Discussione:Francis Fox Tuckett

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Sezione "L'uomo delle altitudini"[modifica wikitesto]

Inserita da Motter, è un testo originale di cui lo stesso utente afferma di essere l'autore.

Motter è stato avvisato sulla sua pagina di discussione, ma non ho idea se abbia inviato la necessaria autorizzazione a Wiki.

Un secondo problema riguarda i brani di Douglas William Freshfield e di Leslie Stephen inseriti nel testo. Non riesco a stabilire se tali testi siano (ancora) coperti da copyright. Ho chiesto lumi all'autore anche su questo profilo.

--Alb msg 10:07, 16 feb 2007 (CET)[rispondi]

Riporto il testo inserito da Motter: “Un anno dopo l’ascesa alla Presanella (in prima assoluta) - così Douglas William Freshfield in “Italian Alps” ricordando la sua conquista dell’Adamello - mi trovai di nuovo alla testata della Val Genova, con una comitiva di sette persone, comprese due guide svizzere e un portatore tirolese”. Era la notte tra il 2 e il 3 luglio 1865. “Per raggiungere i pascoli superiori e le cascine del Mandron (talora usate come alloggio notturno dagli alpinisti stranieri) ci incamminammo a Nord prendendo un malagevole sentiero che si inerpicava su per la roccia vicino ad una magra cascata. Un pastore, con la lanterna, ci guidò su per la parte più ripida della salita; poi venne mandato indietro, lasciando noi e le nostre guide svizzere a trovarci la strada, compito questo al quale eravamo tutti ben preparati. Poco dopo ci volgemmo decisamente a Sud, diretti al bordo del ghiacciaio del Mandron. C’era da attraversare un bel tratto di terreno accidentato e pieno di macigni, ma brillante di fiori. Fra essi molte stelle alpine, una pianta che di norma si trova in posti pericolosi, ma che piuttosto frequentemente è colta là dove le mandrie la possono brucare. Non è detto però che il terreno sicuro per le armente lo sia anche per i botanici con le scarpe dal tacco alto e prive di chiodi. Ci arrampicammo alla svelta lungo i pendii di neve del ghiacciaio, sulla sponda sinistra, dall’alto della quale lo sguardo si posava su una liscia distesa di splendenti e luminosi nevai, limitati ad Ovest da una catena di cime e ad Est da una lunga cresta bianca terminante nel picco roccioso della Lobbia, conquistato la prima volta da Klaus von Sonklar”. Momenti d’incertezza colsero tutti (anche un capo cordata qual era stato in quel giorno Francis Fox Tuckett) alla vista del Corno Bianco scambiato per l’Adamello, come già era accaduto a Julius von Payer. Ma, aggirato sulla destra anche quell’insieme di picchi, non fu difficile riconoscere e raggiungere quel bacino di neve, sovrastante tutti gli altri, che portò la comitiva alla sospirata inconfondibile vetta. Fu dunque quel 3 luglio 1865, per tutti, un giorno d’esaltazione. Per Freshfield la conferma dell’eccezionale assalto da lui inferto alla Presanella ancora l’anno avanti. E per il trentunenne e già mitico Tuckett la consapevolezza di colui per il quale la vita e l’amore per i monti erano un’unica identica cosa. “Avevamo atteso molto dall’Adamello in virtù della sua posizione avanzata rispetto all’enorme massiccio, e non ne eravamo rimasti delusi. Il tempo oltretutto aveva mantenuto la sua promessa, e fu uno di quei giorni dorati di mezza estate che, come qualcuno usa dire, sono spesi ottimamente se trascorsi sulle cime delle montagne. Lontano, a mattina, potevamo seguire la via delle nostre peregrinazioni dal suo inizio. C’erano le vette dolomitiche del Primiero, un po’ oltre la Marmolada il Pelmo e il piramidale Antelao, poi l’occhio doveva solo saltare la grande fossa della Val Pusteria per spaziare sui Tauri dell’Ankogel (sopra Gastein) al Brennero. Il Glockner era visibile altrettanto bene che dal Heiligen Blut, ma le sue nevi erano tutte d’uno squisito color rosa come se fossero state prigioniere d’un tramonto”. Sia Freshfield che Tuckett, del resto, appartenevano a quell’alta borghesia inglese cui disponibilità di tempo e di danaro permettevano i viaggi e le vacanze più stravaganti. John Ball (1818-1889), ad esempio, che fu il primo Presidente dell’Alpine Club di Londra, e ricoprì la carica di sottosegretario di Stato al Ministero delle Colonie, fu presumibilmente l’ideatore e il sostenitore di queste escursioni britanniche in Trentino. La sua prima assoluta sul monte Pelmo ancora nel 1857, i suoi popolari resoconti di viaggio pubblicati dal periodico del sodalizio, le sue celebri guide “Peaks, Passes and Glaciers”, il suo matrimonio con Elisa Parolini gentildonna di Bassano diedero l’avvio alla passione inglese per l’esplorazione dell’intero territorio dolomitico rivelato dalle sue frequentazioni, e confermato dalle pionieristiche dilaganti imprese di Freshfield, di Melvill Beachcroft, di Robson Whitwell, di Tyndall, di Coolidge, di Mummery, di Amelia Edwards, di Walter White, di Edward Whimper, di Leslie Stephen, di William Mathews. Ebbene, in quei primordi eroici dell’alpinismo inglese, un nome su tutti brillava nel cielo supremo d’un mondo ancora intatto: il nome di Francis Fox Tuckett. “La canzone più dolce - aveva scritto Percy Bysshe Shelley diversi anni prima - è quella che ricorda, della vita, le vicende più sofferte”. E così fu - contro ogni apparenza - anche per Francis Fox Tuckett che, nato a Frenchay - piccolo sobborgo di Bristol ­il 10 febbraio 1834, dovette cominciar a conquistarsi nell’obbedienza e nel sacrificio la sua autoritaria personalità, avviato dall’intransigente famiglia a quei severi studi mercantili che lo avrebbero duramente, anzi impietosamente, costretto a dare alla sua “esaltazione alpinistica” poche settimane all’anno per tutta la vita.

Era Bristol, già a quel tempo, un rinomato insediamento portuale con avviatissimi stabilimenti e fondachi. Oltremodo intensi erano gli scambi commerciali con l’Europa mediterranea, con le Indie, e con il Nuovo Continente. Per cui la conoscenza delle lingue, la competenza aziendale, e la liquidità finanziaria rappresentavano il massimo cui un futuro uomo d’affari potesse aspirare. E il Tuckett, rinunciando non poco all’attrazione innata che provava per i monti, fu il brillante imprenditore che affrettando la sua floridezza economica seppe garantirsi per sempre quel paio di mesi alpinistici all’anno che divennero la ragione della sua vita. Non aveva che otto anni - nel 1842 - quando, per la facoltosa disponibilità paterna, ebbe il primo sbalorditivo incontro con le Alpi percorrendo il fantasmagorico Mer de Glau di Chamonix e rimanendone segnato per sempre. D’altronde non fu certo una singolarità se pensiamo che a restarne ferita fu pure la sorella Elizabeth. Corrispose anzi - sempre quel 1842 - all’anno della mitica permanenza del celebre geologo James David Forbes (1809-1868), sui ghiacciai alpini della Svizzera, della Val d’Aosta, e della Savoia: qualcosa di talmente conclamato dalla stampa da appannare (nei sogni infantili dell’area anglosassone) le avventure di Robinson Crusoè. Quando poi - undici anni dopo - Francis ed Elizabeth rividero le Alpi nella loro piena giovinezza, gli attraversamenti del Saint Theodule nel 1853 e del Jardin nel 1854 riaprirono incantati desideri di sentieri e di cieli che non si sarebbero richiusi più. Effettivamente da allora, sempre nei limiti estivi del suo orgoglio professionale, la carriera alpinistica di Francis Fox Tuckett non conobbe transazioni. Precedendo addirittura d’un anno l’apertura a Londra dell’Alpine Club, già nel 1856 diede inizio a quel principesco curriculum d’uomo delle altitudini che insuperabilmente divise con i sommi pionieri dell’Ottocento: con Paul Grohmann (1838­1908), con Douglas William Freshfield (1845-1934), con Julius Payer (1841-1915), con John Ball (1818-1889), con Leslie Stephen (1832­1904), con Edward Whymper (1840-1911), con Edward Robson Whitwell (1843-1922), con Albert Frederick Mummery (1856-1895) il maestro delle scalate. Nel 1856 dunque - ben sapendo che, come uomo d’affari, poteva concedere all’alpinismo unicamente le sue estati - diede inizio alla sua intensa quanto introversa carriera d’esplorazione montana partendo dall’allora piccola ma già rinomata base di Zermatt. Attraversati così quei ghiacciai ch’erano stati il sogno della sua fanciullezza (il Geant, il Collon, l’Alèrens, l’Adler, le Cimes Blanches), esplose nella vita dinamica e lungimirante di Tuckett una delle vocazioni alpinistiche più rigorose ed intemerate del secolo diciannovesimo. Aneliti alti come campanili, come torri, come obelischi, come pinnacoli, come vette inviolate, trepidavano nei desideri limpidi d’un uomo che dai vertici della sua interiorità più non vedeva né sentieri, né prati, né boschi, né specchi d’acqua, né dirupi, ma solo architetture dalla nitida ed incastonata acrobazia. Già nel 1859 - venticinquenne appena - alla vita brillante che in Bristol avrebbe potuto permettersi - preferì la sua prima ascensione all’Aletschhorn che, nelle Alpi Bernesi, non la cedeva certo al Finsteraarhorn. Né manca - quella stessa estate - di tentare (ancorché inutilmente) la scalata alla Grivola, tentativo fino ad allora mai riuscito ad alcuno. Nel 1860 conquistò l’ambitissimo Finsteraarhorn, impressionante nelle sue quote e nei suoi ghiacciai; e raggiunse per primo - dal versante savoiardo - il Col d’Argentiére. Nel mese di giugno del 1861, in un’affannosa corsa al successo, ma anche per quell’ambiziosa conoscenza delle Alpi che qualificava gli escursionisti inglesi, attraversò il Colle dell’Alphubel e il Col d’Oren. A metà luglio poi, con l’amico Leslie Stephen, portò a compimento sul Monte Bianco la sua “prima assoluta” salendo per la Dôme du Goûter e le Bosses du Dromodair. Ormai le estati - che, vicino ai trent’anni, cominciavano a susseguirsi - lo stavano portando (grazie, anche, ai suoi scritti) a quella riconosciuta autorevolezza internazionale che non avrebbe sperato mai. Meravigliose, nel 1862, furono le sue vacanze sulle Alpi del Delfinato, anche perché coronate da un viaggio a Parigi dove, con l’aiuto di influenti conoscenze, riuscì ad ottenere dal Ministero della Guerra importanti fogli toponomastici montani con i quali effettuò ascensioni più audaci ancora sulla Grivola, sul Col de Granderoux, e sul Monviso. Solo dal 1863 però egli, nei sessanta giorni delle sue ferie, si decise a conoscere lo splendore meridionale e dolomitico del Tirolo. Non a caso William Augustus Brevoort Coolidge (1850-1926) in un fraterno articolo su Tuckett rivelava com’egli, una volta giunto nelle Dolomiti, mutasse addirittura carattere, divenisse allegro, si compiacesse di far mostra della sua familiarità con le lingue e con i dialetti, e in mezzo alla gente di montagna passasse delle ore deliziose come narratore, come giocoliere, come intrattenitore divertente di bambini e di vecchi. Percorse così in modo tutto speciale il Trentino, volendolo non solo vedere e scoprire, ma anche con ammirevoli descrizioni illustrare. L’anno seguente poi fu la volta del Gran Zebrù, del Monte Disgrazia, del Passo Canali, e del Passo Rosetta, monti che diedero l’avvio all’alpinismo vero e proprio nel Primiero. Trionfale, nel 1865 - fu la formidabile cordata, di sette persone (ed era con loro Freshfield) con cui Tuckett - dopo la “prima assoluta” di Julius Payer (1864) - raggiunse la Cima Adamello. In quello stesso 1865 - sempre con Freshfield (ma pochi immaginarono quale binomio alpinistico i due rappresentassero) - valicando il Passo della Rosetta giunse al Gruppo delle Pale di San Martino per esplorarle e decidere nuove imprese. Vi tornò (sempre con Freshfield) nel 1867 portando come guide due miti dell’Oberland Bernese, Melchior e Jacob Anderegg, e facendo proprie parecchie vette. Delle due guide Tuckett in seguito si servì per dare la vittoriosa scalata al monte Civetta. Nell’estate del 1870 Tuckett - signore europeo ormai della montagna - e il formidabile amico Edward Robson Whitwell, dopo avere invano dato l’assalto alla Pala di San Martino, decisero d’affrontare il Cimon della Pala con le celebri guide Santo Siorpaes di Cortina e Cristiano Lauener di Lauterbrunnen. Così come Grohmann (che l’anno avanti s’era dovuto arrendere) aggredirono essi pure la dura ascesa dalla parte orientale. Ma l’ultimo tratto della vetta inesorabilmente li respinse. Tuckett e Whitwell però non cedettero. Bivaccando sul ghiacciaio di Travignolo ritentarono la salita lungo la parete settentrionale. È anzi questa un’occasione unica per rivivere un’avventura così bella nel racconto di Francis Fox Tuckett sul Bollettino C.A.I. del 1871. “Lasciammo il nostro ricovero alle tre e trenta del mattino, e seguimmo il ghiacciaio per circa un’ora finché ci trovammo vicini ad un piccolo piano nevoso situato sopra un basso scaglione. Questo fu tosto raggiunto e si incominciò finalmente la salita sulla roccia della faccia settentrionale. Non riuscimmo a determinare quale fosse la più alta punta che costituisce la sommità: essa è così profondamente intagliata che l’avanzarsi molto per lo spigolo sarebbe stata cosa impossibile. Ci attenemmo a quella che ci sembrava essere la cima più elevata e per quattro ore arrampicammo risoluti su roccia per arrivare alla sommità. Ma giunti che fummo, trovammo ch’essa era la più bassa, vista da Paneveggio! Alla nostra sinistra ve n’era un’altra di circa quindici metri più elevata; da essa ci divideva una balza perfettamente liscia e verticale. La roccia, per arrivare a quest’ultima, quantunque estremamente ripida, presentava abbastanza buona presa al piede, ed a causa del gelo non ci importunava molto con al caduta di sassi. Scendemmo per circa cento metri e dopo un’ora di scalata difficilissima, per una fessura che saliva in mezzo ad una liscia parete della roccia raggiungemmo la cima, ma solo per riconoscere che un’altra cima più elevata stava alla nostra sinistra, separata da noi (come la precedente) da una balza intransitabile. Eretta una piccola piramide di sassi tornammo a calarci, e questa fu la parte più ardua della spedizione per la difficoltà di tenerci con le mani e con i piedi, dato che la minima scivolata sarebbe riuscita fatale. Dovemmo in seguito discendere ancora per un breve tratto, tanto da poter aggirare la punta seguente per ricominciare quindi a salire nuovamente, e questa volta lungo un corridoio eccessivamente ripido sul ghiaccio coperto da circa quindici centimetri di neve farinosa, nella quale si dovettero tagliare successivamente gradini per i piedi. Non avendo il ghiaccio che otto o dieci centimetri di spessore sopra la roccia, richiedeva la massima precauzione. Raggiunta la sommità del corridoio, arrivammo dopo pochi minuti di salita in cima a questa nuova punta, risultata alquanto più bassa di un’altra ancora, situata alla nostra sinistra, avente la forma di un sasso enorme equilibrato su un angusto spigolo da sembrare che la più piccola scossa l’avrebbe fatto precipitare. Con non grande difficoltà potemmo portarci alla base del sasso, ed alle undici in punto ne calcammo il vertice”. Fu un’estate memorabile! Rimasta nella storia dell’alpinismo anche per l’entrata in scena (e quale entrata in scena!) d’una delle più grandi protagoniste del pionierismo alpinistico femminile: Elizabeth Tuckett. Dopo il clamoroso trionfo sul Cimon della Pala (trionfo che aggiunse leggenda europea alla fama sia di Tuckett che di Robson Withwell) i due si concessero una specie di escursione-premio guidando una folta comitiva britannica (comprendente pure l’ardimentosa Elizabeth), comitiva che - partendo dalle bianche scogliere di Dover (e attraverso Aix les Bains, Susa, Torino, Milano, Verona) effettuò in lungo e in largo quell’irreale visita ai così detti “Monti Pallidi” che la geniale Elizabeth, sorprendente improvvisatrice di schizzi, illustrò con oltre trecento vignette, destinate ancora l’anno dopo ad uscire a Londra in uno splendido volume dal titolo “Zigzagando tra le Dolomiti”, della Casa editrice Longmans, la stessa che tanta parte pubblicò degli scritti di Freshfield. Da Verona a Vicenza, - a dire il favoloso percorso - Da Recoaro ad Asiago. Da Bassano a Belluno. Da Agordo a Primiero. Da San Martino di Castrozza a Paneveggio. Da Predazzo al Cimon della Pala. Da Campitello a Caprile per il Passo di Fedaia. Dalla Val Pettorina alla Gola di Sottoguda. Da Santa Lucia a San Vito. Da Auronzo a Cortina. Da Cortina ad Andràz. Da Pieve di Livinallongo a Corvara. Da Sant Ulrich all’Alpe di Siusi. Da Bolzano a Trafoi. Da Landeck ad Innsbruck. E fu, quella, l’estate in cui l’intrepida Elizabeth esplose nell’agonismo turistico-alpestre, unico modo per l’anticonformista giovane donna di poter equipararsi all’insigne fratello negli avventurosi allenamenti sulle più belle montagne d’Europa.

Nell’agosto del 1871 Francis Fox Tuckett e Douglas William Freshfield giunsero nel Gruppo di Brenta. Avevano con loro ancora la fedele guida Devouassoud. E salirono alla cima Brenta per la vedretta di Brenta. L’anno dopo vi tornarono. Rifecero la scalata partendo da una “gola” che Freshfield, nel frattempo, aveva immortalato chiamandola “Bocca di Tuckett”. Bocca che da tutti, ancor oggi, così è conosciuta. In quello stesso 1872, senza darsi riposo, Tuckett con l’indomito amico Carson salì il Catinaccio d’Antermoia. E nel 1874 - sempre con Carson - il Catinaccio vero e proprio. Tornano alla mente, a tal proposito, le parole profetiche - indimenticabili - di Leslie Stephen al grande alpinista di Bristol. “In un lontano futuro, quando l’Alpine Club sarà dimenticato, e le sue prime testimonianze oscurate dalla foschia delle leggende e delle tradizioni popolari, chi vorrà indagare avrà un grande enigma da risolvere. Nel tentativo di separare il vero dal falso, e di accertare quale sia il piccolo nucleo di fatti reali attorno al quale si sono raccolte così tante storie incredibili, costui rimarrà stupito dal ripetersi continuo di un nome. Nel ciclo eroico delle avventure alpine l’irriducibile Tuckett occuperà un posto simile a quello dell’errabondo Ulisse nella leggenda greca, o dell’invulnerabile Sigfrido nella saga dei Nibelunghi. In ogni parte delle Alpi, dal Monviso al Delfinato, fino alle regioni selvagge della Carinzia e della Stiria, le gesta di questo grande viaggiatore persisteranno nell’immaginazione popolare. In una vallata il montanaro mostrerà un’ampia breccia nelle rocce che, secondo la sua fantasia, sarebbe stata prodotta dalla potente piccozza dell’eroe. In un’altra, l’aguzza sommità conica che va sotto il nome di Tuckettspitze sarà considerata monumento eretto dall’eponimo gigante o forse pietra tombale posata sui suoi resti. In una terza valle, i massi sparsi di un ghiacciaio rappresenteranno la scala ch’egli costruì per poter raggiungere quell’inaccessibile altezza. Che una persona così onnipresente e capace di compiere imprese tanto romanzesche debba essere una semplice creatura in carne ed ossa è naturalmente un’ipotesi assurda. I critici saranno piuttosto propensi a fare di lui un altro esempio di quel mito universale che prova, in forme diverse, l’unità della grande razza ariana. Si dirà che Tuckett altro non è che il sole che sorge all’alba sulle montagne più alte, indora le cime invalicabili, si spinge nelle valli più remote, e passa da un’estremità all’altra della catena alpina”. Fu dopo quelle estati dolomitiche che Tuckett - divenuto (ma a quale costo di energie!) un’autorità assoluta nel campo alpinistico mondiale - si votò a quell’escursionismo scientifico e comparativo accessibile all’uomo soltanto attraverso lunghi e faticosi viaggi, e capì che l’estasi ineffabile delle alture non era l’imponenza degli acrocori, né la sfida dell’uomo alle vette, bensì l’insieme dei selvaggi sentieri e degli ignoti richiami delle pietrificate bellezze dei monti. Fu la sua conversione. L’attrazione esplorativa ed umanistica, che né le montagne di Zermatt né le Alpi Occidentali gli avevano pienamente dato, Tuckett l’ebbe dai vertiginosi disegni del mondo dolomitico che la sorella Elizabeth ossessionatamente rimpiangeva, in ogni suo colloquio, di poter così poco visitare. Tenendo anzi presente ­ egli ormai quarantenne - che ai monti tutto aveva dato, ricevendone in cambio ben poche soddisfazioni, iniziò (com’era stato per i suoi idolatrati Forbes e von Humboldt) il tempo dei suoi fondamentali viaggi attorno al mondo. Dopo essere stato in Grecia (come alle sorgenti dello spirito), volle conoscere nel 1880 - e una seconda volta nel 1884 - il travaglio geologico, e più ancora morfologico, degli Stati Uniti dai Monti Allegheny alla Cordigliera californiana. Nel 1881 fu in Corsica, dove ritornò nel 1883, impressionato da quei coinvolgimenti emotivi che solo un’isola così primitiva poteva trasmettere. Per due interi anni poi, dal 1886 a tutto il 1887, visse in Norvegia, come dentro la fiaba (mai dimenticata) dell’eroico glaciologo James David Forbes (1809-1868). Un anno intenso inoltre fu il 1888 per i mesi riservati alle mediterranee catene di sogno della Spagna, del Marocco, dell’Algeria, della Tunisia, dopo di che volle visitare per ben tre volte quel Medio Oriente che fu scrigno al mondo occidentale di tanta civiltà. Alla fine, con l’Australia e con la Nuova Zelanda toccò gli antipodi, e non vi fu più sulla terra una regione che non avesse sogni per lui stante - come affermava Stephen - la capacità particolare d’ogni montagna di provocare una mescolanza armonica di emozioni sognanti. Solo allora si diede pace e - pensando onestamente di poter promettere ad una donna una vita di benessere e di reale tranquillità - prese felicemente moglie (1896). Furono anni d’una serenità inenarrabile. Quasi a risarcire una vita di solitarie stagioni. Di nuovo con lei si sentì giovane. Rientusiasmato. Tanto che nel gennaio del 1913 partì assieme a lei alla volta del Giappone perché avesse a godere il più a lungo possibile di mari caldi e di terre orientali. Tornato il 5 giugno, prima ancora di poter riandare, con i pochi amici che aveva, la goduta primavera nipponica, trovò nella sua serena villa di Frenchay - per un attacco letale di risipola - la morte ad attenderlo. Ed è là (da quel 20 giugno 1913) che il nome di Francis Fox Tuckett, nel piccolo cimitero del sobborgo, prese a sopravvivere (come scrisse Leslie Stephen) al sogno, all’eroismo, al genio, alla magnificenza, alla perennità d’ogni altro nome. --Alb msg 11:28, 16 feb 2007 (CET)[rispondi]

Ho spedito or ora liberatoria per i testi a: permissionwikimedia.org. Freshfield, è morto nel 1936, sicchè i testi non sono più soggetti a diritti. Leslie Stephen anche è morto nel 1904. Scusate la mia ancor poca dimestichezza. --Motter 13:21, 22 feb 2007 (CET)[rispondi]

Qualcuno ha la buona volontà di inserire i testi che ho spedito? Forse piano piano riusciro a contribuire anch'io a inserire per bene i testi. --Motter 16:29, 11 mar 2007 (CET)[rispondi]