Inno ad Afrodite (Saffo)

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Inno ad Afrodite
Saffo
AutoreSaffo
1ª ed. originaleVI secolo a.C.
GenereInno
Sottogenereamore
Lingua originalegreco antico

L'Inno ad Afrodite (fr. 1 V. = 1 G.) è la lirica che apriva i libri delle poesie della poetessa lesbia Saffo. Essa ci è pervenuta intera grazie alla citazione di Dionigi di Alicarnasso[1].

Venere di Milo

Testo e analisi[modifica | modifica wikitesto]

Nell'inno ad Afrodite, una delle più belle e delicate liriche pervenuteci, Saffo esprime la pena e l'ansia per l'amore non sempre corrisposto e il penoso tormento che questo le dà. Questa lirica assume la forma di una preghiera in cui, con il richiamo di un incontro precedente[2], cerca di coinvolgere la dea in suo favore ed ella, pronta, interviene in maniera diretta[3] con la promessa che Saffo si aspetta[4]. In questa poesia la forza emotiva si coniuga con l'eleganza e la dolcezza delle espressioni, che raggiungono l'acme nella sesta strofa in cui la parola della dea diventa impegno, conciso e perentorio.

Ippolito Pindemonte, nella sua mirabile traduzione[5], è riuscito a cogliere e a rappresentare lo stato d'animo che la poetessa ha trasfuso nell'ode, mantenendo al contempo la potenza della passione e la soavità del tono poetico.

(GRC)

«ποικιλόθρον' ἀθανάτ' Αφρόδιτα,
παῖ Δίος δολόπλοκε, λίσσομαί σε,
μή μ' ἄσαισι μηδ' ὀνίαισι δάμνα,
πότνια, θῦμον,

ἀλλὰ τυίδ' ἔλθ', αἴ ποτα κἀτέρωτα
τὰς ἔμας αὔδας ἀίοισα πήλοι
ἔκλυες, πάτρος δὲ δόμον λίποισα
χρύσιον ἦλθες

ἄρμ' ὐπασδεύξαισα, κάλοι δέ σ' ἆγον
ὤκεες στροῦθοι περὶ γᾶς μελαίνας
πύπνα δίννεντες πτέρ' ἀπ' ὠράνωἴθε-
ρος διὰ μέσσω.

αἶψα δ' ἐξίκοντο, σὺ δ', ὦ μάκαιρα,
μειδιαίσαισ' ἀθανάτωι προσώπωι
ἤρε' ὄττι δηὖτε πέπονθα κὤττι
δηὖτε κάλημμι

κὤττι μοι μάλιστα θέλω γένεσθαι
μαινόλαι θύμωι. τίνα δηὖτε πείθω
ἄψ σ' ἄγην ἐς σὰν φιλότατα;τίς σ', ὦ
Ψάπφ', ἀδικήει;

καὶ γὰρ αἰ φεύγει, ταχέως διώξει,
αἰ δὲ δῶρα μὴ δέκετ',ἀλλὰ δώσει,
αἰ δὲ μὴ φίλει, ταχέως φιλήσει
κωὐκ ἐθέλοισα.

ἔλθε μοι καὶ νῦν, χαλέπαν δὲ λῦσον
ἐκ μερίμναν, ὄσσα δέ μοι τέλεσσαι
θῦμος ἰμέρρει, τέλεσον,σὺ δ' αὔτα
σύμμαχος ἔσσο.»

(IT)

«Afrodite eterna, in variopinto soglio,
Di Zeus fìglia, artefice d'inganni,
O Augusta, il cor deh tu mi serba spoglio,
Di noie e affanni.

E traggi or quà, se mai pietosa un giorno,
Tutto a' miei prieghi il favor tuo donato,
Dal paterno venisti almo soggiorno,
Al cocchio aurato

Giugnendo il giogo. I passer lievi, belli
Te guidavano intorno al fosco suolo
Battendo i vanni spesseggianti, snelli
Tra l'aria e il polo,

Ma giunser ratti: tu di riso ornata
Poi la faccia immortal, qual soffra assalto
Di guai mi chiedi, e perché te, beata,
Chiami io dall'alto.

Qual cosa io voglio più che fatta sia
Al forsennato mio core, qual caggìa
Novello amor ne' miei lacci: chi, o mia
Saffo, ti oltraggia?

Se lei fugge, ben ti seguirà tra poco,
Doni farà, s'ella or ricusa i tuoi,
E s'ella non t'ama, la vedrai tosto in foco,
Se ancor nol vuoi.

Vienne pur ora, e sciogli a me la vita
D'ogni aspra cura, e quanto io ti domando
Che a me compiuto sia compi, e m'aita
meco pugnando.»

L'inno, composizione in onore di una divinità, recitata davanti alla sua statua in quanto considerata sua incarnazione terrena, è da dividersi in tre parti: la prima parte, epìklesis, nella quale la poetessa invoca la divinità ed esprime le sue principali invocazioni utilizzando l'imperativo e forme esortative; la seconda parte, omphalòs, la parte narrativa dell'inno, in cui la divinità viene presentata nel contesto di un'azione della quale è protagonista, di solito di carattere mitico; la terza parte, euchè, la preghiera vera e propria, la cui metrica è simile alla epiclesi.

Questa poesia può, inoltre, essere considerata basata sulla Ring Komposition, in quanto al termine del componimento sono inseriti elementi che fanno riferimento alle prime strofe. Questo modo di procedere è tipico di Saffo, che lo usa in molti altri frammenti pervenuti.

Note[modifica | modifica wikitesto]

  1. ^ De compositione verborum, 173–79.
  2. ^ Verso 7.
  3. ^ Verso 18.
  4. ^ Verso 21
  5. ^ In "Giornale de' letterati", Tomo XLII (1781), Anno MDCCLXXXI, pp. 257-258.

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