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Caratteri
Titolo originaleΧαρακτῆρες
AutoreTeofrasto
1ª ed. originalefine del IV secolo a.C.
Genereχαρακτηρισμός
Lingua originalegreco antico
AmbientazioneAtene

I Caratteri (in greco antico: Χαρακτῆρες?, Charactēres) sono un'opera di Teofrasto, la cui data di composizione ci è ignota, seppur essa sia ascrivibile con ogni probabilità alla fine del IV secolo a.C. Rappresentano il primo esempio di χαρακτηρισμός (charactērismòs).

Definizione della parola Caratteri in greco

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Platone ricorda nelle Leggi cosa sia il "carattere" nel significato etimologico della parola greca "χαρακτήρ", ovvero "marchio", o meglio, "conio".[1]. L'idea stessa di « carattere » venne fondata da Aristotele e da lui illustrata nel libro II della Retorica[2], ma soprattutto nel Libro IV dell’Etica Nicomachea[3] con il famoso ritratto del Magnanimo. Oltre ai ritratti del Carattere VII (Garrulità) e del Carattere IX (Sfacciataggine) abbiamo una definizione identica a quella data da Pseudo-Platone nelle Definizioni, come quelle dell’Ipocrita (Carattere I) e del Chiacchierone (Carattere II) sono tratte da due Etiche di Aristotele, l’Etica Nicomachea e l’Etica Eudemia.

Teofrasto sembra esser stato ispirato dalle lettere dei suoi condiscepoli: Dicearco, per esempio, parla in uno scritto all'indirizzo della città di Oropo, i cui abitanti commettono rapine, dell'ostentazione dei Plateesi, dello spirito di contraddizione dei Tespiesi, dell'ossequiosità degli abitanti di Coronea o ancora della stupidità degli abitanti di Aliarto.[4]

Per lungo tempo gli unici capitoli dei Caratteri conosciuti sono stati solo ventotto. L’edizione principe fu pubblicata nel 1527 a Norimberga, accompagnata da una traduzione in latino; questa non conteneva che i primi cinque capitoli. Nel 1552, a Venezia, venne realizzata un’edizione più completa con ventitré Caratteri. Nel 1592, l'edizione di Casaubon conteneva sempre 23 Caratteri, ma una seconda edizione, del 1599, ne presentava ulteriori cinque; questa fu l’edizione che conobbe La Bruyère.

Era noto che il libro doveva contenere trenta capitoli, ma ne rimanevano sempre due mancanti. Nel 1786 fu stampata a Parma un'edizione completa, basata su un manoscritto conservato presso la Biblioteca apostolica vaticana, il Vaticanus 110, che non solo riportava il ventinovesimo e il trentesimo capitolo, ovvero i due mancanti, ma completava elegantemente gli altri ritratti già presenti.

Le ambiguità

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La natura esatta dell'opuscolo di Teofrasto rimane oscura. Esso di compone di trenta schizzi di cui non sappiamo definire l'effettivo genere letterario. Non si può definire se si tratti di analisi estratte da un trattato morale o di un prestito dal trattato Sulla commedia che Diogene Laerzio cita nel catalogo delle opere di Teofrasto. Il genere letterario al quale appartiene un'opera simile non può fare a meno di intrigare i commentatori: nel XVII secolo Isaac Casaubon, editore dell'opera, lo presentò come «un genere intermedio tra gli scritti dei filosofi e quelli dei poeti» e vi vide «un nuovo modo di istruire». Nel 1929, Paul Van de Woestyne (1905 - †1963), professore di latino all’Università di Gand, vi riconobbe una raccolta di tipi comici realizzata da Teofrasto antecedentemente agli scritti dei poeti comici greci per servire ai suoi studi sulla commedia, e pubblicato come ὑπομνήματα ("hypomnémata"), vale a dire come appunti o note. Questa maniera di abbozzare i ritratti ha conosciuto un successo certo: all'incirca un secolo dopo Teofrasto, Aristone di Ceo compose una serie di ritratti conosciuti sotto il nome di Χαρακτηρισμοί ("Charaktērismói"), esattamente ricalcati sul modello di quelli di Teofrasto; è certo che l'opuscolo non sia stato pubblicato dall'autore nella forma in cui lo conosciamo oggi, e senza dubbio non costituiva un lavoro finito.

A parere di Giorgio Pasquali, filologo classico vissuto nel Novecento, I Caratteri ci sarebbero pervenuti inficiati dall'aggiunta, da parte di un autore sconosciuto, di una prefazione, che per il suo stesso modo di presentarsi si dimostra fasulla: fingendosi l'autore originale, egli dice di avere 99 anni, e si rivolge a un amico, Policle, parlando del libro come di un catalogo di esempi di vizi e virtù, realizzato affinché i loro figli possano scegliere le vie migliori da percorrere [5] Ma Teofrasto non descrive mai virtù nei suoi trenta caratteri, né costruisce un impianto che miri a un insegnamento etico, anzi costituisce un "corso di etica descrittiva"[6] Un altro elemento di discrepanza interna tra il testo originale e quello rivisitato è costituito dalla presenza di definizioni accurate e rielaborate all'inizio di ogni aneddoto, segno che alla base della produzione stava un fine di tipo chiaramente dottrinale, e quindi lontano dalle conclusioni affrettate e maldestre aggiunte successivamente, le quali spesso giudicavano sdegnosamente o con forte biasimo i difetti dei personaggi originali [7] Lontano dall'ironia quasi bonaria di Teofrasto, che non prendeva mai con troppa serietà le figure presentate e dunque non assumeva mai posizioni troppo critiche nei loro confronti, si rivela estremamente incongruente rispetto al testo del filosofo di Lesbo [8] Inoltre alcuni rilevanti spropositi nella lingua, che il falsario tentò di usare ma senza effetto, dato che per lo meno essa avrebbe dovuto coincidere con quella di Teofrasto, lasciano intendere che si trattasse di un autore finto lontano secoli dall'originale, probabilmente vissuto negli ultimi anni dell'Impero, o Bizantino [9]

L'autore studia dei tipi morali permanenti, non dei personaggi individuali, e lo fa per mezzo di ritratti che costituiscono degli abbozzi morali sotto forma di analisi psicologiche metodiche. La composizione di questi ritratti è uniforme, segue un modello sempre uguale: una breve definizione accurata, assieme ad una enumerazione dei segni concreti del carattere, ovvero le azioni, i gesti e le parole. La forma è sempre sobria e il tono discretamente ironico, contenuto. Il testo si presenta semplice e curato, privo di artifici letterari o aggiunte non strettamente funzionali all'opera, e con lo stretto necessario l'autore giostra con i particolari e le caratteristiche dei personaggi, proponendo spesso scene di una comicità dalle vesti semplici e dai modi spediti, senza scrupoli e molto sincera, che tuttavia denota come Teofrasto fosse profondamente legato e interessato alla pura realtà della piazza, del mercato e delle persone che vi vedeva, e particolarmente attento a come nella sua Atene ora un mercante, ora un borghese, ora un frequentatore dell'osteria fossero, avendoli studiati con curiosità.[10] Risulta impossibile risalire con esattezza al piano generale dell'opera originale, se non altro poiché l'ordine dei paragrafi è stato cambiato fin dall'antichità.

Questo è l'ordine fissato nel 1993 dal traduttore J. Rusten per l’Università di Harvard:

  • 1. L’Ironia (Περἰ εἰρωνείας)
  • 2. L'Adulazione (Περἰ κολακείας)[11]
  • 3. Il Non la smetter più (Περἰ ἀδολεσχίας)
  • 4. La Rusticità (Περἰ ἀγροικίας)
  • 5. La Piacenteria (Περἰ ἀρέσκειας)[12]
  • 6. La Pazzia morale (Περἰ ἀπόνοιας)
  • 7. La Garrulità (Περἰ λαλιᾶς)
  • 8. Il Contar frottole (Περἰ λογοποιίας)
  • 9. La Sfacciataggine (Περἰ ἀναισχυντίας)
  • 10. La Spilorceria (Περἰ μικρολογίας)
  • 11. La Sguaiataggine (Περἰ βδελυρίας)
  • 12. L’Inopportunità (Περἰ ἀκαιρίας)
  • 13. L'Officiosità[13] (Περἰ περιεργίας)
  • 14. La Sbadataggine (Περἰ ἀναισθησίας)
  • 15. La Scortesia (Περἰ αὐθαδείας)
  • 16. La Superstizione (Περἰ δεισιδαιμονίας)
  • 17. La Scontentezza (Περἰ μεμψιμοιρίας)
  • 18. La Diffidenza (Περἰ ἀπιστίας)
  • 19. La Sudiceria (Περἰ ἀηδίας)
  • 20. La Spiacevolezza (Περἰ δυσχέρειας)
  • 21. L'Ambizione Piccina (Περἰ μικροφιλοτιμίας)
  • 22. La Grettezza (Περἰ ἀνελευθερίας)
  • 23. La Spacconeria (Περἰ ἀλαζονείας)
  • 24. La Superbia (Περἰ ὑπερηφανίας)
  • 25. La Vigliaccheria (Περἰ δειλίας)
  • 26. L'Indole oligarchica (Περἰ ὀλιγαρχίας)
  • 27. La Studiosità senile (Περἰ ὀψιμαθίας)
  • 28. La Maldicenza (Περἰ κακολογίας)
  • 29. La Simpatia per i furfanti (Περἰ φιλοπονηρίας)
  • 30. L'Avarizia (Περἰ αἰσχροκέρδειας)

È chiaro l'interesse che Teofrasto nutriva per la retorica, Cicerone e Quintiliano di fatto gli hanno riconosciuto l'aver apportato contributi al campo. Grazie alla lista di sue opere conservata da Diogene Laerzio possiamo avere un'idea degli scritti che sono andati perduti, e di cosa contenessero. Secondo l'opinione di William Wall Fortenbaugh, nonostante non ci siano fonti antiche che parlino di come egli abbia portato avanti la trattazione, tenendo in considerazione i Caratteri, la più conosciuta delle sue opere sopravvissute, possiamo sviluppare l'argomento della rappresentazione degli stessi in ambito retorico e avanzare delle supposizioni sul suo approccio. Sempre secondo la visione del professore emerito di Classici, i ritratti sono trenta bozzetti di tendenze comportamentali negative. I caratteri sono definiti entro regolari attitudini comportamentali superficiali, e il cuore della sua opera si incentra appunto su questi schemi ripetuti e ripetitivi.


Fortuna letteraria

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Nell’antichità, il poeta comico greco Menandro fondò le sue commedie su una caratterologia ereditata da Teofrasto.

La Superstizione (Carattere XVI, in greco antico: δεισιδαίμων?), vittima della δεισιδαιμονία (la "paura superstiziosa degli dei") è uno dei ritratti che ha fatto più parlare di sé; Jacques Lacan lo cita come "l'ossessivo di Teofrasto", che la scienza moderna definirebbe soggetto compulsivo, oppure soggetto che soffre di disturbo ossessivo compulsivo, per via dei suoi rituali ripetuti. Plutarco fa riferimento al carattere del Superstizioso nel Sulla superstizione: «Ma di tutte le paure, quella che nasce dalla superstizione è la più sterile e la più alienante». trovare riferimento in http://www.perseus.tufts.edu/hopper/text?doc=Perseus:text:2008.01.0188

La Spiacevolezza (Carattere XX) dei Caratteri di Teofrasto, Platone nel Gorgia[14] e Iscomaco nell’Economico di Senofonte[15] richiamano la tradizione più tarda che afferma che, arrivate nell'Ade, le Danaidi sono condannate a riempire eternamente delle giare forate. Questo castigo è diventato proverbiale ed è rimasto celebre per l'espressione del "Pozzo senza fondo" o "delle Danaidi", che impone un compito assurdo, senza fine o impossibile.

In epoca moderna, l'opera del filosofo ha conosciuto successo a partire dalla pubblicazione di Isaac Casaubon nel Seicento. Il libro dello scrittore inglese Joseph Hall, Characters of Vertues and Vices (Caratteri di Vizi e Virtù), del 1608, trovò eco in Francia con la sua traduzione nel 1610, poi la pubblicazione de L’École du sage ou les Caractères des vertus et des vices (La scuola del saggio o i caratteri delle virtù e dei vizi) di Urbano Chevreau nel 1645[16]. Ma è l'opera di Jean de La Bruyère, Les Caractères ou les Mœurs de ce siècle (I caratteri o le usanze di questo secolo), che rimane la più illustre e afferma il suo debito di riconoscenza nei confronti di Teofrasto, pur volendo essere innovativa.

  1. ^ Platone, Leggi, IX, 854 D-E.
  2. ^ Aristotele, Retorica, II, 2-17.
  3. ^ Aristotele, Etica Nicomachea, IV, 3.
  4. ^ Teophrastus, Les caractères de Théophraste: d'après un manuscrit du Vatican contenant des additions qui n'ont pas encore paru en France, a cura di Adamantios Korais, Paris, Baudelot et Eberhart, 1799, p. XIII.
  5. ^ Pasquali, p. XIII.
  6. ^ Pasquali, p. X.
  7. ^ Pasquali, p. IX, XII.
  8. ^ Pasquali, p. VIII.
  9. ^ }Pasquali, p. XIII.
  10. ^ Pasquali, pp. VIII-IX
  11. ^ tipo di lusinga volta al profitto
  12. ^ altro genere di lusinga, compiacente guidato dal desiderio di piacere
  13. ^ Con Officiosità ci si riferisce all'individuo zelante che ingerisce in modo invadente negli affari altrui.
  14. ^ Platone, Gorgia, 493 B.
  15. ^ Senofonte, Economico, VII, 40.
  16. ^ La Bruyère 2004, p. 17.

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