenditorialità locale. Non è di poco conto, che i due maggiori industriali scledensi dell'Ot¬tocento, il Rossi e il Garbin, ancora alla metà del secolo, se¬guendo un'antica consuetudine affiancassero entrambi al la¬nificio anche la filanda serica.

Lanificio

Il lanificio risentì meno duramente i colpi della crisi, ma, nella flessione generale allo scorcio della dominazione fran¬cese e nella successiva drammatica congiuntura del 1813-17, i nodi strutturali connessi al reperimento delle lane e al livel¬lo tecnologico incisero pesantemente su tutti i centri lanieri determinando, sulla spinta delle commesse militari –fondamen¬tale elemento di sostegno in questa difficile congiuntura –, la staticità dei livelli tecnologici e dei moduli produttivi ed un fenomeno di ulteriore concentrazione geografica. I lanifici dell'ex Repubblica Veneta furono investiti da un processo di deindustrializzazione subendo passivamente la concorrenza delle industrie dell'area asburgica. Nell'Alto Vicentino, tuttavia, il ricorso alle prime cardatrici e filatrici diede presto prova della capacità del ceto G. B. Clementi, Cenni intorno al lanificio e al setificio nella provincia di Vicenza, in «E Tornaconto. Giornale di Agricoltura, Orticoltura, Indu¬stria, Commercio», II, 1848, pp. 8-10.

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imprenditoriale di rispondere alla sfida avviando un nuovo modello di industrializzazione. Nel momento della massima espansione protoindustriale, sulla spinta del mercato e delle connesse esigenze di qualificazione produttiva, s'era infatti formato un gruppo di imprenditori capaci di integrare tecni¬ca ed economia e di utilizzare le regole della contabilità; un gruppo socialmente omogeneo, mentalmente e praticamente preparato alla «complessità tecnico-economica» della rivo¬luzione industriale. Commerciante e capitalista prima che industriale, l'imprenditore laniero altovicentino ebbe nel par¬co clienti e nelle botteghe artigiane essenziali punti d'appog¬gio per fronteggiare la grave crisi del periodo. Compatibil¬mente con i capitali assorbiti dal giro commerciale e con la congiuntura politico- economica passò per successivi aggiustamenti alle mutate condizioni richieste dal mercato. 3. La rincorsa all'Europa nelle manifatture tradizionali Dagli anni Venti cominciò la rincorsa agli emuli dell'in¬dustria inglese con l'obiettivo di pareggiare gradualmente almeno le condizioni dell'industria austriaca, boema e morava. La concorrenza imponeva l'abbassamento di costi e prezzi e scelte di prodotto che comportavano mutamenti tecnologici ed organizzativi. La tecnologia fu al centro del processo di sviluppo e degli aumenti di produttività da cui dipendevano il reddito d'impresa e la sua espansione. Le maggiori innova¬zioni tecniche determinarono il passaggio alla fabbrica, asso¬ciazioni di capitali, nuove forme di organizzazione e discipli¬na del lavoro. Un manipolo di lanaioli utilizzò sagacemente risorse umane, imprenditoriali e lavorative, condizioni socia¬li e culturali favorevoli, conoscenze e possibilità di sfrutta¬mento del surplus lavorativo in azienda e fuori, caratteriz- zando i profili personali coi tipici tratti della parsimonia, del¬la tenace dedizione al lavoro, dell'oculata amministrazione dei profitti derivanti dal commercio, dalla terra o da attività complementari. Si trattava di figure di varia provenienza. La graduale evoluzione dei comuni interessi li avvicinò sempre più. V'era 357 no il mercante-manifattore come il Bologna; il discendente di pastori-trafficanti di lane entrato nella produzione dopo essere passato anche attraverso l'affittanza terriera come Gio¬vanni Rossi, nonno di Alessandro, o attraverso l'artigianato come Antonio Conte; l'artigiano-possidente, indi albergato¬re-appaltatore come Luigi Marzotto, il quale, dedicatosi a molteplici attività, guadagnatisi sicurezza e status sociale col possesso di terre ed immobili urbani, venne poi specifica¬mente indirizzando la propria attività al settore laniero; l'ar¬tigiano puro, l'incollatore a domicilio, come Pietro Cazzola; il fittanziere a lungo in bilico tra possidenza e industria come Angelo Ferrarin. Insomma, una figura prismatica che passa¬va dalle pluriattività alla tendenziale specializzazione, dalla bottega alla fabbrica, dai campi all'industria, dai rapporti sociali e di produzione, tipici dell'affittuale capitalista o del mercante tradizionale, alle curiosità tecniche ed ai calcoli eco¬nomici propri della nuova mentalità imprenditoriale. Lo sviluppo delle relazioni all'interno del gruppo fu un elemento basilare per la crescita dell'impresa familiare. La politica matrimoniale costituì uno degli strumenti fondamen¬tali per consolidare le singole posizioni e la rete delle relazio¬ni personali. Strategie matrimoniali incrociate, unioni endogamiche e complessi sistemi di parentela, come nell'am¬bito delle famiglie Rossi-Beretta-Bologna-Conte, rafforzaro¬no la coesione di un ceto omogeneo nei comportamenti so¬ciali, nella mentalità e nella cultura, che non solo dominava l'economia locale, ma tutelava i propri interessi anche con la diretta presenza nell'amministrazione comunale e con la pres¬sione sugli organi di governo. Già a cavaliere tra Sette e Ottocento si notano, infatti, tratti imprenditoriali di lungo periodo che combinano una spiccata attitudine razionalizzatrice, la cultura del lavoro e del risultato col pragmatismo nell'ambito pubblico, con l'at¬tenzione ad interessi esterni dell'attività manifatturiera quali l'infrastrutturazione territoriale ed urbana o il potenziamento delle istituzioni formative. In quest'«isola industriale» non si Ponevano problemi di legittimazione dell'attività imprendi¬tori,nle, che divenne anzi rapidamente il tratto saliente di una Più profonda identità culturale. La centralità degli affari e la 358 continuità aziendale regolavano la gestione del patrimonio, rendevano inscindibili professione e vita domestica, che dal primo Ottocento coesistevano anche fisicamente nella giustapposizione delle prime fabbriche e residenze padronali (si vedano i casi Garbin o Fogazzaro). La famiglia era considerata insieme luogo di educazione e di formazione imprenditoriale; faceva tutt'uno con l'impresa. E l'autofinanziamento aumentava la propria spinta con le con¬centrazioni economico-produttive familiari. Con le prime fab¬briche, la funzione dell'imprenditore, che impegnava inizial¬mente tutti i membri maschi della famiglia, divenne via via più definita e selezionata. E cominciò a porsi la necessità non solo di maestranze specializzate, ma anche di imprenditori più ca¬paci e aggiornati. All'apprendistato in fabbrica, sovente antici¬pato dall'istruzione umanistica, fecero seguito i primi viaggi di formazione all'estero. Si addestrarono le nuove leve sceglien¬do il primogenito o coloro che, per un insieme di qualità per¬sonali, meglio si prestavano ad esercitarla. Furono questi i protagonisti della prima «onda» dell'in¬dustrializzazione vicentina, quella laniera, che per crescere e diffondersi aveva bisogno di una più diretta immersione nel¬l'esperienza industriale europea e di un'azienda trainante come quella del Rossi. Attorno ad essa venne infatti concen¬trandosi un selezionato nucleo di piccole imprese. Come al¬cune aree del nord-ovest, anche questo lembo del pedemonte veneto poté così arrivare all'unificazione in collegamento con le maggiori regioni industriali dell'Europa centrale e nord¬occidentale. Nell'area, i fermenti innovativi si avvertirono anche nel tra¬dizionale comparto della lavorazione della carta, dove le guer- re e il protezionismo austriaco avevano appesantito il ritardo tecnologico di opifici ancora operanti artigianalmente secon¬do i procedimenti tradizionali. Si continuava infatti a fabbri¬care la carta a mano utilizzando come materia prima gli strac¬ci. Nel Vicentino gli opifici si concentravano nell'area di Schio¬Thiene (8) e Bassano (3), mentre uno solo figurava a Vicenza. Come altrove, il cartario di caratterizzava per il numero eleva¬to di unità produttive, per la ridotta dimensione e la scarsità dell'attrezzatura meccanica. Anche in questo caso, l'antico 359 coesisteva con il moderno giacché all'epoca era già apparsa anche in Veneto l'innovazione più rivoluzionarla nel processo tecnico-produttivo, la macchina continua, introdotta nel 1866 da Bernardino Nodari proprio nella cartiera di Lugo Vicentino. Con quest'impianto si partiva da una sospensione di fibre in acqua, cui seguiva in continuo – e dunque non più foglio per foglio come nel procedimento a mano – la formazione del fo¬glio, indi la disidratazione, prima per pressione poi per evapo¬razione, con la produzione del rotolo di carta finale. Era il segno del cambiamento sollecitato, dopo l'annes¬sione del Veneto all'Italia, dalla soppressione delle barriere doganali e dal crescente sviluppo nell'editoria e nella stam¬pa. V'era però da colmare il ritardo accumulato nei confronti degli altri paesi europei, dove fin dalla metà del secolo la macchina continua aveva segnato il passaggio alla lavorazio¬ne industriale. La sua comparsa s'accompagnò all'impiego della pasta di legno o meccanica, utilizzata per la prima volta in Germania nel 1843 dal Keller. Il nuovo procedimento in¬nescò una rivoluzione tecnologica che vide l'introduzione di sfibratoci per ridurre il tronco di legno in parti fra loro sepa¬rate. Successivamente, quando gli impianti ed i procedimen¬ti furono perfezionati – e anche le condizioni generali del¬l'Italia ne permisero l'adozione –, l'energia idraulica combi¬nata con la vicinanza di boschi e foreste consolidò alcune storiche localizzazioni. Era il caso della valle dell'Astice, che fin dal XV secolo era stata uno dei primi punti di localizzazione dell'industria cartaria veneta, attirando fabbricanti della Riviera di Salò at¬tivi sul posto fino all'inizio del XIX secolo. Con gli stabili- menti tessili e cartari il medio Astice divenne nel secondo '800 uno dei principali bacini manifatturieri italiani. A Lugo, sul sito di un'antica cartiera a mano operante in un mulino attivo fin dal 1577, sorse ad opera di Bernardino Nodari il Più moderno stabilimento cartario del Veneto post-unitario. Nel 1854 la cartiera di Lugo era stata rilevata dalla ditta Ranzolin di Thiene ed aveva mantenuto un andamento altalenante fino agli anni Sessanta, quando subentrarono i fratelli Nodari provenienti da Rovereto. Bernardo Nodari Sr, Padre del fondatore della cartiera, all'inizio dell'Ottocento 360 era titolare di una casa di commercio di seterie a Vienna. Dopo la prematura scomparsa di Bernardo, i figli furono presi a carico da uno zio paterno di Rovereto. Bernardo Nodari Jr (Bernardino), nato a Vienna nel 1836, compì i suoi studi ad Innsbruck ed affinò la pratica tecnico-commerciale a Vienna e a Lione. Dall'età di 22 anni si dedicò «con passione» ad apprendere l'arte della fabbricazione della carta a Lione. Tro¬vata infine a Lugo Vicentino una località dotata di risorse energetiche, materie prime, forza lavoro a buon mercato, il Nodari avviò un'impresa di carattere fortemente innovativo in grado di competere con le più moderne cartiere italiane e straniere. La Società in accomandita semplice Bernardino Nodari e C. venne costituita il 31 gennaio 1866 per iniziativa dei fra¬telli Bernardo, Andrea e Antonio Nodari. La trasformazione e il potenziamento della vecchia cartiera a mano con l'intro¬duzione delle macchine continue richiesero cospicui investi¬menti data anche la necessità di acquistare i macchinari al- l'estero. Per il reperimento delle risorse finanziarie Bernardino Nodari si rivolse in particolare ai conti Papadopoli, a Gio. Batta Nodari e al cugino Camillo. Il capitale sociale raccolto fu di 580.000 lire, di cui 330.000 versate dai soci fondatori. Meno lineare fu il percorso del segmento bassanese del¬la fascia manifatturiera pedemontana. Mentre per l'Alto Vicentino, l'Ottocento segnò l'avvento dello sviluppo in¬dustriale laniero, Bassano conobbe una fase di destrutturazione-ristrutturazione di quell'apparato indu¬striale-manifatturiero che l'aveva fatta conoscere in Europa grazie alla stabilità sociale, ai meccanismi di integrazione intersettoriale e alla politica economica della Repubblica di Venezia. In particolare scomparve il lanificio ed entrò in irreversibile crisi il setificio. Nel 1846 chiuse l'ultima filanda operante a Bassano. Queste due arti, che precedentemente erano dominanti, giocarono un ruolo secondario nell'eco¬nomia cittadina dell'Ottocento, mentre crebbero la cerami¬ca, l'oreficeria e la lavorazione delle pelli. Il periodo della dominazione austriaca coincise con un generale declino del settore commerciale e manifatturiero veneto, eccettuati gli anni Quaranta. Da un Elenco delle fab 361 briche manifatture stabilimenti diversi ed esercizi di industria non che [ ... 1 de' diversi artigiani ed artisti del 1840, relativo all'intero distretto bassanese, si apprende che le manifatture portanti erano la concia, la collegata attività dei calzolai e l'oreficeria; poco restava della filatura della lana e della seta. Le attività si concentravano quasi totalmente nell'ambito cit¬tadino. Nel 1860 chiudeva anche la stamperia Remondini. Gli sviluppi del futuro distretto ceramico avvennero ad opera di alcune aziende-pilota che erano cresciute sui sentie¬ri della manifattura privilegiata innovando i prodotti ed ade¬guandoli alle mutate condizioni del mercato. Fu il caso, in epoca protoindustriale della ditta Manardi, indi, a Rivarotta, nei pressi di Nove, dell'azienda di Andrea e Giacomo Moretto, che fece da incubatrice alla Antonibon, l'impresa che sulla spinta dei privilegi accordati dal governo veneziano alla pro¬duzione di maioliche e porcellane, divenne la più importante fabbrica del settore nello Stato veneziano. Artigiano, socioe supervisore del mulino Moretto, tra gli anni Venti e Trenta del Settecento, Gíovan Battista Antonibon aveva sfruttato la «febbre della ceramica» che percorreva i mercati europei e faceva la fortuna delle maioliche olandesi, utilizzando l'espe¬rienza acquisita nel proprio laboratorio e la collaborazione di alcuni operai della vicina fabbrica Manardi, cui si aggiun¬sero maestranze provenienti da Lodi e Milano. La produzione combinò l'ispirazione ai modelli bassanesi e lodigiani con l'imitazione dei decori monocromi in blu de¬gli olandesi, mentre l'esperienza delle maestranze locali si affinava con l'apporto dei tecnici di provenienza estera. Si radicarono così competenze di carattere pratico- contestuale di importanza strategica per i successivi sviluppi della cera¬mica novese. Sotto la gestione di Pasquale Antonibon (1738- interno la produzione delle maioliche monopolizzò il mercato Interno e si affermò in tutta Italia, in Austria, Germania, a Costantinopoli ed in Levante. L'Antonibon avviò anche la produzione della porcellana costruendo due forni «ad uso di Francia» e «ad uso della Sassonia» con operai stranieri. Fu il Periodo di massimo sviluppo dell'impresa che disponeva di un capitale di 80.000 ducati, occupava 150 operai ed un altro centinaio di addetti alle vendite al minuto. 362 Il periodo di Giovanni Maria Baccin (1744-1802), il di¬retto collaboratore che assunse la gestione prima della fab- brica di maioliche e poi anche di quella di porcellane, si se¬gnalò invece per l'introduzione della terraglia «ad uso ingle¬se» – la produzione avviata a Tafford da Josiah Wedgewood e perfettamente imitata – che aprì nuovi mercati. La ditta si avvantaggiava della disponibilità delle «terre bianche» del Tretto, del quarzo e gesso di Asiago. I ciottoli di quarzo veni¬vano prelevati dall'alveo del Brenta e macinati nel molino degli Antonibon. Un ulteriore suo rilevante merito consistet¬te nell'adottare, imitando la lavorazione praticata nelle mani fatture Hanning di Strasburgo e Perrin di Marsiglia, la terza cottura o «piccolo fuoco» sia sulla maiolica che sulla terraglia. La bassa temperatura di questa cottura permetteva di otte¬nere varie e delicate tonalità cromatiche prima possibili solo sulla porcellana. Il Baccin si può dunque a giusto titolo con¬siderare l'iniziatore del rinnovamento stilistico della cerami¬ca novese. 1 suoi tipi, qualitativamente ed artisticamente, avrebbero mantenuto per parecchio tempo il primato in tut¬ta l'Italia settentrionale. Con Giovanni Baroni, che gestì la manifattura Antonibon nel periodo 1802-24, la ceramica novese raggiunse il massi¬mo grado di perfezione tecnica e di qualità artistica. Essa si avvaleva del grande modellista Domenico Bosello, formatosi nella fabbrica Cozzi di Venezia e a Vienna, il quale, nei grup¬pi plastici di porcellana bianca o policroma si richiamava alle sculture del Marinali, del Torretti, del Canova. Giovanni Ba¬roni non ottenne tuttavia l'atteso successo con questa produ¬zione di qualità. Cessati il sistema protezionistico di divieti, privilegi, esenzioni, le agevolazioni fiscali e i divieti di impor¬tazione del periodo veneziano, la manifattura Antonibon dovette fronteggiare le difficoltà dell'età napoleonica, i nuo¬vi dazi, la preferenza accordata alla produzione francese e l'aumento dei costi delle materie prime. Con Gio. Batta Antonibon (1825-1886), la ditta abbandonò così la produ¬zione della ceramica e della maiolica per acconciarsi alla fab¬bricazione delle «terraglie popolari» iniziate dalla manifattu¬ra Cecchetto e prodotte anche dalla manifattura Viero. 363 Attraverso queste alterne vicende la specializzazione di Nove nella ceramica si era ormai consolidata accanto al più forte nucleo bassanese. Nel 1818 vi risultavano attive quattro fabbriche con 151 operai che divennero sette nel 1834, mentre a Bassano operavano nove manifatture con quasi 200 operai. La ceramica novese, inoltre, non si identificava più con Antonibon, anche se la ditta restava leader del settore nell'in¬novazione e nel mercato, che copriva varie zone d'Europa. Verso la metà dell'Ottocento, con le sette fabbriche di Nove e le otto di Bassano, la manifattura ritrovò un periodo di prosperità grazie all'indovinata scelta di basare la produ¬zione sulla terraglia popolare, di basso prezzo, ma di notevo¬le diffusione commerciale. La domanda era completamente cambiata e si doveva produrre per una diversa tipologia di consumatori. Il core business era ora la ceramica popolare, che richiedeva minori abilità tecniche rispetto alle produzio¬ni settecentesche, ma permetteva nello stesso tempo l'ingres¬so di nuovi artigiani in possesso delle abilità comunque tra¬smesse da oltre un secolo nel distretto. 4. Impresa, ambiente e modelli stranieri: il Lanificio Rossi e l'Europa della lana Lo sviluppo parte solitamente da luoghi privilegiati, dove si concentrano le possibilità di crescita, e da industrie-chia¬ve. L'ambiente delle valli vicentine, pur ristretto, agì in ma¬niera diversa sull'ascesa delle maggiori imprese e, a seguito d,1 loro differente sviluppo, ne fu diversamente influenzato. All'inizio le premesse e le condizioni ambientali giocarono a vantaggio di Schio. Più ritardata e lenta fu la partenza dei Nlarzotto a Valdagno, ancora più arretrata e modesta la com¬parsa dei primi embrioni industriali del Thienese, frenati dalla più marcata vocazione mercantile di questo centro e dai forti e permanenti interessi agricoli di alcuni fabbricanti. Alla metà del secolo, mentre questi erano ancora nella fase di transizio¬ne tra vecchi e nuovi sistemi produttivi, la centralità della Produzione di fabbrica trovò in Schio il luogo più rappre¬sentativo e dinamico dell'industrializzazione veneta. 364 Giovanni Luigi Fontana Ciò fu dovuto al successo dell'iniziativa di Francesco Ros¬si (1782-1845) che poté consolidarsi con la riproduzione della proprietà e delle funzioni direttive mediante precise strategie di formazione e di socializzazione. La genesi del modello im¬prenditoriale rossiano avvenne per linee interne nel quadro dei rapporti tra famiglia e impresa e tra queste ed un ambiente sociale già da tempo sensibile all'aggiornamento tecnico, ca¬pace di assimilare la cultura tecnologica ed applicativa dei pa¬esi più avanzati. All'economia tradizionalmente aperta di que¬st'area corrispondeva, infatti, un'apertura intellettuale, una cir¬colazione di uomini e di idee, un livello di istruzione che crea¬rono solidi punti di contatto tra l'ambito locale e i circoli intel¬lettuali più impegnati nel promuovere il rinnovamento cultu-rale e la partecipazione delle regioni d'Italia agli sviluppi eco¬nomici e civili dell'Europa nord-occidentale. Tra le figure più impegnate in questo movimento v'erano i figli del socio di Francesco Rossi, Lodovico e Valentino Pasini, affiancati su piani diversi dai fratelli Fusinato. Tutti erano amici stretti del giovane Alessandro Rossi ed avevano frequentato con assiduità la ricca e moderna biblioteca del¬l'abate Pietro Maraschin, distintosi fino al terzo decennio dell'Ottocento per la cultura illuministica e la vasta rete di contatti internazionali in ambito accademico e scientifico. I Pasini scrivevano sugli «Annali universali di Statistica» di Milano, su fogli e riviste che propugnavano l'aggiornamento tecnico, il libero scambio e le ferrovie, erano protagonisti nei Congressi degli scienziati, nelle iniziative e nei dibattiti intor¬no alla strada ferrata Ferdinandea da Milano a Venezia, men¬tre Clemente Fusinato col suo studio sul lanificio si appella¬va agli imprenditori che preferivano affidarsi al basso costo della manodopera, ai sistemi produttivi tradizionali e alla protezione doganale per sollecitarli ad introdurre le macchi¬ne e a mettersi al passo con l'industria straniera. Molti fili collegavano quest'ambiente vicentino con l'ala più dinamica e progressista della borghesia lombardo-veneta, con i circuiti della cultura «nazionale» e dell'economia euro¬pea. Questo fu il secondo e decisivo versante della formazio¬ne di Alessandro Rossi. Su tale base, dopo il viaggio in Euro- pa del 1841 e quelli degli anni successivi, il successore di Fran 365 cesto Rossi realizzò tra il 1842 e il 1855 una massiccia intro¬duzione di know-how, con macchine, tecnologie, tecnici stra¬nieri, nuovi prodotti che fecero «tavola rasa» dei vecchi si¬stemi. Fondamentale fattore di successo dell'iniziativa im¬prenditoriale dei Rossi fu l'acquisizione di un'approfondita cultura tecnica per ogni aspetto dei processi produttivi e di una sicura conoscenza dei mercati attraverso le attività fami¬liari, i soci, gli agenti, i tecnici esteri trapiantati a Schio. I riflessi della combinazione tra addestramento interno – trat¬to di lungo periodo dell'imprenditorialità veneta – e forma¬zione europea risultarono evidenti nelle politiche aziendali del giovane imprenditore, subentrato al padre negli anni Quaranta: prodotti di qualità, decisa meccanizzazione, senso commerciale e della pubblicità. La profonda conoscenza del mercato laniero nazionale ed internazionale permise ai Rossi di prendere tempestivamente decisioni fondamentali nelle politiche di prodotto in rapporto al consumo e nella meccanizzazione in rapporto ai prodotti. In un contesto in cui ogni produttore di cardato forniva qualsiasi prodotto ri- chiesto, ciò avrebbe condotto più avanti alla specializzazione degli insediamenti su determinati prodotti con notevole mi¬glioramento della qualità e dei costi. Altro tratto comune e punto di forza del Rossi fu la capa¬cità di combinare l'innovazione con la tradizione. Alcune coesistenze, in particolare quella dei telai meccanici e Jacquard, rispecchiavano le scelte di qualità (tessuti fantasia) che accelerarono i processi di integrazione verticale degli anni Cinquanta. La linea di continuità nelle scelte di Francesco e Alessandro Rossi si registrò anche per altri fattori del succes¬so rossiano: il reticolo dei rapporti familiari come sistema di allocazione e mobilizzazione delle risorse e il passaggio dall'autofinanziamento all'associazione con altri imprendi¬tori e capitalisti nei momenti di crescita. L'associazione ini¬ziò con la società Bologna e Rossi, proseguì con la società Rossi e Pasini (1818-39) nella prima fase della meccanizzazione, riconfermandosi con la A. Rossi e C. (1869¬73) e ~ a A.Vaccari e C. (1871-73) nel momento del passaggio al pettinato, per arrivare alla stessa Anonima con cui il Rossi diede vita nel 1873 al più grande complesso laniero italiano. 366 L'innovazione tecnologica costituisce un aspetto essenzia- le del modo in cui un'area protoindustriale, trovatasi in mo¬mentaneo ritardo, avvia la propria «rivoluzione industriale» imparando dagli altri che la precedono. E la meccanizzazione fu sempre un punto fermo per il Lanificio Rossi, dove le inno¬vazioni vennero introdotte con notevole anticipo sul lanificio italiano e con un'incidenza notevolmente superiore. La meccanizzazione della tessitura, in particolare, fece maggiori progressi nel polo laniero veneto che in Piemonte. L'innovazione tecnologica caratterizzò i primi tentativi di inizi gli rinnovamento della ditta Bologna e Rossi, gli i izi e gli svilup¬pi della società Rossi e Pasini fino al 1839, le fasi del decollo (1839-61) e dell'espansione (1862-72) dell'azienda familiare rossiana fino al passaggio all'Anonima. Correlativamente si accentuavano i problemi della formazione degli imprenditori, dei tecnici e degli operai. Le iniziative per la formazione delle maestranze, sviluppate con crescente intensità, puntavano ad incidere sul nodo cruciale della bassa produttività. Il proble¬ma fu maggiormente sentito a mano a mano che l'adozione di nuove tecnologie allargava la forbice tra le esigenze della pro-duzione e le capacità della manodopera. Per il macchinario e per le riparazioni, che imponevano il ricorso a fornítori e personale straniero, come per i qua¬dri tecnici e dirigenziali l'azienda rimaneva quasi interamen¬te dipendente dall'estero. Nel trattatello Dell'arte della lana in Italia e all'estero, Alessandro Rossi precisò che tra il 1827 e il 1865 metà delle macchine importate in Italia era fabbri¬cata dalla ditta belga Houget & Teston, mentre l'altra metà proveniva dalla Gran Bretagna, dalla Francia, dalla Sassonia e dai primi costruttori italiani. L'inchiesta sull'industria ita¬liana del 1870-71 mise in luce quanti dirigenti, ingegneri, capi-officina venissero chiamati dal Belgio, dalla Germa¬nia, dalla Svizzera e dall'Inghilterra. Ma nella Francesco Rossi già negli anni Quaranta e Cinquanta le radicali inno¬vazioni tecnologiche, produttive ed organizzative si erano accompagnate ad una forte immissione di tecnici esteri, so¬prattutto belgi. Con viaggi di istruzione e di aggiornamento, con i tra¬sferimenti di macchine e personale straniero, con l'apporto 367 di conoscenze specializzate e di cultura imprenditoriale, Alessandro Rossi stabilì molteplici e durevoli relazioni con i più avanzati ambienti industriali europei. Dagli anni Qua¬ranta agli anni Ottanta il rapporto con l'estero fu strettissi¬mo ed essenziale per lo sviluppo delle intraprese rossiane. I periodici soggiorni nel centro-Europa e le esposizioni di Parigi e Londra ebbero una funzione cruciale nell'ascesa del capofila degli industriali veneti. Non si trattò di influenze occasionali o di rapporti limitati all'aggiornamento tecno- logico, bensì di una vera e propria formazione imprendito¬riale europea. Addestrato fin dall'inizio a misurare i propri passi sulle aree avanzate del centro-nord Europa, il Rossi soggiornò ripetutamente in città industriali inglesi, france¬si, tedesche, svizzere, austriache, ma intrattenne in partico¬lare, e per oltre un trentennio, stretti rapporti con l'ambiente eli Verviers, capitale laniera del Belgio e snodo delle sue re¬lazioni con l'estero. Nella prima metà dell'Ottocento le fabbriche belghe di- vennero centri diffusori di sistemi organizzativi e tecnologia progredita. A Verviers circolavano cultura imprenditoriale e tecniche, macchine e uomini, modelli comportamentali e ide¬ologici che ebbero una forte influenza sul cammino indu¬striale scledense, non solo in rapporto all'impresa rossiana. Verviers rimase un punto di riferimento permanente del Rossi, una tappa d'obbligo dei suoi viaggi all'estero, un tramite es¬senziale per relazioni qualificate nel mondo imprenditoriale europeo e per l'aggiornamento sulla tecnologia e sui mercati, senza trascurare più vasti e profondi riferimenti di ordine ideologico e sociale, nonché i concreti riferimenti per alcune importanti realizzazioni sociali. Da Verviers il Rossi importò attrezzature, tecnici, diri¬genti e impiegati presenti dal '45-46 agli anni Settanta a tutti i livelli aziendali per coprire nuove funzioni direttive, prepa¬rare capi-officina e operai, diffondere un'aggiornata cultura tecnologica e commerciale. La maggior parte di loro era bel- ga,,come confermò anche il contemporaneo Errera, che asse¬gnò al Rossi il merito d'aver introdotto «tutte le principali invenzioni e innovazioni meccaniche» e ai suoi dipendenti stranieri quello di aver fatto «le scuole di numerosi capi-offi 368 cina del paese»'. E quando, dopo il viaggio in Belgio e Fran¬cia del 1861, il Rossi s'accinse alla costruzione di un nuovo stabilimento adeguato alle dimensioni del mercato naziona¬le, la celebre «Fabbrica alta», fece ricorso ad Auguste Vivroux, esponente di un'illustre dinastia di artisti e architetti, progettista di fiducia della più facoltosa borghesia industria¬le e professionale belga ed egli stesso figura di primo piano della vita politica e sociale di Verviers. La vicenda costituisce un capitolo assai significativo del lungo rapporto col distretto industriale belga e delle modali¬tà di trasmissione della cultura tecnica ed imprenditoriale tra le prime aree industriali europee. Il Rossi poté disporre piut¬tosto agevolmente delle qualificate prestazioni del noto ar¬chitetto di Verviers. Nella capitale laniera del Belgio, infatti, oltre a consolidati rapporti d'affari, contava ormai su larghe conoscenze e importanti amicizie. Su tutte spiccavano quelle con i Centner, uomini d'affari e suoi commissionari, e con gli Houget, i costruttori di Verviers che dagli anni Trenta agli anni Sessanta furono i principali fornitori di macchine per l'industria italiana. La lunga relazione commerciale poté tra-sformarsi in profonda amicizia e la loro casa divenne una tappa costante negli itinerari formativi dei figli del Rossi, nonché di tecnici e dirigenti dell'azienda. A Verviers approdarono an¬che le nuove generazioni di altre dinastie laniere dell'Alto Vicentino come i Conte ed i Ferrarin. All'ambiente verviétois il Rossi ricorse anche per la conoscenza internazionale nel campo del pettinato e per un apporto decisivo di capitale al momento del varo di un'iniziativa di grande impegno e di portata nazionale, la filatura e tintoria, poi anche tessitura di lana pettinata realizzata a Piovene nel 1869. L'impianto era all'avanguardia in Italia per la novità delle macchine e delle tecnologie adottate. Aveva richiesto, per¬tanto, fin dall'inizio, montatori e tecnici stranieri. Cinque anni dopo, nella filatura pettinata di Piovene avrebbero figurato dieci tecnici stranieri su diciassette, tra dirigenti ed impiega¬ti. Fin dal primo momento, accanto al Rossi, in quest'impre¬sa vi fu soprattutto Ernest Stamm, il giovane ingegnere pro ' A. Errera, Storia e statistica delle industrie venete e accenni al loro 369 veniente dall'Alsazia, allora capofila nell'industria del petti¬nato, conosciuto dall'imprenditore vicentino all'Esposizione di Parigi nel 1867 e presentato ai soci come uomo di «vaste cognizioni meccaniche e tecniche unite alla pratica», in gra¬do di offrire «tutte le garanzie richieste per realizzare nuove imprese industriali»'. Lo stabilimento di Piovene rappresen¬tò il più forte e complesso momento di connessione del Vicentino con l'industria europea: dal progetto dell'impian¬to – seguito da Ernest Stamm con la collaborazione dell'ingegner Oscar Didio di Muenster e con l'apporto di autorevoli tecnici italiani, non che di giovani ingegneri del¬l'Istituto tecnico superiore di Milano – alle tecnologie d'avan¬guardia, dall'alto numero di tecnici stranieri presenti in fab¬brica alla iniziale «diarchia» nella conduzione aziendale tra il Rossi e lo Stamm, il quale coadiuvò il socio anche nell'impo¬stare il problema dell'istruzione professionale. Tra il Rossi e lo Stamm v'era una sostanziale intesa sui problemi generali dell'industria italiana e in particolare del settore tessile, sul modello di crescita industriale e sulla correlata organizzazione sociale, oltre che su importanti que¬stioni come la formazione e lo sviluppo della cultura tecnica. Dipendenza tecnologica e insufficiente istruzione erano iden¬tificati come i maggiori freni allo sviluppo. La forte arretra¬tezza del settore meccanico in Italia penalizzava pesantemente la crescita delle attività industriali, ma esisteva – secondo il Rossi –la possibilità di una graduale emancipazione dall'estero grazie all'indotto delle industrie italiane più evolute. Biso¬gnava però entrare nell'ottica della qualificazione e della specializzazione, favorire le applicazioni della scienza all'in¬dustria, creare istituzioni di carattere tecnico-pratico per dif¬fondere la cultura tecnologica. Alcuni paesi esteri facevano scuola. In essi, il Rossi aveva riscontrato il grande divario in fatto d'istruzione delle maestranze e di prerequisiti tecnico-culturali per lo sviluppo di nuovi settori industriali. Il confronto con le esperienze francesi, inglesi, belghe, tedesche intensificò la costante attenzione del Rossi per l'istru¬zione tecnica, accentuatasi nel periodo dell'inchiesta indu C. G. Lacaita, Sviluppo e cultura. Alle origini dell'Italia industriale, Milano, 1984, appendice II, nota L 370 striale. Era il periodo in cui l'imprenditore inviava a Verviers un giovane dipendente, l'ingegner Silvio De Pretto, e subito dopo il fratello Francesco. Il primo, come si vedrà più oltre, fu il fondatore di una delle più importanti industrie mecca- niche nate sull'indotto del tessile ed instancabile promotore di scuole tecniche; il secondo fu protagonista, col primoge¬nito di Alessandro Rossi, dello sviluppo del cartario nella valle dell'Astico. Alle esperienze straniere l'imprenditore scledense guar¬dava, non diversamente dagli altri maggiori industriali italia¬ni, secondo la tipica attitudine a ricercare modelli di organiz¬zazione tecnica e culturale finalizzata alle specifiche esigenze dell'industria piuttosto che modelli di organizzazione della società industriale nel suo complesso. E, dunque, in questo caso, ad istituzioni in grado di innalzare il livello tecnico-produttivo, come le scuole professionali e gli istituti di istru¬zione tecnica superiore. Nel 1878 creò così a Vicenza la scuola industriale che, fornendo un'istruzione tecnico-specialistica, avrebbe svolto una funzione formativa di straordinaria importanza non solo a vantaggio del nascente tessuto industriale locale, ma anche di molte altre aziende della regione e del Paese. Se nel 1884 il Rossi registrò ancora la presenza di più di cento «capitani» e «tenenti» di provenienza francese «alla testa di fabbriche e officine italiane», nella relazione all'assemblea del Lanificio Rossi del 1886 avrebbe dichiarato che dei tecnici e dirigenti stranieri nella sua azienda era rimasto solo un chimico belga. La fabbrica di Piovene Rocchetto rappresentò l'avvio dell'espansione territoriale del Lanificio Rossi. In questo pe¬riodo, a fronte della crescita della domanda qualitativa e dei consumi unitari, la produzione tese a specializzarsi e a suddi¬vidersi per singole fasi di lavorazione secondo la logica del decentramento territoriale adottata dal Rossi. A Pievebelvicino sorse nel 1870 la filatura cardata, integrata due anni dopo con tessitura e finissaggio per panni militari e civi¬li, indi per coperte e feltri. A Torrebelvicino si insediò nello stesso periodo lo stabilimento per cardati misti lana. Nella valle dell'Astico l'espansione riguardò le tessiture per petti¬nato «Rocchette 2», sorta nel 1871 e «Rocchette 3» (1888), 371 costruita lontana dall'Astice, e infine la piccola filatura per cardato «Rocchette 4» del 1890. Risolti i problemi energetici, sarebbe stata la fabbrica a spostarsi vicino alle maggiori vie (-11 comunicazione col Cotonificio Rossi di Vicenza nel 1885 e con gli stabilimenti di Dueville, nel 1904, e Marane, nel 1910. I massicci investimenti richiesti dal grande e rapido svi¬luppo industriale spinsero il Rossi a promuovere la costitu¬zione di una società anonima anche per la Cartiera di Arsiero, che negli anni Settanta accompagnò la creazione dell'Anoni¬ma Lanificio Rossi. Un'élite manifatturiera si unì a capitalisti di provenienza fondiaria in un amalgama garantito dalla per¬sonalità del Rossi e controllò gli stabilimenti di Schio, Pieve, Torre, Piovene e il Lanificio Mazza di Bollano. Il grande com¬plesso, che a fine secolo avrebbe contato 5.000 dipendenti, Assorbiva un sesto della filatura cardata italiana e un quarto dei telai meccanici per pettinato attivi in Italia. 5. La grande impresa rossiana, l'ascesa della Marzotto e dei lanifici minori La grande impresa rossiana ebbe una fondamentale fun¬zione quale veicolo di diffusione di tecnologia secondaria, di conoscenze aggiornate e specialistiche sulle innovazioni di processo e di prodotto, sui modelli organizzativi e sulle isti¬tuzioni formative atte a migliorare il livello tecnico della pro¬duzione. La sua precoce meccanizzazione trainò il passaggio al sistema di fabbrica di piccole ditte artigianali, la cui inizia¬tiva venne stimolata dalla maggiore facilità a procurarsi mac¬chine, tecnici, manodopera specializzata e ad introdurre pro¬cessi produttivi già sperimentati in loco. In questo processo, vecchi e nuovi assetti produttivi convissero a lungo, lavora¬zioni accentrate e industria a domicilio trovarono nuovi equi¬libri favoriti dagli effetti del basso costo del lavoro sui costi di produzione. Ciò nonostante, l'adattamento alle nuove modalità di produzione fu soggetto sempre di più all'evolu¬zione del mercato. I Rossi, inoltre, fecero da modello per la formazione del¬le nuove generazioni imprenditoriali e per le relazioni con le

371 5. La grande impresa rossiana, l'ascesa della Marzotto e dei lanifici minori La grande impresa rossiana ebbe una fondamentale fun¬zione quale veicolo di diffusione di tecnologia secondaria, di conoscenze aggiornate e specialistiche sulle innovazioni di processo e di prodotto, sui modelli organizzativi e sulle isti¬tuzioni formative atte a migliorare il livello tecnico della pro¬duzione. La sua precoce meccanizzazione trainò il passaggio al sistema di fabbrica di piccole ditte artigianali, la cui inizia¬tiva venne stimolata dalla maggiore facilità a procurarsi mac¬chine, tecnici, manodopera specializzata e ad introdurre pro¬cessi produttivi già sperimentati in loco. In questo processo, vecchi e nuovi assetti produttivi convissero a lungo, lavora¬zioni accentrate e industria a domicilio trovarono nuovi equi¬libri favoriti dagli effetti del basso costo del lavoro sui costi di produzione. Ciò nonostante, l'adattamento alle nuove modalità di produzione fu soggetto sempre di più all'evolu¬zione del mercato. I Rossi, inoltre, fecero da modello per la formazione del¬le nuove generazioni imprenditoriali e per le relazioni con le 372 maestranze, crearono un vero e proprio mercato del lavoro, infrastrutturarono il territorio anche a vantaggio degli im¬prenditori minori. Alla piccola o grande scala i problemi non cambiavano. La funzione imprenditoriale era chiamata ad organizzare gli stessi elementi: investimenti, forza motrice, macchinari, operai. L'effetto di agglomerazione ebbe precisi riscontri nel fitto intreccio di legami parentali e di interessi industriali. Autofinanziamento, terreni ed edifici per garan¬tirsi prestiti finanziari, matrimoni che consolidavano le for¬tune patrimoniali ed allargavano le relazioni sociali sosten¬nero anche le piccole aziende che, dopo i primi segni di ri¬presa negli anni Trenta, nei centri vicini conobbero significa¬tivi sviluppi nel tornante compreso tra gli anni Cinquanta e il primo decennio postunitario. A differenza di Schio, dove accanto all'impresa rossiana erano attivi altri lanifici di notevole consistenza – come il Garbin – o minori – come il Conte, il Pizzolato, il Vonwiller –, a Valdagno il declino delle poche ditte rimaste fece sì che l'unica forma di addestramento rimanesse la fabbrica marzottiana, dove l'antica arte della lana assumeva «contenuti nuovi diffi¬cilmente riproducibili all'esterno di essa»'. Luigi Marzotto (1773-1859), nei modesti esordi che utilizzavano le risorse familiari ed i proventi di altre attività, sfruttò questa situazio¬ne stimolato dalla possibilità di nuovi sbocchi verso la Lom¬bardia. Negli anni Trenta, i telai e l'accorpamento delle fasi di lavorazione in un unico stabile attestavano la scelta di una specializzazione nel multiforme ambito di attività mercantili ed imprenditoriali. La Marzotto crebbe in modo graduale e «appartato». Fin dalle origini la diversa situazione del lanificio valdagnese ri¬spetto a quello scledense spinse all'accentramento della fab¬brica sullo stesso luogo in cui, per successive espansioni e modificazioni durate un secolo e mezzo, si sarebbero svilup¬pati gli stabilimenti della ditta. Nella casa-opificio, che nel '36 diede il nome a «contrà della fabbrica», il Marzotto con¬centrò lavatura lane, tessitura, follatura, chiodare, tintoria ed altre operazioni. Nelle condizioni di arretratezza del lanificio ' G. Roverato, Una casa industriale: i Marzotto, Milano, 1986, p. 24. 373 valdagnese l'accentramento assicurò maggiore coordinamento e il recupero di tempi morti, spingendo anche a nuove immissioni di tecnologia. Iniziò da qui il graduale e ininter¬rotto processo di sviluppo che, se per buona parte del secolo vide la Marzotto molto lontana dalle dimensioni del grande vicino scledense, conobbe un'accelerazione vistosa dagli anni Ottanta al primo Novecento sotto l'impulso di Vittorio Ema¬nuele Marzotto, mentre il ruolo dei Rossi nel lanificio scledense aveva ormai imboccato la parabola discendente. Gaetano Marzotto Sr (1820-1910) assunse la gestione del negli lanificio paterno neg anni più difficili per la fabbrica, soste¬nendola anche con i proventi del commercio del gesso e con gli affitti di alcuni terreni agricoli. Agli inizi, il capitale inve¬stito «ha ancora dimensioni modestissime e non consente margini di sorta». Mentre comincia a svilupparsi il poderoso balzo del lani¬ficio Rossi, la ditta di Gaetano e Giovanni Marzotto attraver¬sò il periodo più difficile, stretta nei vincoli di un mercato limitato e nella sua stessa struttura proprietaria, che non per- metteva rilevanti investimenti. Il mercato dei Ducati, che si apri con la lega doganale austro-modenese-parmense del 1852 diede ossigeno alla pro¬duzione, la quale soffriva della concorrenza delle stoffe pe¬santi di cotone. 1 nuovi rapporti commerciali stimolarono a variare la produzione, a migliorare la qualità della materia prima, a garantirsi un più regolare flusso di commissione. Alla metà del sesto decennio, s'avvertirono i segni di una più promettente espansione. Gaetano Marzotto assorbì lavoran¬ti ed attrezzature delle ultime ditte scomparse e iniziò uno sviluppo graduale che mostrò le prime significative innova- zioni tra la fine degli anni Cinquanta e i primi anni Sessanta. Nel piano aggiunto alla fabbrica-abitazione, avviò nel 1856 una parziale meccanizzazione della filatura con una mule- jenny da 400 fusi; nel '58 un nuovo edificio attiguo accolse altre macchine; l'anno dopo fu la volta di una nuova fabbrica In contrà S. Lorenzo, dotata successivamente di una terrazza di asfalto e di un reparto di stufe per l'asciugatura delle lane. Nel'( :)2 furono introdotti i primi otto telai meccanici per l'in¬ crementoe la regolarizzazione dei tessuti. Telai e nuove ai 374 trezzature vennero collocati in un'altra casa di contrà S. Lo¬renzo. All'epoca in cui Alessandro Rossi faceva erigere la fab¬brica alta, accogliendo nei vari stabili un migliaio di dipen¬denti, Gaetano Marzotto poteva dare continuità alle lavora¬zioni per tutto l'anno, giungendo ad occupare circa un centi¬naio di operai. Nei primi anni dopo l'annessione, quando Marzotto di¬venne anche consigliere provinciale, l'aziende manifestò un deciso stacco nella meccanizzazione che la portò ad assume¬re una più complessa struttura tecnica: quattro mule-jennz'es, tre self-actings per 2560 fusi, tre torcitoi, 80 telai, cinque fol¬li, garzatrici, tre cimatrici longitudinali, presse ed altre at¬trezzature. Eccetto il lavaggio delle lane, tutte le operazioni si svolgevano ora all'interno della fabbrica che occupava cir¬ca 200 persone impegnate per 12-13 ore giornaliere, con tur¬ni anche notturni. L'energia era fornita da una turbine idrau¬lico di 36 cv e da una macchina a vapore di altri 30 cv instal¬lata nel 1869. La lignite di Monte Pulii rese conveniente l'uso combinato dell'energia idrica col vapore, che nelle nuove di¬mensioni aziendali divenne essenziale al ciclo produttivo. L'incremento tecnologico nel 1869 fece ristrutturare l'opi¬ficio: venne trasferita l'abitazione e furono rinnovate le sale filatura e tessitura, installando nuovi alberi di trasmissione della forza motrice e razionalizzando l'insieme delle lavora¬zioni. Nei primi anni Settanta, l'azienda operava in tutta Ita¬lia ed utilizzava lane per una buona metà d'importazione. Suddivise nelle tre classiche aree di provenienza (Capo, Au¬stralia, Sud America), vennero acquistate tramite commissionarie sui mercati di Anversa e Londra con oneri rilevanti che aumentavano per l'acquisto all'estero dei mac¬chinari. I telai dal '69 al '72 crebbero da 80 a 105, ma sempre a mano; gli addetti a 300 (200 uomini, 50 donne ed altrettan¬ti ragazzi), con una paga giornaliera media di lire 1,50 per i maschi adulti, di una lira per le donne e di circa 50 centesimi per i ragazzi. Nell'insieme l'espansione della Marzotto si poneva sulla linea delle opportunità offerte dall'unificazione alla fasce meno qualificate della produzione e, dunque, meno appetibili alla concorrenza estera. Presto, però, la competizione avreb 375 be investito anche questo settore determinando una più for¬te richiesta d'intervento sui dazi doganali. Gaetano Marzotto s'associò nel chiedere una protezione specifica in sostituzio¬ne del dazio sul valore. Dopo i favori della congiuntura 1869 72, la successiva crisi del 1873-78 si ripercosse sulla Marzotto con una riduzione degli occupati e delle giornate lavorate. I primi in i benefici tariffari del '78 portarono un minimo sollievo, ma ancora una volta la risposta più efficace risiedette nell'adeguamento tecnologico, merceologico ed organizzativo. Negli anni del protezionismo avvenne il passaggio della Marzotto da «impresa tradizionale» ad «azienda ínnovativa». Fti assai singolare che proprio l'insufficiente meccanizzazione, non permettendo l'espansione al pari di altri lanieri nel cardato economico, orientasse i Marzotto verso il prodotto medio-fine. SI può far risalire – scrive Roverato – a questo inconveniente la scelta della Marzotto a ricoprire una fascia mediana di mer¬cato: che se era negli anni Settanta ancora esigua, divenne nel tempo sempre più importante. Paradossalmente fu la minore capitalizzazione a determinare quella specializzazione in articoli medi che alla fine fu vincente»'. La ditta presentava in questi anni un campionario già più consistente, orientato verso le nuove tendenze del consumo specie per le stoffe fantasia e novità. E alle scelte sui prodotti si legava il processo di meccanizzazione che, ancora agli inizi all'epoca dell'inchiesta industriale, soprattutto per la tessitu¬ra, riguardava cardatura e cimatura, garzatura, follatura e asciugatura. Il vapore si sganciava dall'energia idraulica e ser al riscaldamento della fabbrica nel periodo invernale. Nella risposta alla crisi Marzotto procedette su due fron¬ti: portò ad una trentina i telai meccanici (1878) e si dotò di telai manuali Jacquard, «con ciò confermando la dicotomia produttiva nel cardato ordinario (da eseguire sul meccanico) e nel medio-fine (da farsi sul Jacquard). Una produzione, quest'ultima, alla quale egli non intendeva rinunciare». Dopo il '78, l'incremento delle vendite sui mercati dell'Italia set¬tentrionale e centrale, indusse all'ammodernamento della fi¬latura. Con la costruzione dell'impianto autonomo a Maglio 1). 38. 376 di Sopra (1882), la filatura crebbe nel 1885 a 7.200 fusi, il 10% di quelli attivi in tutto il Vicentino, mentre la tessitura disponeva di 70 telai meccanici e 60 a Jacquard. Nella modernizzazione dei selfactings installati a Maglio, adatti a filare titoli più alti e resistenti e capaci di maggiori rese unitarie, si rispecchiò un nuovo salto generazionale nel¬la storia della Marzotto: l'ingresso in campo, col coraggio innovativo dell'età e con la competenza acquisita nellevisite all'estero, di Vittorio Emanuele Marzotto (1858-1922), il quale aveva già orientato il padre nell'acquisto di tutti i diritti d'ac¬qua sulla roggia a nord di Valdagno. La fase decisiva di modernizzazione e specializzazione produttiva si sviluppò con la nuova pettinatura e filatura pet¬tinata (1885-90), l'impresa voluta da Vittorio Emanuele Marzotto dopo i viaggi in Inghilterra, Scozia, Germania e in un momento di salto generazionale nella conduzione aziendale. L'ingente capitalizzazione del nuovo impianto del Maglio diede non solo la misura dell'irrobustimento che l'azienda ave¬va ottenuto al riparo delle tariffe protezionistiche, ma rappresentò anche un fatto di estremo rilievo nel panorama laniero italiano. La Marzotto diveniva inaspettatamente un azienda leader, e in pratica il primo moderno complesso italiano dopo la Manifattura di lane in Borgosesia ad impegnarsi nella produzione e vendita a filatori terzi del tops: oltre che, naturalmente, di filati e tessuti pettinati'. Nelle immagini d'epoca il complesso del Maglio mostra un aggregato di fabbricati a due piani, distribuito grosso modo su tre lati, piuttosto lontani dall'architettura industriale del lo stabilimento valdagnese. A Valdagno, nel grande fabbrica to a quattro piani – poi prolungato nel medesimo stile e nel l'interminabile sequenza di finestre – che chiudeva ad ovest la struttura quadrangolare dello stabilimento, erano attivi nello stesso periodo 195 telai dei quali orami solo 30 a mano. Già nel 1882, i due stabilimenti valdagnese occupavano un migliaio di operai e si avvalevano di 11.200 fusi di filatura. Ibidem, pp. 44-45. 377 L'inadeguatezza relativa della forza motrice, nonostante la sua crescita, venne fronteggiata integrando l'energia idraulica e a vapore con quella idroelettrica attraverso la società Marzotto¬Rottígni (1893) e, nel nuovo secolo, con la creazione di cen¬trali idroelettriche di proprietà dell'azienda. Intanto venne¬ro modificati percorso e salti d'acqua della roggia. Nel 1897 gli stabilimenti potevano avvalersi di 80 cv, il doppio rispetto a sei anni prima. Nel frattempo, le piccole e medie imprese affermatesi nel secondo '800 arrivarono alla fabbrica integrata e meccanizzata con una marcia prudente e ben dosata, ma senza soluzione di continuità. Compatibilmente con i capitali assorbiti dal giro commerciale e con le congiunture politico-economiche, pas¬sarono per successivi aggiustamenti alle mutate condizioni richieste dal mercato. Lavorazioni accentrate e industria a domicilio convissero a lungo. La ripresa dopo lo spartiacque della rivoluzione quarantottesca, i vantaggi offerti dalla Lega austro-modenese-parmense e il contemporaneo potenziamento della rete ferroviaria lombardo-veneta permi¬sero di allargare il mercato e i rapporti commerciali nell'area del cardato tradizionale. L'unificazione del Paese e l'annes¬sione del Veneto al Regno d'Italia, con le prospettive del mercato nazionale, aumentarono la forza d'attrazione del modello rossiano che si riprodusse in versione minore nello stabilimento costruito negli anni Sessanta-Settanta da Gio¬vanni Battista (1848-1884), detto «Tira» per distinguerlo dai tanti G. B. che si succedettero alla guida dell'azienda. Inventari del Lanificio Conte evidenziano in questa fase la transizione tra il vecchio e il nuovo e la progressiva inte¬grazione accompagnatasi alla semimeccanizzazione di folli, carde, filatoi, garzi e cimatrici. Il lanificio si dichiarava a ciclo completo nonostante la tessitura manuale rimanesse decentrata. Anche in queste piccole ditte l'evoluzione tecni¬co-produttiva e le scelte di investimento cominciavano a por- re forti esigenze di continuità nella produzione e nelle vendi- te, o richiedere concentrazione e stabilizzazione della mano¬dopera. Al tempo dell'inchiesta industriale del '72 il Lanifi¬cio Conte nelle dimensioni, nell'apparato tecnico-produttí¬vo e negli occupati, s'avviava a configurare le caratteristiche 378 del lanificio veneto di media grandezza. All'epoca, possede¬va 120 fusi a mule-jenny per la filatura e 45 telai a mano per la tessitura. Lo stimolo all'innovazione venne da Alessandro Rossi, padrino di «Tita» Conte, il quale, seguendo gli autorevoli consigli dell'illustre «tutore», procedette ad una recisa inno¬vazione di processo e ad una politica di differenziazione e maggiore qualificazione del prodotto. Superata la crisi del 1873-78, «Tita» intensificò il rinnovamento impiantistico ed organizzativo. Nel '78 attrezzò un reparto esclusivamente per la tessitura, che comportò l'ingrandimento della fabbrica e l'aumento della manodopera. Con l'ulteriore meccanizzazione della filatura la tessitura divenne il reparto con il maggior numero e la più forte crescita di occupati: dai 40 del '78, ai 72 dell'82. L'apparato tecnico più complesso impose la crea-zione di un'officina con sette addetti in luogo dell'unico mec¬canico precedente. Il salto qualitativo e dimensionale si rese manifesto nell'in¬grandimento della fabbrica che nel 1884 occupava oltre 15.000 mq. Parallelamente aumentò la forza motrice con due caldaie a vapore della portata di 100 cv, un motore di 36 cv e due motori idraulici di 50 cv. Una grossa immissione di telai mec¬canici insieme alla dotazione di telai manuali Jacquard indica¬va una gamma produttiva comprendente cardati ordinari e medio-fini. La meccanizzazione della tessitura comportò an¬che l'ammodernamento della filatura con i primi selfactings e l'impiego di lane d'importazione. Le vendite crebbero e si ampliò notevolmente la rete dei rapporti commerciali. Il caso Conte mostra come, nello sforzo di mettersi al passo con le condizioni delle industrie straniere, i rischi delle nuove imprese fossero attenuati da supporti informativi, cul¬turali, organizzativi prima ancora che economici. Il sistema relazionale, con i suoi molti canali, riconfermava tutta la sua importanza anche nelle vicende del Lanificio Cazzola. Pietro Cazzola sposò Bettina Fusinato, sorella di Arnaldo e di Cle¬mente, figure di rilievo del Risorgimento veneto. Clemente era anche autore di un noto studio storico-economico sulla fabbricazione dei panni diffuso nel 1845 e finalizzato a propugnare un programma di rilancio fondato sulle risorse 379 del ceto imprenditoriale più che sui fasti produttivi del pas¬sato manifatturiero scledense. Furono, dunque, Erminia Fuà e Arnaldo Fusinato a fare da ponte tra il cognato Pietro Cazzola, fondatore dell'omonima ditta, e il potente amico Alessandro Rossi. Così Pietro Cazzola inviò in Svizzera e in Belgio il figlio Luigi (1846-1932), che, eretta la nuova fabbri¬ca negli anni Settanta, la condusse nel successivo ventennio a diventare la terza impresa laniera della provincia, dopo i la¬nifici Rossi e Marzotto. Passata la crisi del 1873-78, i fabbri¬cati si estesero a sud con un primo blocco di sette bassi ca¬pannoni nell'area destinata a diventare la parte centrale del complesso. Nel Thienese, la continuità con la tradizione precedente venne mantenuta a livelli arretrati da alcuni laboratori per follatura e apparecchio, rinforzati da artigiani e commercianti trasmigrati dal regredito distretto laniero di Arzignano¬Chiampo. Irrobustimenti di precedenti attività, come quelle settecentesche dei Brunalli, o nuove iniziative, come quelle dei Mistrorigo o Ranzolin, si segnalarono intorno agli anni Trenta, premessa dei segni di sviluppo manifestati alla metà del secolo. 1 Brunalli, specializzatisi dal secondo Settecento nelle e operazioni di rifinitura dei panni, avviarono in questo periodo la concentrazione delle lavorazioni allargando l'atti¬vità in edifici adiacenti al primo nucleo e installandovi una delle prime macchine a vapore di fabbricazione belga intro¬dotte nel Veneto. Energie imprenditoriali «in movimento» si formavano in botteghe tradizionalmente attrezzate per lavo¬razioni sussidiarie, impegnate a coprire quasi sempre su com¬missione alcune lavorazioni intermedie a vantaggio delle im-prese maggiori. Nuove intraprese o sviluppi delle attività avviate in pre¬cedenza si colgono alla metà del secolo. L'analisi delle vicen¬de del Lanificio Ferrarin mostra a questa data tracce sicure del primo nucleo accentrato. I registri degli anni Sessanta documentano un'attività commerciale allargatasi dall'area regionale a tutta la Padania. Il lanificio, che nel primo Nove- cento si sarebbe collocato ai primi posti delle medie aziende laniere italiane, nel 1870 era ancora una ditta molto modesta. A piccoli passi, dalla metà del sesto decennio agli anni '70, i 380 vari Mistrorigo, Zironda, Miola, Scalcerle, Ranzolin e Ferrarin acquistarono nuclei preesistenti, dilatarono le proprietà, accorparono fasi del ciclo, cominciarono ad integrare l'ac¬qua con il vapore, allargarono folli e molini, costruirono nuovi fabbricati, concentrarono crescenti maestranze. In questo periodo, le singole ditte disponevano di alcune centinaia di fusi, di telai a mano e Jacquard ed occupavano dai 30 ai 60 dipendenti. Producevano in genere panni per stoffe ordinarie fabbricati con lane indigene e americane. Anche queste piccole ditte, nella fase di crescita intorno agli anni Settanta seguirono una politica di decentramento in lo¬calità vicine maggiormente dotate di forza motrice, di acque di buona qualità, di manodopera a basso costo, insediandosi accanto a qualche piccola filatura e fabbrica di lanerie che aveva aperto la strada intorno alla metà del secolo. Mentre nell'area Schio-Thiene la fabbrica punteggiava il territorio, l'aumento delle dimensioni aziendali insieme con la gelosa difesa della propria autonomia «portarono Valdagno a divenire un nucleo laniero a se stante, non più confuso nel polo vicentino»'. Gestione familiare e fattori ambientali (dif-ficoltà di insediamenti industriali sui salti d'acqua a monte di Valdagno per il progressivo restringimento della valle; ruralismo e dispersione abitativa della popolazione operala sui monti vicini) orientarono i Marzotto all'accentramento delle lavorazioni, senza rischi sociali, in due stabilimenti di¬stanti un paio di chilometri l'uno dall'altro. Dalla fine degli anni '7 0, mentre il Rossi portava alla mas¬sima espansione le proprie industrie e Marzotto accelerava la fase dell'innovazione tecnico-produttiva, le imprese minori completarono la meccanizzazione e la razionalizzazione de¬gli impianti. Le nuove fabbriche della valle dell'Astico, da Arsiero e Piovene, da Zugliano, Lugo a Sarcedo disegnarono sugli antichi siti di magli, folli, molini, cartiere i tratti del nuovo paesaggio industriale, costituendo sulle rive dell'Astico «uno dei più attivi ed attrezzati bacini manifatturieri dell'Italia set¬tentrionale»'. Ibidem, pp. 64-68. C. G. Lacaita, Sviluppo e cultura, cit., p. 89. 381 Da li all'età giolittiana, le piccole e medie imprese svilup¬parono le proprie dimensioni attraverso espansioni tecnico-produttive, ristrutturazioni, concentrazioni e riassetti societari. Il protezionismo, tenacemente voluto dal Rossi, raf¬forzò le industrie cresciute con le proprie forze ed incentivò la loro iniziativa quanto quella delle imprese maggiori. Tra gli anni '80 e '90 si registrarono il potenziamento delle mac¬chine, delle attrezzature e delle dotazioni energetiche, varia¬zioni nella tipologia e nel volume delle produzioni, crescita della manodopera. E Lanificio Conte, con i suoi 1260 fusi, i 55 telai tutti meccanici ed un centinaio di operai, guidava alla metà del nono decennio il gruppo delle medie aziende della «mezzaluna tessile» Schio-Thiene-Valdagno. Di notte gli operai lavoravano con l'illuminazione elettrica. Il Lanifi¬cio Cazzola aveva tuttavia ormai colmato le distanze e si ap¬prestava al «sorpasso» dell'età giolittiana. Gli ingrandimenti dei fabbricati evidenziavano i salti qualitativi e dimensionali. In due fasi, tra il 1893 e il 1897, il lanificio si sviluppò ulte¬riormente ad est col lungo corpo di fabbrica che, saldato ad angolo a quello originario sul fronte strada, divenne l'ingres¬so del lanificio e con altre tre file di capannoni ad un piano sul retro del blocco iniziale. L'espansione del cardato econo¬mico e la nuova politica tariffaria accelerarono la meccanizzazione della filatura e della tessitura: alla fine del nono decennio il Lanificio Cazzola disponeva di 1.200 fusi, 48 telai meccanici e dava lavoro a 98 operai. L'energia era fornita da un motore a vapore di dieci cavalli con una caldaia di quindici e da un motore idraulico di 45. Nel gruppo dei cinque lanifici thienesi a ciclo comple¬to, emergevano invece i Lanifici Ranzolin e Ferrarin. Ac¬canto al tessuto di piccole tessiture e filature, la partita si giocò alla fine tra queste due aziende. Con la strategia delle acquisizioni che avrebbe finito con l'assorbire anche il prin¬cipale lanificio concorrente, e con gli sviluppi proseguiti senza soluzione di continuità, il Lanificio Angelo Ferrarin avrebbe completato in età giolittiana tutte le tappe dell'iti¬nerario da piccola ditta locale a media impresa affermata sul mercato nazionale. 382 6. Esperienze all'estero, ammodernamento tecnologico e svi¬luppo industriale Le esperienze rossiane costituirono un modello sia per le seconde o terze generazioni che per gli imprenditori in fase d'avvio, sia nel laniero che in altri comparti. Non furono solo i manifatturieri dell'asse Schio-Valdagno-Thiene ad acquisi¬re, su questa spinta iniziale, la consapevolezza della necessità di un rinnovamento tecnico eorganizzativo in funzione delle esigenze della produzione. Vi furono anche personaggi come Giuseppe Roi, il creatore del maggiore canapificio veneto dell'Ottocento. Dagli anni Sessanta egli colse le forti solleci¬tazioni del mercato ad uscire dal quadro delle lavorazioni a domicilio per misurarsi sulle linee di sviluppo dei canapifici stranieri e con la sua iniziativa diede inizio alla «riconversione» industriale del capoluogo vicentino. Anche le origini dei Roi erano artigianali e commerciali. Per valutare le condizioni dell'industria straniera e i possibili sviluppi della propria intrapresa, nel 1857 egli fece un viag¬gio in Svizzera, dove visionò i telai meccanici che acquistò per il suo primo impianto industriale a Vicenza. L'ammodernamento tecnologico presentava complessi pro¬blemi che disseminarono di difficoltà il cammino del Roi senza tuttavia fermarne l'iniziativa industriale. Se non riuscì a far funzionare i telai svizzeri con la sperata rapidità e precisione, esaminò in altri stabilimenti della provincia dei telai simili ai suoi, richiamò «persone pratiche», fece studi e varie prove. Riscontrando, nonostante tutto ciò, di essere ancora lontano dal suo intento, passò alla Lombardia e al Piemonte che ave¬vano già tentato il recupero del ritardo tecnologico rispetto ai paesi stranieri. E nel '59 – poiché nel ricercare lumi sui sistemi di biancheggio, che a lui, digiuno di chimica, erano pressoché sconosciuti, non gli riuscì di visitare quegli opifici – da Torino prese la decisione di recarsi in Inghilterra appro¬fittando di un viaggio circolare Parigi-Londra, benché «af¬fatto ignaro degli usi e della lingua di quella nazione manifat¬turiera»". I' D. Maddalena, Famiglie Roi - Fogazzaro, Vicenza, 1888, p. 80. 383 Il viaggio in Inghilterra costituì un tornante decisivo nel- l'avventura imprenditoriale di Giuseppe Roi sia sul piano tecnico-organizzativo che su quello commerciale. Tornato a Vicenza, introdusse i nuovi telai inglesi. Fatti i primi passi, la spinta all'intrapresa venne data dalle condizioni createsi con l'annessione del Veneto al nuovo Regno d'Italia. Da qui fino agli anni Ottanta la crescita fu ininterrotta e sempre all'inse¬gna del maggiore coordinamento possibile con l'estero. Nel '67 all'Esposizione universale di Parigi studiò gli ultimi siste¬mi di filatura che subito introdusse nello stabilimento di Vicenza, trasferendo la tessitura nella nuova fabbrica di Vivaro, inaugurata nel '7 L Già l'anno dopo innovò ulterior¬mente il processo acquistando le macchine inglesi più recen¬ti per il reparto filatura ed affidandone la direzione al capotecnico inglese James Murray. L'attività di filatura si sviluppò così rapidamente che le esigenze di un nuovo dimensionamento dell'assetto produt¬tivo indussero il Roi a costruire un terzo stabilimento, sorto a Cavazzale nel 1875. Venutogli a mancare nel '75 il direttore inglese, il Roi, «che da quello avea molto imparato», era or¬mai in grado di proseguire da sé. Alla seconda esposizione parigina del 1878 l'imprenditore vicentino analizzò gli ultimi sistemi di pettinatura meccanica, di cui poi generalizzò l'im¬piego. La forte meccanizzazione impose un corrispondente salto nella dotazione energetica risolta con la costruzione del nuovo, grande stabilimento di filatura a Debba, completato nel 1884 con macchine di fabbricazione inglese che sfrutta-vano 300 cavalli di forza idraulica, disponevano di 3.000 fusi ed occupavano oltre 500 operai. Nei tre stabilimenti di Vivaro, Cavazzale e Debba lavorava in quel periodo circa un migliaio di operai. Con l'accelerata espansione e l'integrazione di pet¬tinatura meccanica, filatura e tessitura il canapificio Roi di-venne la maggiore azienda regionale del settore. L'iniziale ricorso all'estero caratterizzò un'altra figura di rilievo del mondo industriale veneto e nazionale, Giuseppe Saccardo, anche lui formatosi nell'orbita dei maggiori lanieri scledensi. Intorno al 1890, il Saccardo conduceva una fab¬brica di navette di legno e spole di cartone, con un motore a Vapore bella forza di tre cv e 42 operai. Dopo essere stato 384 impiegato come il padre Luigi nel Lanificio Garbin, il Saccardo avviò in proprio la fabbricazione delle spole di car- ta adoperate dagli stabilimenti di filatura. La fabbricazione venne iniziata con lavorazioni a mano, «poi vennero studiati e costruiti alcuni attrezzi atti a sollecitarla; infine costatalo che i consumatori italiani vedevano ben volentieri lo svilup¬po di una industria che mirava ad emanciparli dall'estero con vantaggio di spesa e di tempo, il Saccardo si recò in Alsazia e in Francia, dove comperò le prime macchine con le quali si iniziò la fabbricazione a base meccanica»". Dopo il '92, dalla fabbricazione di tubetti di carta passò alla rocchetteria e ai tubi ad animelle di legno per lanifici e cotonifici giungendo a competere con i prodotti delle più im¬portanti case francesi, svizzere e inglesi. I Saccardo, oltre che nelle originarie attività commerciali, si distinsero anche in cam¬po bancario. Nel primo Novecento, Giuseppe Saccardo, or¬mai ben inserito nei maggiori circuiti dell'industria e della fi¬nanza italiani, esplicava la sua iniziativa industriale in molte¬plici direzioni. Nel 1905, trasformò la società in accomandita Saccardo & C. nell'Anonima industrie Saccardo, acquistò una manifattura di spole a Tradate e l'anno dopo eresse a Novara, zona di cotonifici, un secondo stabilimento per la fabbricazio¬ne di accessori in carta modernamente attrezzato e organizza¬to. Nel 1907 l'Anonima rilevò dalla ditta Fauser il Tubettificio Novarese, che fu assorbito dallo stabilimento Saccardo di Novara. Ingranditasi, la ditta acquisì ulteriore rinomanza e si impose sul mercato internazionale. Il ricorso alla tecnologia e all'esperienza straniere nelle fasi iniziali dell'attività fu dunque fino al tardo Ottocento un tratto comune di molte intraprese di brillante avvenire. Del resto, era già dagli anni Quaranta- Sessanta che i soggiorni all'estero venivano considerati tappe obbligate nella forma¬zione delle leve imprenditoriali deputate a garantire conti¬nuità ad imprese in via di consolidamento e di affermazione. I viaggi seguivano normalmente l'apprendistato in fabbrica, obbligatorio nel curriculum dei giovani imprenditori, non di rado costretti da vicende familiari ad anticipare ad età anco " Industrie Saccardo Schio Società Anonima, s.I., s.d. 385 ra verdi l'ingresso in importanti funzioni aziendali. Quando gli studi giovanili si potevano completare, erano di tipo pre¬ferenzialmente umanistico, passaggio d'obbligo dei figli del¬la classe dirigente. Dopo di che l'addestramento del giovane imprenditore in azienda riguardava le materie prime e l'inte- ro processo di lavorazione, indi, quando possibile, il confronto con l'estero. La scelta degli itinerari all'estero era natural¬mente legata alla collocazione settoriale e alla struttura delle singole aziende, nonché agli sviluppi dei vari paesi nei dwier- s i' industriali. i. Ne furono interpreti privilegiati ancora una volta i figli di Alessandro Rossi, Francesco, Giuseppe, Gaetano, i cui viag¬gi di studio e lavoro in Svizzera, Austria, Germania, Belgio, Francia ed Inghilterra costituirono il perfezionamento di un'educazione impostata sia sull'esperienza pratica che sulle nozioni teoriche. L'istruzionedei figli venne rigorosamente pianificata da Alessandro Rossi secondo un itinerario formativo che, attraverso la scuola superiore, l'apprendistato in fabbrica e il costante aggiornamento all'estero, combinava studi umanistici e competenze linguistiche (francese, inglese e tedesco e per Giuseppe anche lo spagnolo), conoscenze te¬oriche ed esperienze sul campo con la verifica diretta delle novità tecnologiche e dei mercati. A sua volta, nella gestione della Cartiera di Arsiero, Fran¬cesco Rossi, dopo aver a lungo contato sull'esperienza di Beniamino Donzelli, a cavallo del secolo cominciò ad avva¬lersi dell'opera dei figli Alessandro e Girolamo. Alessandro, nato nel 1880, aveva frequentato la scuola tecnico- industria¬le di Gand per un quadriennio, indi era stato a Lipsia nella migliore scuola cartaria europea e per perfezionarsi nella lin¬gua tedesca. Era poi passato presso un'importante cartiera di Manchester per apprendere i sistemi di lavorazione e la lin¬gua inglese. Nel tirocinio in cartiera ad Arsiero dovette se¬guire tutti i procedimenti chimici e meccanici a contatto di¬retto con tecnici ed operai, impadronendosi di ogni aspetto della fabbricazione. Su questa solida base, nel 1906 fu in gra¬do di assumere la direzione generale dello stabilimento. 386 Il fratello Girolamo, nato nel 1882, ebbe una preparazione commisurata alla maggiore propensione per la parte ammi nistrativa e le pratiche commerciali: conoscenza di tre lin¬gue, il francese, il tedesco e l'inglese, ma senza trascurare gli studi di meccanica e chimica all'estero, prima in Belgio a Verviers, poi in Germania ed Inghilterra. Indi il lungo adde¬stramento in cartiera con la partecipazione anche manuale a tutte le mansioni operaie ed impiegatizie. Si trattava, in questi casi, di dotare le nuove leve fami- Ilari di una solida base di conoscenze e di esperienze spe¬cialistiche aggiornate per agevolarne l'inserimento nella grande struttura produttiva-direzionale del Lanificio Rossi e delle altre iniziative ad esso collegate. Per i periodi di «alunnato» all'estero si guardava naturalmente ai paesi lea¬der nel tessile, nella meccanica e nella chimica. Con il tem¬po, i soggiorni in Belgio e in Francia, in precedenza tanto frequenti, andarono accorciandosi, mentre l'interesse si con¬centrò sull'Inghilterra, in particolare su Huddersfield e sul «triangolo» Manchester-Leeds-Sheffield o sui poli industriali tedeschi, svizzeri, austriaci. Più oltre sugli Stati Uniti. I per¬corsi formativi all'estero consentirono l'inserimento della terza generazione imprenditoriale rossiana ai vertici del¬l'Anonima e rafforzarono ulteriormente la straordinaria rete informativa relazionale che fu uno dei maggiori punti di forza dell'iniziativa imprenditori al- politica di Alessandro Rossi. Nel riferimento ai «modelli esteri» imposti dalla leadership di certe aree industriali europee in determinati settori produttivi e conosciuti attraverso gli itinerari for¬mativi delle nuove generazioni industriali, gli imprendito¬ri italiani tendevano ad acquisire i maggiori apporti possi¬bili sul piano tecnologico ed organizzativo, ma vagliavano in modo critico e filtrato le trasformazioni sociali indotte dai grandi agglomerati industriali. Così nella cultura industrialista del Veneto, come in quella di numerose al¬tre aree italiane, il decentramento produttivo – determi¬nato dall'incidenza delle risorse idriche e della rnanodO- pera rurale sulla struttura dei costi e sulla capacità di com¬petizione delle imprese, ma anche dalle tradizioni artigia¬nali e dal policentrismo urbano – combinò esigenze di for¬mazione e stabilizzazione della nuova classe operaia con 387 preoccupazionioccupazioni di ordine sociale, complementarizzando agricoltura

e industrie, puntando sull'etica del lavoro e sulla collaborazione di classe, diffondendo la pratica del solidarismo, promuovendo una vasta rete di «istituzioni

operaie» e di infrastrutture territoriali. i assimilabili Non mancavano impulsi di tipo tecnocratico ai tratti specifici di quella «cultura degli ingegneri» che costi¬tuì uno dei più importanti punti di connessione tra l'ambiente industrialista veneto e quello lombardo-piemontese. Se accan¬to a questi elementi fortemente connotativi si pongono anche le pulsioni nazional-economiche di un Rossi o di un Breda, il quadro della prima industrializzazione veneta si completa con tutti i principali filoni della cultura industrialista italiana del secondo Ottocento. 7.

Imprese, territorio e istituzioni: il paradigma rossiano[modifica | modifica wikitesto]

Con l'importante eccezione dei Marzotto che monopoliz¬zarono le risorse locali, industriali maggiori e minori scelsero una linea di decentramento produttivo dettata dalle esigenze di forza motrice idrica e di un costante flusso di forza-lavoro a basso costo. Il rovescio della medaglia era una manodopera caratterizzata da livelli ancora più bassi di alfabetizzazione e preparazione tecnica mentre cresceva sempre più il livello tec¬nologico degli impianti.Maggiori costi e minore produttività inducevano a sfruttare il differenziale salariale con un elabora¬to sistema di compensazioni di tipo paternalistico improntate al solidarismo di matrice cattolica. Una complessa rete di isti¬tuzioni e provvidenze, stabilizzando e controllando la mano¬dopera, tese ad aumentarne la produttività. Il noto programma rossiano – avviato dagli anni Cinquan¬ta, perfezionato nei decenni successivi e ampiamente Pubblicizzato in Italia e all'estero – costituì il vasto e raffina- to paradigma con cui prima degli altri erano chiamati a con¬frontarsi, seppure su scala diversa, gli imprenditori più vici¬ni. Lideologia rossiana, tesa all'armonizzazione del capitale col lavoro, trovò attuazione in un complesso di istituzioni «capaci di produrre vantaggi materiali e morali a tutta la mano 388 d'opera»`'. Già nella fase dell'impresa familiare, il Rossi creò premi per gli operai (1858-59), la Società di Mutuo soccorso (1861), la cassa fitti (1864), le scuole serali per dipendenti analfabeti (1866), il primo asilo infantile (1867), il condomi¬nio per operai detto il palazzon (1865-70), il Giardino e Tea¬tro Jacquard (1858-69), la mensa (1871) e numerose associa¬zioni ricreative. Con l'anonima, il Rossi passò ai più impegnativi progetti e alle realizzazioni del «Nuovo Quartiere» di Schio, dei vil¬laggi e delle case per operai e impiegati a Piovene, Cogollo, Pieve e Torre, ai convitti per operaie (Piovene, 1877-83), al¬l'asilo di infanzia (1872-81), alle scuole elementari (1876) e all'asilo di maternità di Schio (1878), istituiti in forme più modeste anche a Piovene; infine alla Scuola industriale di Vicenza (1878) e alla Scuola-convitto di orticoltura e pomologia collegata al podere-modello di Santorso (1884). Con le biblioteche circolanti, i magazzini cooperativi, le cu¬cine e i forni economici, le bande operaie e i circoli, il Giubi¬leo operaio di Alessandro Rossi poté celebrare nel 1889 ben 21 istituzioni operaie a Schio, 13 a Piovene, 8 a Pieve e 6 a Torre, più le 12 create dal figlio Francesco intorno alla car-tiera di Arsiero. Dopo Schio e Piovene, Arsiero fu il terzo polo - meno noto ma non meno interessante - della rete di provvidenze ed istituzioni per le maestranze create dai Rossi. Vi sorsero alloggi operai ed asilo infantile, magazzino coope¬rativo di consumo, società di mutuo soccorso maschile e fem¬minile ed una serie di iniziative orientate a coprire e raccor¬dare alla fabbrica molteplici bisogni di vita: consorzio di ri¬sparmio, prestiti sull'onore, concorso annuo per l'iscrizione degli operai alla cassa nazionale di previdenza, fondi per doti delle operaie, fondi per vedove e per maternità, scuole serali e complementari, cucine operaie e somministrazioni gratuite di vettovaglie, cure estive, premi di incoraggiamento, suore per l'assistenza agli operai malati, infermeria, circolo impie¬gati, biblioteche circolanti ed altro ancora. Anche le iniziati Il R. Marchesini, Le società di Alessandro Rossi e il «Nuovo quartiere>.> in Schio, in G. L. Fontana (a cura di), Schio e Alessandro Rossi. Imprenditorialità, politica, cultura e paesaggi sociali del secondo Ottocento, vol. I, Roma, 1985, pp. 319-357. 389 ve di Gaetano Rossi a supporto del cotonificio seguirono le collaudate impostazioni paterne, peraltro con minore ampiez- za data la rete istituzionale del capoluogo. Con la realizzazione del quartiere «Nuova Schio», Ales¬sandro Rossi pianificò l'infrastrutturazione urbana da impren¬ditore dotato di una peculiare attitudine a trasfondere le lo¬giche aziendali in operazioni di ingegneria sociale. E, poiché aveva assunto la funzione di ideologo e leader degli indu¬striali italiani, volle conferire alla sua iniziativa un carattere esemplare. Egli conosceva attraverso i viaggi, i contatti per¬sonali e una vasta rete informativa le esperienze di città e villaggi operai inglesi, belgi, tedeschi, francesi, spagnoli e americani. Il «Nuovo Quartiere A. Rossi» aveva due prece¬denti. Il primo era costituito dal palazzon, un edificio com¬prendente 28 alloggi di piccole dimensioni, a due o tre stan¬ze, progettato da Antonio Caregaro Negrin, l'architetto-ur¬banista che restò per oltre quarant'anni al servizio del Rossi. Il secondo precedente era stato l'accordo tra Rossi e Stamm per la costruzione di abitazioni per dirigenti, capi¬fabbrica e una «piccola colonia operaja con vita propria» a Piovene, nei pressi della nuova filatura cardata, su modello della cité ouvrière di Mulhouse. La decisione del Rossi di iniziare l'edificazione di un nuo¬vo quartiere venne motivata dal Caregaro Negrin col fatto che l'esperimento del palazzon «non rispose in pratica alle benefiche intenzioni per cui ogni famiglia di operaio doveva godere di una casa comoda, utile, salubre». L'esperienza del «Nuovo Quartiere» ebbe avvio nel 1871 con la creazione della Società de' giovani costruttori, poi Società edificatrice, con la quale il Rossi puntò a coinvolgere i giovani della più facoltosa borghesia scledense e l'amministrazione comunale. Fallito questo tentativo, nel 1872 Rossi intraprese con i pro- pri mezzi la realizzazione del «Nuovo Quartiere», affidando zzi iol'incarico di progettista al Caregaro Negrin, che, tra il genna¬e il luglio dello stesso anno, stese tre progetti. Il primo venne accantonato perché - come riferì il Negrin - risultava «troppo marcata la separazione tra le case umili e pulite degli operi e quelle destinate il famiglie Progetto rimane solo un manifesto del maggio '72, indica 390 tivo di alcuni precisi indirizzi programmatici: la ricerca della continuità fisica tra il nucleo antico e la «Nuova Schio»; la possibilità di intervenire da parte dell'acquirente durante la progettazione; l'apertura dell'iniziativa anche al non dipen¬denti del lanificio; la possibilità di acquisizione diretta o di riscatto delle abitazioni suddivise in tre categorie. Difficoltà nei raccordi con il centro storico ed iniziative autonome del comune di Schio obbligarono alla stesura di un terzo progetto, redatto sempre dal Negrin nel luglio del '72 ed ispirato ai canoni della «città-giardino». L'area inte¬ressata dal progetto subì uno spostamento a sud e l'asse cen¬trale, anziché il raccordo con il centro storico, divenne il via¬le d'accesso agli stabilimenti, conferendo all'interventoun marcato senso di dipendenza dalla fabbrica estraneo agli in¬tendimenti iniziali del Rossi. Mentre venivano costruite le prime case «a guisa di esempio e di prova», il grandioso pro¬getto del Negrin servì soprattutto da veicolo pubblicitario a partire dall'esposizione di Milano del 1872. Il Centner, com¬missionario del Rossi a Verviers e suo informatore su quanto avveniva nel contesto europeo, ricevuta dall'industriale scledense la copia dei primi progetti, h fece esporre nella sede della Société industrielle di Verviers suggerendo al Rossi di farne delle stampe, con planimetrie e facciate di case sul ge¬nere di quelle celebri di Titus Salt e di inviarle a grandi indu- striali come il Peltzer, il Krupp, l'Akroyd, il Liebig, il Crossley, alle camere di commercio, alle società industriali e alle città interessate. Fin dall'avvio dei lavori, tuttavia, dell'andamento curvilineo dell'impianto non rimase che una vaga suggestio¬ne nel nucleo centrale del quartiere. L'assetto rettilineo ca¬ratterizzò le successive fasi di edificazione. Le abitazioni ven¬nero offerte in vendita diretta o a riscatto, con un prezzo dí i cessione corrispondente all'insieme dei costi. Le gravose n- combenze legate all'imponente complesso di realizzazioni obbligarono il Rossi ad affidare la direzione lavori all'ingegner Edgar Larsimont Pergamena e ad affiancargli alcuni valenti professionisti locali come gli ingegneri Giovan Battista Saccardo, Silvio De Pretto e Carlo Letter. Lo stesso Rossi continuò a far pesare i propri personali orientamenti. 391 Nel el 1878 Francesco Rossi, nella sua Schio-alpina, tracciò un primo bilancio dell'iniziativa: Il quartiere di Schio che copre 16 ettari di terreno, per buona metà già occupato dalle nuove costruzioni, ed è composto di case isolate totalmente o riunite in piccoli gruppi, ciascuna con cortile ed orto o giardino, non ha la monotonia della città operaja di Mulhouse e che m'incolse anche nella città di Sir Titus Salt, Saltaire, dalle larghe strade, dalle piazze ornate di sontuosi edifici pel culto e per l'istruzione, dall'elegante parco. Monotoni non saranno i quar¬tieri ad Esseri, ma ivi come a Saltaire le case, date a pigione dalla ditta industriale, non sono acquistabili11. All'epoca risultavano costruite un centinaio di case per 500 abitanti. Nel 1888 l'opera si era estesa a sedici ettari di superficie con 211 case edificate per 1.178 abitanti. L'area si sarebbe prolungata ulteriormente, a tutto il '96, con il «Quar¬tiere Nuovissimo» per altri tre ettari. Le case divennero così 272. I negozi, data la vicinanza con il centro storico, erano soltanto 13. Nel 1890 il «Nuovo Quartiere» raggiunse la punta di 1.543 abitanti pari al 9,50% della popolazione scledense del tempo. Dall'ultimo ventennio dell'Ottocento fino al se¬condo dopoguerra, il tessuto edilizio rimase delimitato dal tracciato della ferrovia «alpina» Schio-Torrebelvicino e dal raccordo tra questa e gli stabilimenti dell'area Lanerossi. 124 isolati, che lo componevano, si distribuirono secondo una maglia viaria ad assi rettilinei e ad intersezioni in parte ortogonali, in parte oblique, risultato del complesso iter progettuale e realizzativo. Le abitazioni del «Nuovo Quartiere», pienamente rispon¬denti ai dibattuti canoni igienico-sanitari, risultarono variate nel tipi e nelle decorazioni. Accanto alle case operaie sorsero i i villini per i tecnici e i capi-operai e la villa di Giovanni Ros- si, figlio di Alessandro e gerente dei lanifici di Schio. La cor- nice nord ed est del Nuovo Quartiere si configurò come fac- ciata Proponendo al visitatore, lungo via Maraschin, il giar¬ dinoPubblico, le scuole comunali (1876), il Teatro Civico (1909) e la sequenza di villini contornati da essenze rare. Fa " E Rosi, Schio-alpina, Schio, 1878, pp. 69-73. 392 cova da sfondo al viale, con scenografico effetto, il monumentale colonnato dell'asilo di maternità (1878). Lun¬go la via A. Rossi sorsero anche le scuole elementari per i figli dei dipendenti del lanificio e l'alto edificio della Scuola-con¬vitto di orticoltura e pomologia. Negli spazi interni al quar¬tiere si distribuirono gli edifici di minor rilievo architettonico ed a più alta densità edilizia. Nel 1879, a spese di Alessandro Rossi, venne realizzata la chiesa di S. Antonio sempre su pro¬getto del Caregaro Negrin, la «chiesa per gli operai», che fun¬geva da cerniera tra il quartiere e il centro storico. La nuova realtà socio-economica, il ruolo assunto con la precoce industrializzazione, la presenza di propri concittadi¬ni sulla scena economica e politica nazionale spinsero il Ros¬si alla ricerca di una modernizzazione del vecchio centro scledense anche sotto il profilo urbanistico, dei servizi e delle infrastrutture, a partire da quelle relative alle comunicazioni, finalizzate a rompere l'isolamento geografico dell'area scledense. Con la diffusione delle fabbriche assunsero pri¬maria importanza i collegamenti ferroviari minori. Sulla que¬stione, che suscitò vivaci dibattiti, il Rossi intervenne in Con-siglio provinciale nel 1872 proponendo, sulla base delle espe¬rienze biellesi, la realizzazione della Vicenza-Schio a scarta¬mento ridotto, ritenendola più funzionale ed economica. Oltre che dai problemi tecnici e finanziari, la discussione trasse ali¬mento dalle scelte di tracciato tra le linee Vicenza-Malo-Schio e Vicenza-Thiene-Schio. La Vicenza-Schio venne realizzata attraverso una convenzione tra gli enti locali e la Società veneta per la costruzione e l'esercizio della linea ed inaugurata il 28 agosto 1876. Francesco e Gaetano Rossi applicarono la loro concezio¬ne dell'industria come motore dello sviluppo e della modernizzazione civile in un'area socialmente ed economi¬camente molto arretrata. Intorno alla Cartiera di Arsiero, al Lanificio di Piovene e al Cotonificio di Chiuppano venne così a ruotare una molteplicità di iniziative che investiva tutto il territorio, le cui risorse vennero valorizzate con mentalità produttivistica non solo a fini industriali. Opere di primario rilievo riguardarono il potenziamento dell'apparato energetico, il trasporto dell'energia idraulica e poi ídroelet¬ 393 trica e la rete delle ferrovie alpine che per i fratelli Rossi si- gnificava innanzitutto migliorare i collegamenti tra gli stabi¬hinenti e con il sistema delle comunicazioni attraverso la Vicenza-Schio. Nel 1883, Francesco Rossi fondò a Schio la S.A. Coo¬perativa per tramvie e ferrovie con un capitale di 12.300 lire sottoscritto da 11 firmatari, che si allargò poi fino a 200 soci ed iniziò i lavori sul tratto Schio-Santorso. Una petizione della Valdastico, con 2.500 firmatari, chiese il prolungamento della ferrovia fino ad Arsiero; analoghe pressioni provenivano da Malo e Torre. La provincia stan¬ziò un contributo di 5.300,40 lire cinquantennale ed il governo concesse per le linee di Torre ed Arsiero un sussi¬dio di 1.000 lire al chilometro per 35 anni. Con l'interven¬to della Società veneta del padovano Vincenzo Stefano Broda, che sottoscrisse per mezzo milione di lire, la coo¬perativa si trasformò in Società ferrovie economiche di Schio. Questa, nel 1884, costruì il tronco Schio-Piovene e nel 1885 completò l'allacciamento con Arsiero e Torrebelvicino. Nel 1907 sarebbe stato poi inaugurato il tronco Thiene-Rocchette. Nel 1882, Alessandro Rossi aveva lanciato anche l'idea di collegare l'Altopiano dei Sette Comuni con la vicina pianura per mezzo di una ferrovia a cremagliera. Il primo progetto venne studiato dall'ingegner A. Crippa per inca¬rico della Società cooperativa per tramvie e ferrovie di Schio e riguardò il tracciato Arsiero -Pedes cala -S. Pietro¬Castelletto-Asiago, ma non venne realizzato per l'opposi¬zione dell'autorità militare e per i rischi d'esercizio. Nel 1894, F. Shaeke propose il tracciato «via Barricata» e nel 1899 gli ingegneri Saccardo e Dalla Valle completarono il progetto, attuato con l'appoggio degli enti pubblici. La Rocchetto-Asiago, ultima delle «ferrovie economiche» altovicentine, venne inaugurata nel febbraio 1910. L'eser¬cizio della linea venne assunto dalla Società ferrovie nord-Vicenza, subentrata bel 1899 alla Società ferrovie econo¬miche di Schio. 394 8. L'imprenditore «pubblico», l'istruzione tecnica e la diffusio¬ne del welfare aziendale A Valdagno, il rapporto di Marzotto con le proprie ma¬estranze si affinò progressivamente con una vitalità attribu¬ita da Roverato, più che alla continuità di una linea familia¬re, alla peculiarità del rapporto della famiglia Marzotto con la comunità locale'. L'espansione della fabbrica avvenne senza rotture sociali all'interno del paese. Il lento sviluppo industriale era «a misura» del contesto e non richiese, al¬meno per un certo tempo, troppe mediazioni sociali. Una serie di istituzioni simili a quelle del Rossi nacquero per una sorta di filantropismo difensivo, «che mirava a risolve-re i momenti insorgenti di una possibile tensione sociale, piuttosto che a prevenirla stabilmente attraverso un organi¬co intervento sui comportamenti e sui modelli logico-inter¬pretativi dei suoi operai». Nel 1866 venne creata la Società di mutuo soccorso e nel '69 fu rinnovata la Cassa di confra¬ternita per l'assistenza degli operai della miniera di M. Pulii. Nell'80 il Marzotto costruì il primo asilo infantile, colloca¬to quattro anni dopo in un nuovo edificio, indi realizzò cu¬cine economiche, magazzino cooperativo, biblioteca circo¬lante e le prime case operaie in rapporto diretto con la fab¬brica. Le prime tendenze verso un rapporto di tipo paternalistico si mescolarono con tradizioni di famiglia e motivi di prestigio o mecenatismo, cui sarebbero stati par¬ticolarmente sensibili Vittorio Emanuele Marzotto e la mo¬ glieIta Garbin. Sulla scia del padre, Giovanni e Gaetano impegnarono parte delle proprie sostanze per il nuovo ospe¬dale S. Lorenzo ed operarono attraverso la Congregazione di carità. La rinata filarmonica e la banda musicale Marzotto, creata nel 1883, la società di ginnastica, le feste ed i tratte¬nimenti per gli operai e la popolazione garantirono presti- gio ed ulteriori intersecazioni con la società locale. La vita del paese cominciò così a ruotare sempre più strettamente attorno all'azienda Marzotto ed alle sue istituzioni collaterali, in una simbiosi tra fabbrica e comunità. 14 G. Roverato, Una casa industriale, cit., p. 59. 395 L'intervento nel sociale dei tessili vicentini seguì nel se¬condo Ottocento e fino all'inizio del Novecento il modello rossigno, naturalmente in misura proporzionale alle dimen¬sioni dell'azienda, alla sua articolazione sul territorio e, natu¬ralmente, alla sensibilità dell'industriale, con la medesima logica che vedeva nelle istituzioni operaie, emanazione della fabbrica sul territorio, un fattore-chiave di compensazione-integrazione combinato con un rapporto contrattuale «a vita» con l'azienda. Così, ad esempio, avvenne nel lanificio Conte coi, meccanismi efficaci se non vi furono scioperi, né episodi significativi di indisciplina. Nel rapporto con le maestranze, anche Silvio De Pretto seguì l'esempio di Rossi creando, nel 1892, la Società di mutuo soccorso, rimasta attiva fino al 1929. Al rapido diffondersi delle società di mutuo soccorso nel¬l'ambito socio-assistenziale si susseguirono interventi che, alla scala immediatamente inferiore rispetto alla grande impresa, si potevano riassumere nell'inventario novecentesco del La¬nificio Cazzola: «moderni villini e comode case con orti e giardini per gli operai e i dipendenti, luoghi di asilo e di assi¬stenza, ambulatori medici, ampi refettori, spacci interni di generi alimentari, sagge istituzioni di previdenza e beneficienza». In area thienese la Filatura cascami seta di Zugliano co¬struì per prima case operaie; altrettanto fecero i Ferrarin a Thiene e Sarcedo, con una decina di alloggi lungo la roggia, secondo la pratica tendente all'uso razionale di parte dei mar gini concessi dalla compressione delle paghe. A Lugo, l'inse¬diamento della Cartiera Nodari produsse, come i numerosi altri che andavano sviluppandosi lungo l'Astico, una forte im- pressione e durevoli cambiamenti nelle condizioni socio-eco¬nomiche, nelle abitudini e nella mentalità della popolazione del luogo. Nodari, muovendosi sulla linea di Alessandro Ros- si, affrontò alcuni di questi problemi usando i margini conces¬si dalla compressione delle paghe per garantirsi uno stabile flusso di manodopera conformata alla mentalità e alla discipli¬na di fabbrica, legata con tutto il nucleo familiare all'azienda. Obiettivo primario era quello «di rendere la sua fabbrica, ol¬tre che celebrata in Italia per la sua carta, anche modello per costumatezza ed ordine», fine che raggiunse, per la vita dentro 396 lo stabilimento, «mediante severi regolamenti e rigorosa sor¬veglianza» e mediante una scuola interna per l'alfabetizzazione primaria. Fuori, la società provvide alla costruzione di case per gli operai concesse in uso gratuito e di cucine economiche e costituì una società di mutuo soccorso che ebbe un notevole sviluppo. La ditta venne premiata con medaglie d'oro per le istituzioni filantropiche create e costituì, insieme ai modelli «maggiori» della grande industria tessile, un riferimento per numerosi altri imprenditori del settore. Anche i Roi, con i canapifici insediati in campagna, maturarono ben presto una precisa coscienza dell'impor¬tanza delle attività filantropiche e assistenziali ai fini delle relazioni e dei comportamenti di fabbrica. Di qui l'avvio di provvidenze assistenziali che mescolavano tipiche for¬me di paternalismo ottocentesco con più avvertiti intenti difensivi e di controllo. Parallela alla grande espansione degli insediamenti produttivi si sviluppò l'iniziativa nel campo delle abitazioni operaie con le prime realizzazioni del 1881 su un isolotto dell'Astichello e gli interventi sus¬seguitisi a Vivaro e a Debba, sempre in vicinanza della fab¬brica, a sancire la stretta connessione tra vita privata e re¬altà produttiva. Il complesso di interventi, che presentava alcune analo- gie con la pianificazione sociale attuata attorno allo iutificio di Piazzola da Paolo Camerini, rappresentava una soluzione intermedia tra il modello del «Nuovo quartiere operaio Ales¬sandro Rossi», impostato su case uni e plurifamiliari o a schie-ra, ed i più grandi aggregati edilizi del centro-nord Europa, peraltro rapportati a ben altre esigenze di scala. Infine, i due complessi costruiti da Giuseppe Roi Jr a Cavazzale nel 1903¬4 avrebbero rappresentato una fase evolutiva che manifesta¬va significativi mutamenti nello schema aggregativo, nella quantità di superficie, nella distribuzione degli spazi e nel rapporto con l'ambiente circostante. Il sistema di patronage dei Roi, come attestarono alcuni tra i più prestigiosi ricono¬scimenti ricevuti in Italia e all'estero dagli anni Ottanta al¬l'età giolittiana, venne considerato, insieme con la qualità della produzione, cui era per l'appunto tutt'altro che estraneo, uno dei tratti peculiari dell'azienda. 397 Negli stessi anni anche altri imprenditori effettuarono simili interventi. In particolare Pietro Trevisan affiancò strut¬ture residenziali ed un asilo d'infanzia al poderoso comples¬so delle fornaci di Villaverla. La costruzione avvenne per fasi e fu completata nel 1906, con complessive 14 unità edilizie dalle tipologie distributive molto semplificate. Alla stabilizzazione si legava il permanente problema della for¬mazione delle maestranze, più o meno sentito in rapporto al settore, alle dimensioni dell'azienda, all'assetto tecnico-organizzativo e alle scelte di prodotto. La necessità dell'istruzione e della specializzazione, già fortemente avvertita nel settore laniero, divenne stringente con lo sviluppo delle industrie dell'indotto, quali la cartiera Rossi o le fonderie De Pretto. La scuola industriale, creata dal Rossi a Vicenza nel 1877-78, diventò una vera fucina di intelligenze tecniche dalla quale uscirono ai primi del Nove¬cento due pionieri del meccanico, come Giacomo Pellizzari e Pietro Laverda Jr. La scuola doveva formare il capotecnico, il soggetto in grado di conoscere ogni dettaglio del prodotto e di seguire il lavoro in tutte le sue fasi: la figura che appunto mancava alle imprese. Come mancavano spesso abili operai per i quali si crearono scuole di arti e mestieri a Lonigo, Schio, Thiene, Valdagno, Camisano. L'Istituto «A. Rossi» si propose dunque di formare il per¬sonale in grado di conoscere «íl maneggio degli strumenti, l'uso delle macchine, a rendersene ragione, ad aver chiaro nella mente il disegno, a saper lui stesso formarsene col dise¬gno la rappresentazione»` e quindi di supervisionare il lavo¬ro degli operai. Oltre a ciò il «meccanico» forgiato dall'Isti¬tuto non era solamente un esperto utilizzatore dei diversi stru¬menti e tecniche, ma doveva essere capace di fare progredire la professione. Chi realizzò in pieno questo modello di allie¬vo fu senza dubbio Giacomo Pellizzari, il quale, peraltro, sa¬rebbe sempre rimasto legato alla scuola anche in veste di di¬rigente e sostenitore dell'ampliamento dell'offerta formativa, come quando, nel periodo 1938-43, fu commissario gover¬nativo della Scuola tecnica industriale annessa all'Istituto dal "G. L. Fontana, Mercanti, pionieri e capitani d'industria. Imprenditori Z/?Zpr,'V,, nel Vicentino centino tra '700 e '900, Vicenza, 1990, p. 384. 398 novembre 1942 all'ottobre 1943. Ma vanno ricordati anche coloro – come Giovanni Battista Laverda e Angelo Beltrame – che, pur provenendo da una famiglia che già da una o due generazioni si occupava di industria, qui affinarono abilità più tardi impiegate per permettere all'azienda di famiglia di progredire e magari di compiere consistenti balzi in avanti. Proprio a proposito della provenienza sociale degli allievi, nel 1884, Galileo Ferraris, in qualità di ispettore ministeriale, delegato dal Ministro ad assistere agli esami del secondo cor¬so presso la Scuola di Vicenza, osservava che una frazione molto consistente degli alunni proveniva da famiglie agiate a scapito di quelli più povere. La situazione si sarebbe però presto capovolta. Nell'istituto si tenevano corsi di fonderia, meccanica ed elettrotecnica, mentre la stessa organizzazione scuola-offici¬na-convitto puntava a far sì che gli alunni, con le parole del direttore dell'istituto, Ernesto C. Boccardo «non ritornasse¬ro quotidianamente alle famiglie trovandovi idee, abitudini, sistemi di vita i più eterogenei, cosicché alla fine dei corsi sarebbero bensì licenziati capitecnici, restando però sempre, nella pluralità dei casi, estranei alle industrie, perché allevati in mezzo a condizioni che appena hanno una lontanaidea di ciò che industria sia e debba essere»". Il successo di questa formula fu tale che l'Istituto andò incontro, anche fisicamen¬te, alla nascente industria, attivando, nei maggiori centri in¬dustriali della provincia, sedi periferiche. L'Istituto collabo¬rò anche direttamente con le aziende per sviluppare nuove produzioni; fu il caso della Laverda che si avvalse di questo supporto tecnico in alcuni suoi brevetti. L'Istituto continuò, negli anni, la sua opera di formazione aggiornando i corsi alle nuove tecnologie. In un'età in cui si faceva pressante l'esigenza di risponde¬re mediante l'organizzazione dell'apparato formativo ai pro¬blemi suscitati dall'industrializzazione, dalla struttura del mercato del lavoro e dalla maggiore mobilità sociale, gli in¬dustriali si impegnarono in prima persona e nelle arnininí¬strazioni locali per l'istituzione di scuole tecniche. La fonda Il Ibidem, pp. 383-384 e nota. 399 zinne dell'Istituto Rossi trovò così il suo pendant nell'impe¬gno di Silvio De Pretto per aprire con il concorso finanziario del Comune, ad appena quattro anni dall'avvio dell'attività imprenditoriale, la Scuola serale di disegno geometrico ap¬plicato alla meccanica, con corsi tenuti presso le scuole ele¬mentari Maraschin di Schio. La Scuola, diretta da Ildefonso Coroner e inizialmente limitata alla fonderia e officina mec¬canica, aprì nel 1888 e, data la giovane età degli operai, con frequenza serale. Gli iscritti erano una ventina e gli insegnanti provenivano dai ranghi dei tecnici della fabbrica. Con il tem¬po, l'istituto diventò un centro di formazione importante, per l'azienda, ma non solo, diversificando i corsi e conseguente¬mente le figure professionali che era in grado di formare: nella Scuola fu installato un laboratorio di meccanica e, nel 1888, fu aperto un corso anche per gli operai dei lanifici, i cui iscritti passarono dalla ventina degli inizi ai 155 del 1900. Nel 1910 la Scuola contava 219 allievi. Nel 1892, intanto, era stata inaugurata la Scuola festiva di disegno ornamentale applicato alle arti e mestieri, in cui insegnava l'artista di maggior rilievo del primo '900 scledense, Tommaso Pasquotti. Nel 1913, poi, il Comune decise di uni¬ficare statuto e direzione della Scuola serale e di quella festi¬va. La nuova Scuola d'arti e mestieri, come fu chiamato l'isti¬tuto, doveva provvedere alla preparazione di meccanici, fale¬gnami, muratori e decoratori. Dopo l'interruzione nel perio¬do bellico, i corsi sarebbero ripresi nel 1920. Dal 1922-25 la Scuola potenziò l'offerta educativa per quel che riguarda la cultura generale, l'italiano e la matematica senza peraltro tra¬scurare i corsi più strettamente attinenti alla professione tra i quali troviamo, da questi anni, anche nozioni di elettricità elementare per meccanici. Il sostegno alla Scuola sarebbe proseguito anche dopo la fusione con la Escher Wyss, coin- volgendo nella direzione dell'istituto anche i dirigenti del- l'azienda svizzera. Rispetto alle esigenze dell'azienda i tecnici

ie

formatIdalla Scuola furono spesso insufficienti, tanto da at¬tingere alle competenze maturate presso altre importanti re¬altà della meccanica nazionale come l'Ansaldo. Molto variegato fu l'impegno di De Pretto per risponde¬re, mediante l'organizzazione dell'apparato formativo, ai pro 400 blemi suscitati dall'industrializzazione, dalla nuova struttura del mercato del lavoro e dalla crescente mobilità sociale. In qualità di assessore del comune di Schio, egli appoggiò la proposta di aggregazione di una scuola tecnica al locale gin¬nasio, che dal 1903 divenne il Collegio convitto comunale G. Polo». Egli fu inoltre membro del comitato promotore della Scuola libera popolare, che sorse nel 1901 sul modello delle università popolari per iniziativa del prof. Longinotti, presidedella Scuola tecnica di avviamento. Gli interventi nel campo dell'istruzione tecnica, delle strutture socio-assistenziali e dell'organizzazione degli spazi urbani si accompagnavano alla partecipazione del nuovo ceto imprenditoriale alla vita delle amministrazioni comunali, ai suoi crescenti rapporti con la dimensione politica e governa¬tiva. L'infrastrutturazione territoriale e sociale e gli ilinterven- ti nel campo dell'istruzione avevano fatto aumentare ginte¬ressi esterni degli imprenditori, sempre più spesso impegnati ad estendere la propria azione, oltre che negli organismi di categoria, nelle pubbliche amministrazioni e, nel caso dei Rossi, dei Marzotto e dei Roi, anche nelle sedi parlamentari. Questa presenza si combinava con quella di esponenti del¬l'aristocrazia fondiaria e del mondo finanziario nelle società per azioni a determinare fenomeni di osmosi tra vecchi e nuovi gruppi dirigenti, tra ceti produttivi e ambienti della politica e della cultura, che trovavano spinta anche nella necessità da parte degli industriali di allargare il più possibile i propri cir-cuiti sociali. Di qui la più larga presenza dell'elemento indu¬striale anche nell'attività pubblicistica, nell'associazionismo, nei club e comitati civici secondo una funzionale diversificazione dei ruoli che le famiglie industriali applica¬vano nella fabbrica come nella società. Nelle amministrazioni comunali prese fisionomia la figu¬ra dell'imprenditore pubblico, che assumeva con atteggia¬menti tipicamente pragmatici ed efficientistici la gestione degli interessi immediati del mondo industriale, con particolare attenzione a materie come i trasporti, la politica degli alloggi

i dazi, l'assistenza sanitaria. Un caso persino iperbolico fu rappresentato da Giuseppe Roi Jr, ma l'esperienza coinvolse i Conte, i Cazzola, i De Pretto, i Panciera, il Marzari, il Magni 401 e molti altri. Ad Arzignano, il primo filandiere del posto, Giovanni Bonazzi, fu consigliere comunale dal 1896 al 1904 e assessore nel biennio 1900-1. Lo stesso avvenne con i Brusarosco. Il fenomeno presentava tratti assai marcati nella «città dell'industria» scledense, dove il ceto dirigente venne ad identificarsi con la triade imprenditorial-politica formata da Silvio De Pretto, Giovanni Rossi e Riccardo Panciera, in Una sorta di oligarchia comunale che agiva con spirito solida- le, ma nel rispetto di gerarchie di valore e di interessi legati al potere economico delle più prestigiose famiglie; un gruppo già socialmente e culturalmente coeso impegnato anche nel¬le istituzioni pubbliche a favorire, in una costante conver¬genza pubblico-privato, il processo di modernizzazione eco¬nomica e civile. Nello svolgimento di queste funzioni, trasparivano atteg¬giamenti assimilabili al concetto del notabilato politico. Ti¬pico il caso dei Marzotto, dalla cui forza economica e sociale scaturì la rappresentanza politica, «la quale serviva a propria volta a rafforzare la prima in un circolo chiuso, che veniva rotto solo in presenza di politici per vocazione, o di perso¬naggi ad ampio respiro ideologico»". Mentre Alessandro Ros¬si fece di tale respiro un punto di forza della sua strategia industrialista nelle istituzioni parlamentari, Gaetano Marzotto Sr interpretò, con la sua propensione a schierarsi nell'area governativa, una delle costanti del ceto imprenditoriale ita¬liano. In questo modo, comunque, già dagli anni Settanta e soprattutto con gli anni Ottanta, l'eco dei problemi del mon¬do industriale si fece sempre più accentuata a misura che cre¬scevano e si diffondevano i soggetti protagonisti, gli impren¬ditori e la classe operaia. Il fenomeno assumeva la stessa fisionomia nei diversi cen¬tri e settori, intrecciando imprese, banche ed amministrazioni locali. La fortuna imprenditoriale e il ruolo socio-economico della cartiera Nodari nel territorio thienese fecero del suo tito¬lare anche un eccellente candidato ad incarichi politici e istitu-zionali. Egli tuttavia accettò solamente l'incarico di sindaco di Lugo per tre legislature. Anche il comune di Calvene, dove il G. Roverato, Una casa industriale, cit., p. 52. 402 Nodari aveva proprietà agricole, lo nominò consigliere e as¬sessore nel 1883, invitandolo più volte ad accettare l'incarico di sindaco. Ma il proposito «di consacrarsi intieramente ai suoi obblighi industriali» lo indusse a non aderire alla richiesta. Come gli altri maggiori imprenditori, Nodari fu peraltro lun- gamente attivo negli organi di rappresentanza degli interessi economici, nella Camera di commercio, nonché nel Comizio agrario di Thiene giacché, interpretando un consueto cliché del tempo, ai preminenti interessi industriali, Nodari associa¬va infatti quelli di proprietario agricolo. Ad Arzignano, Luigi Brusarosco entrò nel Consiglio del¬la Banca Popolare nel 1884 e vi rimase fino alla morte, nel 1909. Assai attivo nello stesso organismo era Bortolo Carlotto, titolare della più importante conceria arzignanese, una delle prime in provincia a far uso di motori meccanici. Tra gli anni Ottanta e Novanta, fu presente negli organi direttivi della Banca popolare anche il filandiere Giovanni Bonazzi. La Popolare di Arzignano era quasi una «banca di famiglia», che interveniva principalmente nelle attività seriche e nei set¬tori chiave dell'economia della valle. Il risparmio veniva ra¬strellato soprattutto fra i piccoli artigiani, commercianti ed agricoltori. Gli esempi, oltre a quelli citati, si potrebbero moltiplicare. 9. La «maturità» dei settori trainanti . e i . primi mi . sviluppi del meccano-tessile nell'Alto Vicentino Il protezionismo rafforzò le industrie cresciute con le pro¬prie forze, diede concretezza al mercato nazionale e incenti¬vò l'iniziativa nel secondario, caratterizzata intorno agli anni Ottanta-Novanta dal potenziamento delle macchine, delle at¬trezzature e della dotazione energetica, dalle variazioni nella tipologia e nel volume delle produzioni, dalla crescita della manodopera. Tutti elementi che appaiono in primo luogo con¬nessi al movimento interno al mondo industriale, a dinami¬che destinate a dispiegarsi, anche attraverso gli «anni neri» dell'economia italiana, ma certo rafforzate da un nuovo at¬teggiamento dello Stato di fronte ai problemi dello sviluppo industriale. 403 Il percorso evolutivo dei settori e delle singole imprese offre precisi riscontri in tal senso. Innanzitutto nel salto qualitativo e quantitativo del laniero, evidenziato dai 1.413 telai meccanici, dai 586 telai Jacquard e 96 a mano del 1885 distribuiti in 27 stabilimenti a confronto dei 120 meccanici e 1730 manuali del 1868. Con lo sviluppo e la specializzazione produttiva delle maggiori imprese si coglie l'intensificato rin¬novamento impiantistico e organizzativo dei lanifici minori: in particolare, l'espansione del cardato economico e la politi¬ca tariffaria accelerarono il potenziamento tecnologico, l'in¬cremento e la diversificazione della forza motrice. Insieme si ampliò la rete dei rapporti commerciali. Il Lanificio Rossi, uscito dalla recessione del 1876-79, at¬tuò una riforma che investì la società in tutti i suoi aspetti, amministrativi, commerciali e industriali. L'imponente appa¬rato tecnico-produttivo fabbricava una quantità di prodotti che il sistema commerciale non riusciva a smerciare. La solu¬zione proposta da Alessandro Rossi fu la suddivisione organizzativa in quattro gerenze che dal gennaio 1880 ebbe¬ro autonomia amministrativa ed operativa, mantenendo al vertice compiti di indirizzo strategico, di finanziamento del¬le amministrazioni autonome e di controllo dei risultati. Al¬l'introduzione delle gerenze di accompagnò una radicale mo¬difica della struttura commerciale dell'azienda. La riforma della società si proponeva di realizzare una maggiore specializzazione produttiva fra i vari stabilimenti. La divisione del lavoro era intesa sia per processo che per prodotto, indirizzo già indicato nel programma tecnico-com¬merciale del 1872. La ripartizione principale assegnava alla gerenza di Pioventi il pettinato, mentre a Schio e agli stabi¬limenti della Val Leogra era riservato il cardato. Ai vari sta¬bilimenti spettava lo sviluppo dei diversi prodotti. La Cen¬trale fece tuttavia fatica a collocare una produzione di ele¬vata qualità in un mercato orientato all'articolo a basso prez¬zo e al pettinato. Si introdusse pertanto la fabbricazione di tessuti misti lana-cotone e si perfezionò il mungo, misto co¬tone-lana rigenerata. Anche nel cardato si sviluppò la pro¬duzione fantasia attraverso l'introduzione del ricamato, di Produzione più economica rispetto a quella con il telaio 404 Jacquard. Nello stabilimento di Pieve, specializzato nella produzione di panni militari, a causa della diminuzione de¬gli ordini venne introdotta la fabbricazione dei panni civili, in parte misti-lana, e di coperte. Le richieste del mercato portarono queste gerenze a produrre articoli in concorren¬za tra loro, innescando una contrapposizione interna a tut¬to vantaggio dei concorrenti biellesi. La progressiva con-centrazione delle gerenze specializzate nel cardato sotto un'unica direzione, con i relativi risparmi dovuti allo snellimento dell'organizzazione e all'eliminazione dei reparti tecnologicamente più arretrati, permise di superare una si¬tuazione che aveva prodotto ingenti perdite. La gerenza di Piovene, sotto la guida di Gaetano Rossi, fu protagonista negli anni Ottanta di una forte crescita qualitativa e quantitativa in seguito all'aumento della do¬manda di tessuti pettinati. Il costo del pettinato pura lana, tuttavia, era troppo elevato per il modesto potere d'acqui¬sto dei ceti popolari. Quindi anche per il pettinato si abbas¬sarono la qualità media e il prezzo utilizzando orditi di co-tone o trama cardata. I nuovi tessuti erano tinti con colori vivaci e brillanti grazie ai nuovi coloranti chimici. Nel 1889 il Lanificio Rossi adottò la tintura in top pettinato, tappa evolutiva fondamentale del prodotto. La concorrenza fran¬cese rilanciò nuovamente la fantasia e l'operato con disegni a grandi rapporti. La maggior parte dei telai di Piovene era in grado di produrre solo piccoli motivi operati, per cui si procedette ad un rapido adeguamento di impianti median¬te l'acquisto di telai con meccaniche Jacquard per la produ¬zione fantasia ed operato. Riguardo alla specializzazione per processo, si ricollocarono più razionalmente alcune fasi della produzione, anche se la concentrazione dei cicli produttivi non venne completamente attuata né a Schio, né a Piovene. Lo stabilimento di Rocchette 1 era sovradimensionato per le esigenze del lanificio. Produce¬va, oltre ai filati pettinati destinati alla tessitura attigua (Rocchette 2), anche filati per vendita a terzi e per aguglieria e maglieria. La forte richiesta di tessuti pettinati impose nel 1887 l'abbandono della produzione per aguglieria, maglieria e tessi¬tura per terzi a favore dell'autoconsumo; si modificarono per 405 questo i filatoi per adattarli ai titoli più fini da tessitura. Nel 1888 iniziò la costruzione di una nuova tessitura (Rocchette 3), a causa della saturazione degli impianti esistenti. In questo edificio venne concentrata la tessitura, mentre lo spazio gua¬dagnato nei due stabili a valle permise di raddoppiare il nume¬ro di fusi per la filatura. La produzione di filati andava ad ali- mentare il Cotonificio Rossi di Vicenza. Nel 1889, allo scopo di rifornire la tessitura di Piovene dei cardati di cui aveva biso- gno per i panni misti, il Lanificio acquistò uno stabile nei pres¬si di Rocchette 2, già utilizzato come convitto operaie e cartie¬ra, e vi installò una piccola tessitura cardata con 3.060 fusi serviti da 60 operai. A cavallo tra Otto e Novecento, altre piccole manifatture vennero ad aggiungersi alla costellazione laniera altovicentina. Tra queste i prodromi della successiva filatura Ziche, sull'evo¬luzione dell'attività di tintore esercitata dai vari Leonardo e Valentino Ziche tra la prima e la seconda metà dell'Ottocen¬to. Nel 1902, il loro discendente Leonardo avviò a Zugliano Lina piccola industria di «sfilacciatura cenci» poi trasferita a Thiene. Qui continuò l'attività di tintoria ed apri magazzini di deposito per la materia prima e semilavorata, ponendo le premesse per il passaggio alla filatura cardata che sarebbe avvenuto nel 1926 in nuovi capannoni costruiti accanto ai magazzini di deposito e al reparto «sfilacciatura». Dopo essere cresciuto tra il 1876 e il 1885 da 10 a 12 unità, passando da 774 a 945 addetti, anche il cartario conti¬nuò a dimostrare negli anni Ottanta-Novanta capacità di tem¬pestiva innovazione di processo e di prodotto. Nell'innova¬zione di processo e di prodotto la cartiera di Lugo appariva ancora la più avanzata. Lungo l'Astico fra Piovene, Cogollo ed Arsiero, vi erano altre cinque cartiere che disponevano di due caldaie a vapore, cinque motori idraulici, 15 tini attivi per la fabbricazione a mano, due macchine continue, cinque sfibratrici e davano lavoro a 544 operai. Verso la fine del se¬colo, nel Vicentino, la macchina continua, oltre che a Lugo, era stata introdotta anche nella Cartiera Rossi di Arsiero e nell'antica cartiera di Dueville, che, ceduta ai Busnelli dalla famirlia Longo, continuava la sua plurisecolare attività. Nel¬la provincia operavano inoltre due cartiere a Valstagna con 406 52 operai ed una a Rossano Veneto con una ventina di occu¬pati (la successiva Cartiera Favini). Gli stabilimenti maggiori si dotarono delle macchine più avanzate e i loro prodotti, su uno spettro molto ampio di carte e cartoni, riuscirono ad imporsi sulla concorrenza straniera che, dopo l'apertura del Gottardo, si fece sentire da parte svizzera-tedesca soprattutto nella fabbricazione della pasta di legno. Su questa produzione le fabbriche nazionali scontavano i prezzi relativamente elevati del legno d'abete e dei prodotti chimici, nonché le maggiori spese per la necessaria importazione delle sfibratrici. La preparazione delle paste di legno si effettuava nella Cartiera Nodari di Lugo e nella Cartiera Rossi di Arsiero. La prima era cresciuta sotto la guida di Bernardino Nodari,direttore tecnico, mentre Andrea si occupava della contabilità e Antonio della parte commerciale. A cavallo degli anni Settanta lo stabilimento disponeva di tre motori idraulici con forza variante dai 150 ai 200 cv. Il motore più piccolo alimentava la macchina continua; gli altri due azionavano altri macchinari. Erano attivi tre cilindri sfilacciatoci, due macchi¬ne sbiancatrici ed una macchina per la levigatura. L'acqua dell'Astico azionava i macchinari grazie a tre turbine, mentre una pompa la distribuiva ai serbatoi dell'opificio. La lignite di Monte Pulli, nei pressi di Valdagno, veniva impiegata per l'asciugamento della pasta. Per nove mesi all'anno venivano utilizzati anche tre tini, con un decimo della capacità produtti¬va delle macchine. Gli impianti moderni erano tutti di fabbri¬cazione francese, belga e svizzera. All'epoca la cartiera impiegava circa 100 tonnellate di stracci bianchi, 200 di stracci brunelli, altrettante di stracci mori e 75 di pasta di legno all'anno. Gli stracci venivano raccolti in due magazzini, uno nel Veneto e l'altro nel Napoletano. Il costo del trasporto della materia prima era sensibilmente elevato: nel 1873 si pagavano 5 lire per trasportare un quintale di strac¬ci da Bari a Venezia e 3 lire da Venezia a Lugo. La pasta di legno veniva fornita da una fabbrica vicina ed era impiegata per produrre carta da giornali. A sua volta, la società operava anche come fornitore di materia prima alle fabbriche minori. Il caolino proveniva dalle cave di Tretto sopra Schio, salvo per le qualità superiori importate dall'Inghilterra. Venivano Poi 407 utilizzati cloruro, acido solforico e soda, colori, tele meccani¬che e feltri importati dall'estero. La parte maggiore della pro¬duzione era costituita da carta da giornali e impacchi (200 mila kg annui) smerciata sul territorio nazionale e in minima quan¬tità a Trieste. Seguiva la carta da cancelleria (70 mila kg annui) e con quantità naturalmente molto inferiori (30 mila kg cia¬scuna), la carta da protocolli e lettere e le carte a mano fini e mezzane. L'esportazione nei paesi vicini era ostacolata dalla forte concorrenza delle cartiere austriache. Intorno al 1870 gli impianti per la produzione sia di carta comune che di carta più fine si distribuivano sui due piani dello stabilimento. Gli occupati erano 200, con prevalente pre¬senza numerica della forza lavoro femminile: le donne erano infatti un ti centinaio, contro una settantina di uomini ed una trentina di fanciulli dai 10-11 anni in su. Il lavoro durava 12 ore al giorno, una media giornaliera superiore a quella di altre cartiere. La paga era sia ad ora che a cottimo. I giovani al di sotto dei 15 anni percepivano 0,50 lire al giorno, le donne dal¬le 0,50 alle 0,80 lire e fino ad una lira al giorno se lavoravano a contratto. Il salario degli uomini andava invece dalle 1,5 alle 2 lire al giorno fino ad un massimo di 3 a seconda delle specializzazioni. Mancando scuole in grado di garantire per¬sonale qualificato, anche il direttore dello stabilimento aveva dovuto acquisire la sua preparazione in Germania. L'esistenza di Bernardino Nodari fu bruscamente tron¬cata da una tragica fine: annegò il 19 gennaio 1894 nel canale della fabbrica presso la turbina. Dopo la traumatica morte del fondatore, i figli Bernardo e Camillo proseguirono l'ope¬ra paterna. Nel 1903 acquisirono dalle ditte Testolin e Bonaguro gli edifici da maglio e molini a Calvene, facendo sorgere al loro posto una centrale idroelettrica dotata di due turbine Francis della ditta Riva che sfruttavano un salto di 6,19 metri. L'impianto utilizzava le acque di scarico della se¬conda centrale del Cotonificio Rossi posta più a monte con¬vogliandole nella roggia che giungeva alla centrale di contrà Maglio. Tempestivo nell'innovazione di processo e di pro¬dotto, Bernardo Nodari, che dirigeva lo stabilimento, intro¬dusse anche la patinatura a mano della carta che in seguito sarebbe divenuta una specializzazione della cartiera Burgo. 408 Negli anni Novanta la cartiera più importante della pro¬vincia era divenuta quella di Arsiero. Nel decennio prece¬dente, nella produzione delle paste di legno primeggiava l'opi¬ficio di Pozzoleone che disponeva delle macchine più evolute con cui produceva le più ricercate paste a fibra lunga. Al¬l'epoca, quattro delle dodici cartiere della provincia erano dotate di macchine continue e utilizzavano il vapore. Il setto¬re occupava complessivamente un migliaio di persone. Nel cartario Alessandro Rossi non si limitò infatti ad in¬coraggiare e a far da modello all'iniziativa di Nodari. Attra¬verso il primogenito Francesco assunse anche un impegno diretto nello sviluppo del settore in una logica di diversificazione dell'attività imprenditoriale e dei ruoli fami¬liari. La comparsa della macchina continua nelle lavorazioni cartarie s'era accompagnata all'impiego del legno d'abete, di pino, faggio, pioppo, betulla ed eucalipto per ricavare la pa¬sta per carta. Al mezzo della valle dell'Astice, Arsiero offriva la possibilità di sfruttare una notevole energia idraulica ed il legname del vicino altopiano d'Asiago. Alcune sorgenti ben si prestavano, per le specifiche qualità dell'acqua, alla fabbri¬cazione di carta, cartoni e pasta legno. L'infrastrutturazione ferroviaria dell'Altovicentino, promossa dagli stessi Rossi tra gli anni Ottanta e il primo decennio del Novecento, ne avreb¬be ridotto anche l'isolamento geografico. Col boom delle anonime e con gli investimenti dei primi anni Settanta, il Rossi intravide nelle cartiere di Arsiero una profittevole iniziativa per la quale interessò Eugenio Canto¬ni, Antonio Baschiera, Eleonoro Pasini ed altri possibili soci, unitamente alla Banca industriale e commerciale ed al Credi¬to veneto. Acquisite le antiche cartiere ed altri edifici dalle ditte Giuseppe Barbieri, Michele Fontana, Giovanni Dalla Via, Cesare Nado, anche la composizione societaria andò via via definendosi tra alterne vicende. La cartiera, autorizzata con regio decreto 29 maggio 1873, sorse in località Perale di Arsiero sul luogo di un antico maglio da ferro, ma ebbe sede in Venezia. Al «pieno assetto» arrivò tra il 1874 e il 1875, una volta superate le difficoltà relative al primo impianto, all'or¬ganizzazione del personale dirigente e della manodopera, al¬l'avviamento tecnico e commerciale. Il capitale costitutivo 409 della società venne fissato in 3 milioni di lire. Nel consiglio di amministrazione, accanto al presidente Gustavo Koppel ed ai consiglieri Antonio Baschiera, Eugenio ed Angelo Canto¬ni, Eugenio Celomi, Augusto Cini, Arnoldo Levy, Eleonoro Pasini, Ignazio di Weil, Maurizio Weiss e Carlo Wirtz, man¬tenne un ruolo-chiave il vicepresidente Alessandro Rossi che preparò il terreno all'avvento nel '78 del figlio Francesco, con il quale la ditta conobbe una fase di riassetto tecnico e societario. Francesco Rossi impresse alla cartiera di Arsiero una decisa spinta innovativa, attestata anche dalla medaglia d'oro conseguita all'Esposizionedi Torino nel 1884. Negli anni Novanta, lo stabilimento di Perale produceva carta assortita e pasta legno utilizzando la forza motrice di 4 caldaie a vapo- re della forza di 440 cv per la bollitura degli stracci e l'asciugamento della carta, di 14 motori idraulici della po-tenza di 700 cv. La modernizzazione impiantistica era data dalle tre macchine continue per la carta e dalle cinque sfibratrici per la pasta legno. Gli operai erano saliti a circa 600. L'espansione degli insediamenti avvenne sul posto e nei paesi vicini. La cartiera operante da lungo tempo a Cogollo, in località Pria, venne acquistata nel 1893 dal Rossi che fece costruire il canale industriale e la centrale idroelettrica. La necessità di risorse idriche spinse a far incetta di magli e molini particolarmente numerosi nella valle. Ad Arsiero l'espansio- ne ebbe luogo attraverso l'acquisizione del maglio da rame di Giuseppe Barbieri, comprato per l'utilizzazione dell'ac¬qua nel '95 insieme ai molini di Giovanni e Antonio Dalla Via esistenti nella stessa località Pria. Altre acquisizioni rispecchiavano l'inevitabile cedimento delle cartiere a mano di fronte alla produzione meccanizzata. Nel 1910 anche la cartiera a mano di Cesare Nado operante in località Barco venne acquistata dalla ditta Rossi e trasformata in centrale idroelettrica. Nel 1905 la cartiera si trasformò in Società anonima Car- Rtiera Rossi con un capitale di 2,5 milioni di lire. Girolamo ossi divenne col fratello Alessandro consigliere delegato, incaricoche mantenne per sei anni trasferendosi nel capo- luogo lombardo dov'erano stati spostati gli uffici ammini 410 strativi. Con l'Anonima la cartiera tocco il massimo svilup¬po. Lo stabilimento si distribuì su 22 corpi di fabbrica desti¬nati alla produzione di carta, cartoni, pasta legno, a servizi, magazzini, officine per una superficie coperta complessiva di 17.875 mq. Il vasto stabilimento di Perale, ad Arsiero, era destinato alla fabbricazione delle mezzepaste di straccio, della pasta meccanica di legno, della carta e dei cartoni; quello di Pria di Cogollo alla produzione della pasta meccanica di le¬gno e dei cartoni vegetali. Alessandro Rossi superò un perio¬do di ristagno ed evitò riduzioni della manodopera dando un notevole impulso al rinnovamento tecnologico e selezionan¬do la produzione. Importò da Lipsia l'ultima generazione di macchine continue per carte sottili, utilizzò le nuove macchi- ne della De Pretto ed eliminò una serie di prodotti di minor qualità. Gli stabilimenti disponevano di sei macchine conti¬nue per la fabbricazione della carta, di otto macchine in ton- do per i cartoni e di otto sfibratoci per pastalegno meccanica. L'apparato energetico testimoniava lo sforzo compiuto per potenziare e combinare nei vari usi energia termica, idraulica ed elettrica. Il valore degli impianti era stimato intorno alle 800.000 lire, mentre il complesso del macchinario, dei moto¬ri e delle attrezzature installate negli stabilimenti superava i 2.300.000 lire. Le scelte di prodotto dei Rossi seppero combinare varie¬tà e qualità consolidando le quote di mercato interno ed in¬tensificando notevolmente il flusso delle esportazioni: 85.000 quintali di carta, 15.000 quintali di cartonie 24.000 quintali di pasta legno, pari ad un valore globale di circa 6 milioni di lire. La rete commerciale contava rappresentanze a Milano, Padova, Torino, Firenze, Roma, Napoli e, all'estero, a Lon¬dra, Manchester, Liverpool, Cairo, Alessandria, Tunisi, Costantinopoli, Salonicco, Smirne e Genova per il Sud Ame¬rica e le Indie. La clientela comprendeva più di 700 ditte. Anche l'occupazione aveva raggiunto il tetto di 900 operai e 50 impiegati, con un monte salari di 800.000 lire. La giornata lavorativa assorbiva dieci ore per il lavoro diurno, otto per quello continuo. Nell'Alto Vicentino, il primo sviluppo di un'industri3dí beni strumentali avvenne sull'indotto del Lanificio Rossi e 411 della Cartiera di Arsiero. Silvio De Pretto, il primo dei sette figli di Pietro, «perito architetto» presso il Comune, e di Angelica Boschetti, appartenente a un'antica e facoltosa fa¬miglia laniera imparentata con i nobili Priuli e, in parte, loro erede, diede vita negli anni Ottanta all'omonima fonderia-stabilimento meccanico, accostando alle iniziali riparazioni di telai per il lanificio la fabbricazione di macchine per car¬tiere e poi di turbine idrauliche. Egli aveva compiuto i propri studi presso il collegio Foscarini di Venezia e quindi a Pado- va, nel cui Ateneo si addottorò in Ingegneria presso la Facol¬tà di Matematica. Nella sua vicenda imprenditoriale sarebbe stato coadiuvato dai fratelli Alessandro (1850-1932), perito chimico, e Francesco (1851-1929), anche lui ingegnere, non¬ché dal più giovane Olinto (1857-1921), laureato in scienze agrarie a Milano, mentre Augusto (1855-1917) entrò a ventitre anni come ingegnere nel R. Corpo del Genio civile presso l'ufficio di Girgenti e fece poi una brillante carriera nel R. Ispettorato delle strade ferrate. Silvio De Pretto stette ad Ales¬sandro Rossi come la nascente industria meccanica di fine Ottocento stava alla grande impresa capitalistica rossiana al¬l'origine dell'iniziativa imprenditoriale dei De Pretto. Nel marzo 1871 fu assunto dal Rossi come ingegnere nel lanificio di Schio, dove lavorò fino al 1884, e nello stabilimento di Piovono-Rocchetto, dove progettò il tunnel elicoidale che metteva in comunicazione casa Rossi cono lo stabilimento di ponte Pilo. Progettò anche alcuni alloggi del «Nuovo quar¬tiere A. Rossi» di Schio e, con l'ingegnere belga Edgar Pergamena, le scuole elementari del lanificio. Il legame tra le famiglie De Pretto e Rossi si rafforzò con l'assunzione di Fran-cesco nella cartiera di Arsiero, di cui divenne titolare France¬sco Rossi. Grazie a tali rapporti e alle loro competenze, i De Pretto ebbero parte attiva nelle iniziative per lo sviluppo economi¬co ed infrastrutturale dell'Alto Vicentino, già a partire dagli anni Settanta e Ottanta dell'Ottocento. Della coniugazione tra competenze tecnico-progettuali ed impegno civile per lo sviluppo del territorio diedero ampie testimonianze sia Augusto che Olinto. Quest'ultimo, collocando l'annoso pro-blema dell'isolamento geografico di Schio nella più generale 412 questione delle comunicazioni interregionali e internaziona¬li, avanzò la proposta di un tracciato ferroviario che attraver¬sava la Val Leogra e la Vallarsa, con otto km di galleria, in grado di «accorciare il massimo possibile la distanza che se¬para Venezia dal Brennero, non solo in confronto dell'attua¬le linea per Verona-Ala, ma anche in confronto della linea già in parte costruita della Val Sugana» e «di offrire alle merci destinate al porto di Venezia una via più breve e nello stesso tempo anche più facile», quindi «suscettibile di un grande traffico»". Incoraggiato ancora una volta da Alessandro Rossi, nel 1884 Silvio De Pretto avviò con otto operai una fonderia meccanica in un vecchio mulino di 250 mq alle porte di Schio. L'edificio sorgeva lungo la Roggia, in prossimità delle linee ferroviarie che collegavano la città con Vicenza e con la Valle dell'Astico. Nacque così, con la partecipazione dei fratelli Francesco e Olinto, la società in accomandita semplice sotto la ragione Ing. Silvio De Pretto & C. Alle iniziali riparazioni di telai e macchine per il Lanificio Rossi si aggiunsero in bre¬ve altri prodotti: le turbine idrauliche, la cui produzione muoveva allora i primi passi, e le macchine per cartiere, sulla domanda dello stabilimento Rossi di Arsiero. Questo settore fu diretto per anni da Francesco De Pretto, il quale, consoli¬data l'attività, passò a dirigere la Cartoneria Prottí di Longarone, di proprietà del cognato, mantenendo la presen¬za societaria e la collaborazione all'impresa scledense. Un deciso spirito innovatore contraddistinse, fin dagli esordi, l'attività del fondatore. Impianti e operai specializzati furono fatti giungere da Milano, Genova, Bergamo e Treviso. Nel 1890 la fonderia-stabilimento meccanico Silvio De Pret¬to contava 65 dipendenti e fabbricava motori idraulici, tra-smissioni, impianti industriali, macchine per lanifici. La for¬za motrice era fornita da due motori, uno a vapore e uno idraulico, della forza complessiva di 30 cv. Le prime forniture di turbine Girard datano al 1892 e coprivano le esigenze del¬le centrali dalla valle dell'Agro a quella dell'Astico; ad esse si " O. De Pretto, La via più breve fra Venezia e il Brennero è la ferrovia Venezia-Schio-Rovereto, Schio, 1899, p. 4. 413 aggiunsero, successivamente, le turbine Herkules, Rapide, Francis, Pelton. La lista dei prodotti delle officine De Pretto si andò allungando: giunti a frizione (il primo brevetto scledense), epuratoci piani, nuove macchine per la fabbrica- zione di carta, cartoni, pasta legno. Lo stabilimento passò dai 250 mq coperti iniziali ai 3.000 mq sui 6.000 complessivi del 1900, mentre il numero degli operai raddoppiò in dieci anni, raggiungendo nel 1900 le 150 unità. Nel primo dopoguerra, il bisogno di un apporto di capitale fresco e di tecnologia d'avanguardia, indispensabili nello sforzo di rinnovamento postbellico, avrebbero condotto Silvio De Pretto. alla soffer¬ta decisione di associarsi con una delle più grandi società anonime d'Europa, la Escher Wyss. Nell'aprile 1920 nacque così la De Pretto - Escher Wyss, con sede sociale in Schio, validità dal gennaio precedente e durata stabilita a tutto il 1945. Il capitale sociale di 1.500.000 lire fu diviso in 1.500 azioni da mille lire l'una: in pagamento di 500 azioni, De Pret¬to conferì alla società lo stabilimento scledense. Delle restan¬ti 1.000, 680 andarono alla Escher Wyss e 320, suddivise in gruppi di poche decine, ad altre società. 1 Rossi e le loro imprese furono anche all'orígíne delle Industrie Saccardo, di cui s'è già detto, ed intervennero in prima persona pure nel settore tipografico, dove creativi come Paolo Marzari combinarono incoraggiamenti e finanziamenti di qualche esponente della famiglia con la domanda derivan¬te da un tessuto industriale e commerciale sempre più vivace e dalla modernizzazione della vita urbana. Gli impulsi di or¬dine generale allo sviluppo del settore tipografico erano evidenziati dai progressi tecnologici delle 19 stamperie, alcu¬ne delle quali avrebbero presto guadagnato posizioni di rilie¬vo in ambito nazionale. 10. La re-industrializzazione del capoluogo, il meccanico per l'agricoltura e le piccole industrie montane Mentre il rafforzamento delle maggiori imprese laniere e la nascita di nuove industrie consolidavano il distretto indu- striale altovicentino, sugli sviluppi degli altri settori nuovi 414

insediamenti si dislocavano verso la pianura e nel capoluogo provinciale più vicino alle grandi vie di comunicazione. Nel¬la campagna vicentina, a Cavazzale, lo stabilimento di filatu¬ra della canapa del Roi e la ferrovia anticiparono una rete insediativi che, con i successivi interventi di infrastrutturazione urbana e sociale, avrebbe definito i carat¬teri di uno dei più interessanti siti della prima industrializza¬zione veneta. Sempre in pianura si dilatarono gli stabilimenti del canapificio sorti in comune di Dueville e a Debba, alla periferia di Vicenza, per sfruttare l'ampia riserva di forza motrice. Nei tre stabilimenti del maggiore canapificio veneto lavorava un migliaio di operai attinti dalla larga riserva di manodopera contadina messa sul lastrico dalla caduta degli impieghi agricoli. All'ombra del protezionismo, il canapificio consolidò la sua posizione di punta nell'economia regionale. Nel frattempo Gaetano e Francesco Rossi trasferivano nel cotoniero l'esperienza acquisita nel laniero, inserendosi nel boom vissuto dal settore dopo l'introduzione del dazio protettivo per filati e tessuti di cotone nel 1878, ulteriormen¬te rincarato nell'87. Nel 1885, essi diedero vita al cotonificio vicentino che nel '91 disponeva di 520 telai, 400 dei quali destinati esclusivamente alla produzione di tessuti di cotone e 120 a quella di tessuti misti lana-cotone, con 360 operai. Problemi di alimentazione idrica e la consolidata politica della manodopera rurale condussero ad avviare uno stabilimento a Chiuppano e, nel 1912, a Lisiera. Il Cotonificio Rossi, mu¬nito fin dagli inizi di telai a doppio uso «e dotato già di una maestranza discretamente educata» sostenne anche l'incre¬mento produttivo delle tessiture di lana pettinata «Rocchette 1» e «Rocchette 2», gestite dallo stesso titolare. In questo periodo, l'industria dei laterizi seguì la forte spinta dell'edilizia. Nel 1885 erano attivi in provincia 38 sta¬bilimenti che occupavano 500 dipendenti circa. Spiccavano le Fornaci Trevisan, già attive sul posto dal 1843, ma svilup¬ patesia partire dal 1869-70 con l'introduzione, prime nel Veneto, del sistema Hoffmann per la cottura dei laterizi. Nel 1906 Pietro Trevisan aveva già consolidato la sua espansione con quattro impianti funzionanti, costituiti da tre fornaci a fuoco continuo e da uno stabilimento a vapore per 415 l'essiccazione dei laterizi, che impiegavano complessivamen¬te 500 operai 252. A Vicenza cominciò a svilupparsi nel frattempo anche un polo chimico di rilievo, che nell'ultimo decennio del secolo pose le premesse per la successiva affermazione su scala nazio¬nale e per gli importanti sviluppi veneti del periodo compreso tra la guerra e gli anni Venti. Anche le origini di questo settore si collegavano, oltre che all'agricoltura, al tessile e al cartario. Ad essi era infatti destinata la produzione di acido solforico, mentre agli usi agricoli e al mercato dei fertilizzanti chimici s'indirizzavano il solfato di rame e il perfosfato minerale. Sull'espansione di questi impieghi puntò fin dal 1885 il giovane Alessandro Cita col nuovo stabilimento di Santa Cro¬ce. La famiglia, di origine milanese, insediatasi a Vicenza al¬l'inizio del Settecento e qui affermatasi nell'attività serica e nel commercio, costituisce un altro, interessante caso di con¬tinuità imprenditoriale rilanciatasi sulla scorta delle esperienze gestionali del patrimonio familiare e delle iniziative del Co¬mizio agrario vicentino. L'azienda si ingrandì progressivamen¬te e, con la denominazione Società veneta concimi e prodotti chimici, si affermò in ambito veneto tra Otto e Novecento. Un anno prima di quella del Cita era sorta la Fabbrica di acidi e prodotti chimici di Magno Magni, il comasco di Canzo che concentrò l'iniziativa imprenditoriale a Vicenza e a Belluno, dove, sul finire del secolo, rilevò dallo Stato le mi¬niere di pirite della Val Imperina e dove in età giolittiana mantenne per due legislature il collegio di deputato al Parla¬mento. Il Magni, conservando a Vicenza il centro decisionale delle sue iniziative e stretti rapporti col Lampertico, col Fogazzaro e coi massimi interpreti del capitalismo agrario e del notabilato politico, incrementò rapidamente l'attività guadagnando in pochi anni una posizione di rilievo naziona¬le, di cui erano indice anche le moderne impostazioni di mer¬cato e pubblicitarie. In età giolittiana, la ditta era presente in tutto il Nord Italia con una rete commerciale che trovava il proprio punto di forza nelle cooperative e nei consorzi agrari di Iniziativa cattolica. SII, finire del XIX secolo e all'avvio del XX l'elemento nuovo più rilevante fu il salto qualitativo dell'industria chi 416 mica vicentina ai vertici nazionali del settore. A Campo Marzio, collegato al vicino scalo ferroviario, Magno Magni costruì un secondo grande stabilimento su uno spazio coperto di 23.000 mq che diede lavoro, nei mesi di massimo impiego, a 420 ope¬rai. La ditta, che già aveva clienti in tutta Italia e in particolare in ogni regione del Nord, cercò nuovi sbocchi in Italia e al- l'estero da affiancare ai consumatori di concimi artificiali e di sostanze chimiche impiegate nelle lavorazioni agro-industriali come la seta o la paglia. Il Magni ebbe inoltre parte, in accordo con la ditta L. Vogel di Milano, nel promuovere gli inizi del¬l'operazione Marghera, i cui albori progettuali rimontano al 1904 (nonostante la data ufficiale del 1917). A questa data venne infatti costruito a Mira uno stabilimento collegato via mare con l'Illiria e la Dalmazia che prefigurò l'ascesa del gruppo Volpi e della COMIT. Dello stesso segno furono anche talune iniziative di Alessandro Cita, quale presidente della sua Socie¬tà veneta concimi e prodotti, l'anonima che fra A 1897 e il 1898 procedette ad un aumento di capitale di tutto rilievo con l'in¬gresso dei «più grandi latifondisti e delle più alte personalità di Venezia» industriale. La domanda dettata dal progresso delle tecniche agrico¬le, il ruolo propulsore di strumenti organizzativi come i co¬mizi agrari e le cattedre ambulanti di agricoltura, il supporto offerto dal credito agrario al perfezionamento dei sistemi di coltivazione sostennero in diverse aree della provincia i pri¬mi embrioni di aziende meccaniche e metallurgiche destina¬te ad assumere peso qualitativo e quantitativo crescente. Si trattava, agli inizi, di una domanda agricola certo non parti¬colarmente sofisticata (sgranatoi, trebbiatrici a mano, pom¬pe enologiche, torchi e pigiatrici, molini da grano, trinciapaglia, attrezzature per caseifici ecc.), ma in ogni caso diversa dal passato e sulla via di quell'affinamento che la stessa industria meccanica favoriva. Così, mentre nel polo trainante altovicentino la nuova strut¬tura industriale si conformava alla domanda di sistemi sociali e produttivi più complessi, gli esordi della Laverda e della Pellizzari rispecchiavano il paesaggio agrario delle rispettive zone, con la preminenza dell'uva in collina e dei cereali nella pianura tra Marostica e Breganze, con la gelsibachicoltura, le 417 lavorazioni seriche, il granoturco e i foraggi della fertile zona tra il Chiampo e l'Agno-Guà. La Laverda di Breganze può essere considerata il modello di un rapporto agricoltura-indu¬stria che per la cerealicoltura si traduceva nelle trebbiatrici, nei trinciapaglia e sgranatoi e per la vitivinicoltura in svariate attrezzature per la lavorazione del vino. La storia dell'azienda ricalcò fin dall'inizio quella della meccanizzazione agricola. Pietro Laverda sulla propria voca¬zione alla meccanica costruì un'impresa che tramutò il radicamento nel mondo contadino in un prepotente fattore eli integrazione agricolo-industriale. I punti di forza erano all'inizio il lavoro e l'inventiva dell'imprenditore, che per ac¬cumulare utilizzò ogni tipo di espediente. Ben presto, tutta¬via, il tessuto di relazioni intrecciato dal Laverda permise al¬l'azienda di Breganze di allargare il proprio raggio d'azione prima a livello regionale, poi a quello nazionale. Il deposito del comizio agrario di Vicenza assorbì i primi prodotti acco¬standoli alle macchine più evolute. Personaggi assai influenti come Guido Piovene, Bortolo Clementi, Fedele Lampertico costituirono il più importante segmento di relazioni che il giovane Pietro Laverda sviluppò con la componente impren¬ditoriale agraria ed industriale più dinamica ed illuminata, nonchè con i circuiti della classe dirigente. Questa rete di rapporti trovò fin dagli inizi un'efficacissi¬mo moltiplicatore nei fratelli monsignori Scotton, che ebbe¬ro parte anche nella nascita dello stabilimento a Breganze, nel 1884. Gli stretti collegamenti con i notissimi dirigenti dell'intransigentismo cattolico saldarono assai efficacemente le già solide credenziali presso l'oligarchia moderata col trai¬no del populismo clericale. Gli interventi di monsignor An¬drea Scotton e del consorzio agrario di Arzignano assicura- rono il successo alla fabbricazione dei cannoni antigrandine, che a cavaliere del secolo procurarono al Laverda una stagio¬ne di alti profitti impiegati nel salto dimensionale e qualitativo avvenuto in concomitanza al nuovo rapporto con la Federconsorzi. Fu questo l'elemento decisivo per il decollo della Laverda, per l'ulteriore rafforzamento della sua presen¬za su scala regionale e, più avanti, per la sua affermazione come impresa leader sul piano nazionale. 418 Sulla domanda agricola e dell'industria di trasformazio¬ne dei prodotti del suolo (macchine agricole, molini da gra¬no, essiccatoi) nacque anche la Pellizzari, che arrivò alla fine dell'età giolittiana con un completo assetto industriale, un indirizzo di produzione specializzato ed una buona organiz¬zazione tecnica e commerciale. Per la personalità del fonda¬tore, quest'industria meccanica ed elettromeccanica prefigurò fin dagli inizi, uno dei casi più interessanti di percorso dal laboratorio artigianale alla grande impresa affermata in Italia e all'estero. Nel suo insieme, tuttavia, all'inizio del secolo il settore metalmeccanico vicentino risentiva fortemente dei vincoli dati dalla necessità dell'importazione del carbone e di quasi tutte le materie prime. La ditta Geisler di Vicenza, che compren¬deva una fonderia e un'officina per la produzione di caldaie a vapore, di pompe e di altre attrezzature, aveva raggiunto la maggiore consistenza. Nel 1876 a Vicenza, sarà uno svedese, Tobia Geisler, ad installare uno stabilimento per la costru¬zione di macchine a vapore e macchine per le filande e muli¬ni. Nulla di confrontabile con quest'azienda da un centinaio di dipendenti si poteva trovare nel resto della provincia ma altre piccole aziende meccaniche si segnalavano a Marano Vicentino (mulini e impianti idraulici), a Montecchio Precalcino, Perlena, Arzignano per le riparazioni di strumenti e macchine agricole. La piccola impresa non è, tuttavia, ne¬cessariamente sinonimo di debolezza, neppure in quest'epo¬ca. Sul futuro della piccola impresa, una lucida analisi di Fe-dele Lampertico, risalente al 1876, metteva in primo piano la questione energetica: Il risultato definitivo della lotta pende ancora incerto, e non può essere che la conseguenza della soluzione di un problema che è ora l'oggetto di studio grande, il problema della trasmissione eco- nomica della forza a grandi distanze, e della creazione dei piccoli motori. Frazionandosi la forza di un grande motore centrale in un gran numero di piccole forze trasmesse nelle modeste officine, che costituiscono la piccola industria, si ottiene che essa può economi¬camente valersene, e la si affranca dall'attrazione esercitata dai grandi centri di lavoro I. Certamente l'industria in grande si sostituì e si sostituisce, soprattutto per le arti tessili e metallurgiche, alla pic 419 cola industria. Però assolutamente erroneo sarebbe il credere che questa debba essere soppiantata in ogni arte, ovvero che occupan¬do essa un campo dapprima esercitato dai mestieri, nella zona che rimane loro non contribuisca anzi ad accrescerli [...1. Forse anche troverannosi essi medesimi provveduti da fabbriche, ma abbiso¬pano d'altri mestieri per mettere in opera gli articoli che ne rice¬vono adattarli, aggiustarli, accomodarli 1 sebbene non possa assolutamente un'industria oggi S010tamente stabilirsi, rsi, che un'industria esercitata ogg per via di mestiere non diventi, col tempo, una grande industria, e che in un paese non raccolgansi nella fabbrica industrie altrove sparse nelle officine, anche nel sistema industriale odierno lapiccola industria, studiando pure di perfezionarsi e di provvedersi essa medesima di strumenti meccanici, conserverà però il suo posto". Tipica espressione della piccola industria erano in pro¬vincia i magli a ruote d'acqua, nonché le chioderie di Posina e le coltellerie del Tretto sopra Schio, che mantenevano un certo giro d'affari. Negli anni '70, il Vicentino, contava una quindicina di impianti per la lavorazione del ferro, dando lavoro a 650 uomini e 50 fanciulli, oltre a 5 piccole industrie che con 30 uomini e 10 ragazzi, lavoravano il rame. In parti¬colare, nel 1874, esistevano tra Arsiero, Forni, Lastebasse e Posina 42 molini, 13 magli, 7 segherie, oltre a 4 cartiere, una macina a Sommaco ed un centinaio di officine da chioderia. Vale la pena soffermarsi su questa lavorazione, che nel Bassanese risaliva al Cinquecento, ma che dal XIX secolo si affermò decisamente lungo la valle del Posina, in particolare a Fusine. Il motivo fondamentale per cui si assistette a que¬sto sviluppo fu l'aumento della domanda di un particolare tipo di chiodi: le bullette utilizzate dai calzolai per fissare le suole. Tale domanda proveniva in particolare dall'esercito italiano, per i suoi scarponi. Le officine di chioderia consiste¬vano in piccoli locali di appena una ventina di metri quadri, per tre metri di altezza, in cui l'attrezzatura, ridotta al mini¬mo, includeva una piccola fucina, senza cappa, un incudine e poi martelli, tenaglie, un bancone da lavoro e la cioàra, vale a dire lo stampo in acciaio in cui battere i chiodi da forgiare. F. Lampertico, Economia dei popoli e degli Stati, vol. II, Il lavoro, Milano, 1876, pp. 232-235. 420 Strade e ferrovie avrebbero dovuto sottrarre i Sette Co¬muni all'isolamento geografico ed aprire una fase nuova nel sistema di relazioni col pedemonte e con la pianura. L'altopiano era terra di confine con l'Austria ed interscambiava col piano una molteplicità di prodotti che dovevano ancora transitare sull'antica rete di strade, mulattiere e sentieri fra boschi d'abete, larice e faggio. Erano gli antichi tratturi della transumanza e dei traffici di lana che alimentarono lo sviluppo dei lanifici del pedemonte; i per¬corsi che dal piano salivano ai pascoli delle malghe, dalle quali poi il formaggio lavorato ridiscendeva a dorso di mulo fino a Castrano; la strada della Val d'Arsa e i cinque sentieri dell'al¬ta Val d'Artico che vedevano transitare gran parte del legna¬me dei Sette Comuni per le segherie di Arsero, mentre quel- lo delle pendici meridionali affluiva alle segherie della Rozzola, vicino al Cotonificio Rossi di Chiappano, dove nel primo Novecento giungevano anche i marmi dell'altopiano. I Sette Comuni erano terra di part-time agricolo-artigia¬nale e di pluriattività, il luogo dove da sempre si viveva di prodotti del campo e silvo-pastorali: fieno, orzo, avena, sega¬le e specialmente patate; lino, canapa, tabacco, legname da carbone e da lavoro e soprattutto allevamento. In primo luo¬go ovini, ma anche caprini, bovini, equini, suini. I corsi d'ac¬qua erano quasi inesistenti. Nel primo Ottocento – aveva in¬formato il Maccà – un «fiumicello» che poi si perdeva nelle viscere della terra ad Asiago, bastava a girare quattro ruote di mulino, tre segherie, quattro pestaorzo e quattro pestascorze di pino per le concerie di Gallio. In un'economia di sussistenza, dove i terreni davano da vivere per 3-4 mesi, ci si affidava per il resto dell'anno alle greggi e al piccolo artigianato. Agostino Dal Pozzo calcolò in circa 200.000 capi il patrimonio ovino dei Sette Comuni nel secondo Settecen¬to. Per varie e complesse ragioni alla metà dell'Ottocento pecore e capre erano ridotte a 35.000 e alla fine del secolo erano circa 27.000, aprendo la via alla sostituzione con i bo¬vini e allo sviluppo della lavorazione casearia. Nel periodo, l'impoverimento ovino si sommò al frazionamento terriero e al depauperamento forestale nel determinare un forte degra¬do economico. 421 L'economia dell'altopiano si reggeva dunque sullo scam¬bio di produzioni locali con prodotti alimentari e strumenta¬li della sottostante pianura, integrata dall'artigianato del le¬gno, del ferro, della paglia e dall'apporto dato dall'emigra¬zione stagionale degli uomini, in assenza dei quali erano le donne, i ragazzi e gli anziani che accudivano il bestiame ed eseguivano i lavori di falciatura e di fienagione. Le aziende agricole presentavano una superficie ridotta e, dato il siste¬ma di successione, erano spesso costituite da appezzamenti situati in zone diverse. L'esasperato frazionamento della pro¬prietà fu una delle ragioni fondamentali della decadenza agri¬cola. Lo stesso grande patrimonio boschivo fu prima ridotto per lo sfruttamento sconsiderato e per l'incontrollato aumento delle superfici coltivate a seminativi, orti e pascoli; poi avreb¬be subito le enormi distruzioni della prima guerra mondiale. Le attività silvo-pastorali si complentarizzavano con un artigianato capillarmente diffuso che nella prima metà del¬l'Ottocento comprendeva manifatture di cappelli di paglia, piccole concerie, fabbriche di «salami per Venezia». Nel tes¬sile si producevano filati per Schio e tiene, tessuti di lana, lini e telerie. Vicenza assorbiva gran parte degli articoli in legno. E c'erano cave di marmo e di gesso. Nel 1859 la camera di commercio rilevò in Asiago e nel distretto 289 imprese tra artigianato e terziario. L'appena costituito Club alpino italiano vicentino mise in atto notevoli sforzi per sollecitare lo sviluppo di piccole imprese artigiane nelle aree montane della provincia, ma a fine Ottocento le tradizionali attività subivano sempre più Pesantemente i colpi della concorrenza delle grandi industrie del piano. Lo sviluppo del pettinato e della pecora merina australiana facevano ulteriormente declinare le lane ordina¬rie dei Sette Comuni e, con esse, le greggi. Ancora fiorenti, soprattutto a Lusitana e Conco, erano sul finire del secolo la lavorazione delle trecce e la produzione di cappelli di paglia, appositamente coltivata a Gallio, Roana e Conco. All'inizio del Novecento risultavano occupate circa 4.000 persone. La tessitura di canapa, lino e mezze lane era diffusa in ogni caso¬lare con 150 telai registrati in esercizio, ma si trattava di pro¬duzioni destinate esclusivamente agli usi domestici. Le rela

422 zioni camerali e le monografie ministeriali dell'epoca riporta¬vano anche due officine meccaniche per la fabbricazione di attrezzi rurali ad Enego, una a Gallio per la produzione di coltelli, una tipografia, nove concerie che occupavano una ses¬santina di dipendenti lavorando pelli nostrane prevalentemente ovine. Con la progressiva riduzione delle greggi, però, anche queste modeste concerie conobbero un parallelo declino. Resisteva l'artigianato del legno che vedeva occupate cir¬ca 400 persone. Si fabbricavano secchie, mastelli, botticelle, mulinelli da filare, rastrelli, gioghi, scale fino a 26 diverse categorie di oggetti. Due terzi degli operai lavoravano esclu¬sivamente durante l'inverno e solo un terzo tutto l'anno. Si distingueva l'industria per la fabbricazione delle scatole, dove trovava lavoro un centinaio di persone: «l'avvenire – rilevava il Brentari – è tutto per le industrie piccole e grandi di questo distretto così ricco di materia prima». Nel 1909 venne orga¬nizzata ad Asiago una fortunata Esposizione regionale per la valorizzazione dei prodotti silvo-pastorali, del legno e del marmo, ma l'iniziativa rimase senza seguito. Solo alcune azien¬de sarebbero riuscite ad acquisire a molta distanza di tempo una certa dimensione e livelli accettabili di competitività. La maggioranza cedette alla concorrenza delle imprese dell'area pedemontana e di pianura o venne travolta dai tragici eventi del primo conflitto mondiale. Forse avvertendo il peso d'aver in qualche modo concor¬so con le proprie grandi industrie all'impoverimento della terra d'origine ed intendendo metterne a profitto le risorse, i Rossi si adoperarono in varie maniere per sottrarre dall'iso¬lamento l'Altopiano dei Sette Comuni e per iniettarvi germi di sviluppo. Negli anni Ottanta, sull'onda delle Note Alpine del Busnelli a margine delle «escursioni estive» Schio-Asiago e della traduzione del Riggenbach, essi misero in evidenza che la ferrovia sarebbe stata «una vera fortuna per l'Altopiano, al quale recherà incredibili risorse [...1 agevolando l'accesso a migliaia di forestieri che guardano a quel luogo come a un'oasi beata di delizie e di salute nella stagione estiva». Fece loro eco nello stesso anno il Brentari nella sua Guida storico-alpina di Bassano e Sette Comuni: «Asiago come tutti i Sette Comuni è destinato a diventare stazione climatica estiva 423 frequentatissima dai forestieri, ai quali questi montani paesi possono offrire la loro aria balsamica, i boschi profumati, le verdi praterie». Il Brentari intravedeva quanto i Rossi un futuro turistico per la montagna vicentina, una prospettiva che, dopo il ridi¬mensionamento dell'agricoltura e dell'artigianato doveva in¬tegrare in forme moderne l'economia dell'altopiano con quella della pianura. Nel 1876-84 il Rossi costruì a 1.600 metri s.l.m., ai margini di un grande bosco presso Asiago sulla strada per Gallio, un'elegante villa stile chalet della Savoia, capace di ospitare una sessantina di persone. Ville, chalet, alberghi e stabilimenti si moltiplicarono negli anni successivi come se¬gno del nascente turismo. Erano gli anni in cui la villeggiatu¬ra di montagna s'affermava tra la borghesia produttiva e del¬le professioni. i L Tra vecchie e nuove specializzazioni territoriali Tra Otto e Novecento, si fecero avanti nuovi imprendito¬ri, si irrobustiscono le vecchie aziende e l'industria acquisì un'intelaiatura destinata a riproporre alcuni suoi caratteri di fondo per tutto il Novecento. Imprese familiari si potenzia¬rono, acquisirono altre ditte, diedero avvio a ristrutturazioni e adeguamenti che preparavano sempre più frequenti pas¬saggi all'anonima. Era un processo di modernizzazione, che investiva con radicali cambiamenti aree di attività tradizio¬nali, come il conciario o l'estrazione del caolino, e di «ibridazione» fra le risorse materiali ed umane locali e quelle esterne, con la nuova funzione del credito, delle banche po¬polari e di quelle «miste». Nel secondo Ottocento, con la moltiplicazione delle pos¬sibilità di incontrare la domanda grazie alle mostre nazionali ed internazionali, dall'humus non mai disperso del polo bassanese «riemerse» anche l'antica arte della ceramica con un graduale recupero delle precedenti produzioni di qualità. 1,1 una statistica del 1884 ricomparve la classificazione «cera¬miche artistiche», ovvero ceramiche modellate secondo i det¬tami della ceramica settecentesca che si affiancò a quella po 424

Popolazione e situazione politica nell'Ottocento[modifica | modifica wikitesto]

Emigrazione[modifica | modifica wikitesto]

Agricoltura[modifica | modifica wikitesto]

Allevamento[modifica | modifica wikitesto]

Attività estrattive e minerarie[modifica | modifica wikitesto]

Attività manifatturiere[modifica | modifica wikitesto]

Novecento[modifica | modifica wikitesto]

Note[modifica | modifica wikitesto]

  1. ^ a b Varanini, 1988,  pp. 217-232
  2. ^ Demo (2), 2004, p. 26
  3. ^ Demo (2), 2004, p. 23
  4. ^ Varanini, 1988,  pp. 233-234
  5. ^ G.B. Zanazzo, L'arte della lana in Vicenza nei secoli XIII-XV, Venezia 1914 e Mantese, 2002,  III/2, pp. 622-23 citati da Mometto, 1989, p. 3
  6. ^ Demo (2), 2004, pp. 74-75
  7. ^ Demo (1), 2004, pp. 151-52
  8. ^ Testimonianze parlano di peste a Vicenza negli anni 1347-48, 1370-73, 1387, 1400, 1404, 1428, 1432-38, 1447, 1456, 1485, 1505, 1527-29, 1559-62, 1576-77 e infine l'ultima, quella del 1630-31: Demo (1), 2004, p. 152
  9. ^ Mometto, 1989, p. 15
  10. ^ Mometto, 1989,  pp. 8-9, 12-15
  11. ^ Demo (1), 2004, p. 154
  12. ^ Demo (1), 2004, pp. 155-56
  13. ^ Biblioteca Civica Bertolliana Arc. T., b. 866, 7 settembre 1590, c. 18
  14. ^ Mometto, 1989, pp. 16-17
  15. ^ Demo (1), 2004, pp. 158-59
  16. ^ Demo (1), 2004, p. 157
  17. ^ Demo (1), 2004, p. 157
  18. ^ Vere e proprie piccole città come Schio, Thiene, Marostica, Bassano, Valdagno e Arzignano
  19. ^ Demo (2), 2004, p. 21
  20. ^ Demo (2), 2004, pp. 103-04
  21. ^ Panciera, 2004, pp. 231-33
  22. ^ Panciera, 2004, p. 233
  23. ^ Panciera, 2004, pp. 234-35
  24. ^ Panciera, 2004, pp. 236-37
  25. ^ Panciera, 2004, pp. 238
  26. ^ Demo (2), 2004, pp. 26-30
  27. ^ Valmarana, Loschi, Porto, Thiene, Verlati, Pagliarini, Trissino, Braschi, Capra, Godi, Orgiano, Poiana, Volpe e altri; spesso furono soci degli imprenditori lanieri anche quelli attivi nel settore della seta, come i Magrè, i Provinciali, gli Arnaldi e i Portanova, così come notai, dottori in legge e altri esponenti dell'élite cittadina, che nei lanifici facevano fruttare i propri capitali. Demo (2), 2004, p. 38
  28. ^ Demo (2), 2004, pp. 32-33
  29. ^ Demo (2), 2004, pp. 34-36
  30. ^ Gli spazi contigui alla Piazza Maggiore (oggi Piazza dei Signori, Piazza delle biade e Piazza delle erbe), botteghe di proprietà di alcune delle principali famiglie cittadine: Arnaldi, Crivellari, Fiocardi, Garzadori, Provinciali, Angiolelli, Magrè
  31. ^ Demo (2), 2004, pp. 39-50
  32. ^ Demo (2), 2004, pp. 25-31
  33. ^ Panciera, 2004, pp. 254-57
  34. ^ Panciera, 2004, p. 258
  35. ^ Panciera, 2004, pp. 258-65
  36. ^ Demo (2), 2004, pp. 51-52
  37. ^ Demo (2), 2004, pp. 53-61
  38. ^ Panciera, 2004, p. 265
  39. ^ Demo (2), 2004, p. 63
  40. ^ In questa zona della città si trovavano molti macchinari utilizzati per la gualcatura dei panni, la molitura, la lavorazione della carta, del vetro, dei metalli e del legname
  41. ^ Demo (2), 2004, pp. 64-73
  42. ^ Demo (2), 2004, pp. 77-81
  43. ^ Demo (2), 2004, pp. 83-85
  44. ^ Panciera, 2004, pp. 246-50
  45. ^ Demo (2), 2004, pp.86-91
  46. ^ Demo (2), 2004, pp. 91-97
  47. ^ Demo (2), 2004, pp. 98-100
  48. ^ Demo (2), 2004, pp. 100-01

Bibliografia[modifica | modifica wikitesto]

Testi utilizzati
  • Salvatore Ciriacono, Le trasformazioni economiche dal 1650 all'unificazione, in Storia del Veneto, Vol. 2: Dal Seicento a oggi, Bari, Laterza, 2004.
  • Giancarlo Corò, I sistemi produttivi locali degli anni settanta al Duemila: tra crescita estensiva e percorsi per l'innovazione, in L'industria vicentina dal Medioevo ad oggi, vol. 2° di Storia dell'economia vicentina (a cura di Giovanni Luigi Fontana), Vicenza, Cleup, 2004.
  • Edoardo Demo (1), Popolazione e vita materiale, in Storia del Veneto, Vol. 1: Dalle origini al Seicento, Bari, Laterza, 2004.
  • Edoardo Demo (2), Le manifattura tra Medioevo ed età moderna, in L'industria vicentina dal Medioevo ad oggi, vol. 2° di Storia dell'economia vicentina (a cura di Giovanni Luigi Fontana), Vicenza, Cleup, 2004.
  • Giovanni Luigi Fontana, Lo sviluppo economico dall'Unità a oggi, in Storia del Veneto, Vol. 2: Dal Seicento a oggi, Bari, Laterza, 2004.
  • Giovanni Luigi Fontana, Imprenditori, imprese e territorio dalla prima alla seconda rivoluzione industriale, in L'industria vicentina dal Medioevo ad oggi, vol. 2° di Storia dell'economia vicentina (a cura di Giovanni Luigi Fontana), Vicenza, Cleup, 2004.
  • Carlo Fumian, Miti e realtà del Nordest, in Storia del Veneto, Vol. 2: Dal Seicento a oggi, Bari, Laterza, 2004.
  • Michael Knapton, La terraferma, in Storia del Veneto, Vol. 1: Dalle origini al Seicento, Bari, Laterza, 2004.
  • Antonio Lazzarini, Emigrazione e società, in Storia del Veneto, Vol. 2: Dal Seicento a oggi, Bari, Laterza, 2004.
  • Giovanni Mometto, Per una storia della popolazione in età moderna, in Storia di Vicenza, III/1, L'Età della Repubblica Veneta, Vicenza, Neri Pozza editore, 1989.
  • Mariano Nardello, La società vicentina dall'annessione del Veneto alla prima guerra mondiale, in Storia di Vicenza, IV/1, L'Età contemporanea, Vicenza, Neri Pozza editore, 1991.
  • Walter Panciera, La formazione delle specializzazioni economiche territoriali nel Sei e Settecento, in L'industria vicentina dal Medioevo ad oggi, vol. 2° di Storia dell'economia vicentina (a cura di Giovanni Luigi Fontana), Vicenza, Cleup, 2004.
  • Giorgio Roverato, L'industria vicentina nel Novecento, in L'industria vicentina dal Medioevo ad oggi, vol. 2° di Storia dell'economia vicentina (a cura di Giovanni Luigi Fontana), Vicenza, Cleup, 2004.
  • Ermenegildo Reato, La liquidazione dell'asse ecclesiastico a Vicenza (1866-1968), in Storia di Vicenza, IV/1, L'Età contemporanea, Vicenza, Neri Pozza editore, 1991.
  • Ermenegildo Reato, I cattolici vicentini dall'opposizione al governo (1866-67), in Storia di Vicenza, IV/1, L'Età contemporanea, Vicenza, Neri Pozza editore, 1991.
  • Ermenegildo Reato, Pensiero e azione sociale dei cattolici vicentini e veneti dalla Rerum Novarum al fascismo (1891-1922), Vicenza, Edizioni Nuovo Progetto - Tip. ISG, 1991.
  • Raffaello Vergani, Popolazione e vita materiale, in Storia del Veneto, Vol. 1: Dalle origini al Seicento, Bari, Laterza, 2004.
Per approfondire

Voci correlate[modifica | modifica wikitesto]

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