Fonti e storiografia sul sacco di Roma (410)

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Voce principale: Sacco di Roma (410).

Il sacco di Roma del 410 ha suscitato un grande impatto sugli autori coevi all'avvenimento. Gli autori pagani incolparono il cristianesimo di aver attirato l'ira delle divinità pagane, a causa dell'abbandono degli antichi culti pagani, e sostennero che il sacco di Roma e il declino dell'Impero fossero dovuti proprio a questo. In risposta a tali attacchi, Agostino e Orosio scrissero delle opere a difesa del Cristianesimo: il primo scrisse La città di Dio e il secondo la Storia contro i pagani in sette libri. Il sacco di Roma attrasse l'attenzione anche di Girolamo che tornò a più riprese sui suoi scritti sulle impressioni che la notizia del sacco gli avevano suscitato. Del sacco di Roma parlarono anche gli storici ecclesiastici bizantini, Socrate Scolastico e Sozomeno.

Il sacco di Roma del 410, per gli autori moderni, ha avuto un grande impatto per la storia di Roma: essi considerano questo l'inizio della fine dell'Impero di Roma, e alcuni lo ritengono persino di maggiore impatto rispetto alla "caduta senza rumore" dell'Impero del 476.

Reazione degli autori coevi[modifica | modifica wikitesto]

Agostino rispose alle accuse dei pagani che attribuivano al Cristianesimo la causa del declino dell'Impero nelle sue opere, in particolar modo nella De Civitate Dei.

Girolamo[modifica | modifica wikitesto]

Una delle prime reazioni al sacco di Roma compiuto da Alarico la si trova nelle lettere di Girolamo (347-420), uno dei padri della Chiesa. Girolamo, che in passato aveva vissuto nella stessa Roma, già in una lettera del 409, parafrasando il poeta Lucano, si pose la domanda:[1]

«Se Roma perisce, chi mai si salverà?»

San Girolamo si chiese smarrito chi mai poteva sperare di salvarsi se Roma periva:[2]

«Ci arriva dall'Occidente una notizia orribile. Roma è invasa.[...] È stata conquistata tutta questa città che ha conquistato l'Universo.[...]»

Girolamo, nei suoi scritti, tornò a più riprese sul sacco di Roma. In una lettera scrisse che aveva appena cominciato a scrivere il commento a Ezechiele, quando apprese del sacco della Città Eterna e della devastazione delle province occidentali dell'Impero, notizia che lo rese talmente agitato "che, per usare un proverbio comune, mi ricordavo a malapena il mio nome; e per un lungo tempo rimasi in silenzio, sapendo che erano tempi per le lacrime".[3] Sempre riguardo all'agitazione provata alla notizia del sacco, Girolamo scrisse che "quando in verità la luce fulgidissima di tutte le terre fu distrutta, anzi fu troncato il capo dell'Impero romano e, per dirlo ancora con più chiarezza, in una sola città tutto il mondo è perito, tacqui e ne fui prostrato".[4] Sempre sul sacco di Roma Girolamo scrisse:[4]

«Chi avrebbe mai creduto che Roma, costruita sulle vittorie riportate su tutto il mondo, sarebbe crollata? Che tutte le coste dell'Oriente, dell'Egitto e d'Africa si sarebbero riempite di servi e di schiave della città un tempo dominatrice, che ogni giorno la santa Betlemme dovesse accogliere ridotte alla mendicità persone di entrambi i sessi un tempo nobili e pieni di ogni ricchezza?»

In un'altra epistola, Girolamo scrisse che "la città inclita e capitale dell'Impero romano è stata bruciata in un solo incendio; e non vi è alcuna regione che non abbia esuli romani; chiese un tempo sacre si sono trasformate in faville e cenere e, nondimeno, andiamo sempre soggetti ad avarizia".[5]

Girolamo, nel descrivere con drammaticità maggiore il sacco di Roma di Alarico, non esitò a prendere in prestito citazioni da passi della Bibbia o da autori come Virgilio. Girolamo parafrasa alcuni versi del III libro dell'Eneide, laddove viene trattata la caduta di Troia, per descrivere la caduta di Roma:

«Chi può esporre la carneficina di quella notte?
Quali lacrime sono pari alla sua agonia?
Una città sovrana di antica data cade;
E senza vita nelle sue strade e case giacciono
innumerevoli corpi dei suoi cittadini...»

Agostino[modifica | modifica wikitesto]

Per Agostino (354-430), vescovo di Ippona e uno dei Padri della Chiesa, la caduta di Roma significava una minaccia da non sottovalutare per la fede della comunità cristiana: i pagani, perseguitati dallo stato romano ora che il Cristianesimo era diventato religione di stato, si scagliarono contro la religione cristiana, ritenendo che a causa dell'abbandono degli antichi riti pagani Roma fosse stata abbandonata dalle divinità pagane, e che la sua conseguente rovina fosse dovuta all'ira degli dei pagani. Nei sermoni e in particolare nella sua opera principale La Città di Dio, Agostino si propose di ribattere alle accuse dei pagani, difendendo il cristianesimo dai loro attacchi:

«Nel precedente libro, quando ho cominciato a parlare della città di Dio, dal momento in cui tutta l'opera col suo aiuto ha avuto inizio, mi si presentò la necessità di ribattere per primi coloro i quali attribuiscono le guerre, con cui il mondo è devastato, e soprattutto il recente saccheggio di Roma da parte dei barbari, alla religione cristiana, perché a causa sua è stato loro proibito di servire con culto obbrobrioso i demoni. Dovrebbero piuttosto attribuire a Cristo il fatto che per rispetto al suo nome, contro l'abituale usanza della guerra, i barbari abbiano offerto loro perché vi si rifugiassero spaziosi edifici di culto inviolabili e hanno così onorato il servizio, non solo vero, prestato a Cristo ma anche quello simulato per paura, al punto da giudicare che fosse per se stessi illecito di fare ciò che sarebbe stato lecito fare contro di loro agli altri per diritto di guerra. Ne sorse il problema perché questi benefici divini siano giunti anche a miscredenti e ingrati ed egualmente perché le atrocità commesse da parte dei nemici abbiano colpito indistintamente credenti e miscredenti. Il problema si allargò in molti quesiti. Esso infatti, in considerazione dei quotidiani favori divini e sventure umane che, gli uni e le altre, capitano indiscriminatamente ai buoni e ai cattivi, di solito turba molti individui.»

Agostino scrive che i pagani critici del cristianesimo avevano coniato l'aforisma anticristiano "Non viene la pioggia, ne sono causa i cristiani"[6]. A costoro rammenta che se i Goti si astennero dal compiere massacri nelle chiese cristiane permettendo a tutti coloro, pagani compresi, che si rifugiarono lì, di trovare scampo, era proprio merito della religione cristiana che ora denigrano:

«E tutto ciò che nella recente sconfitta di Roma è stato commesso di rovina, uccisione, saccheggio, incendio e desolazione è avvenuto secondo l'usanza della guerra. Ma si è verificato anche un fatto secondo una nuova usanza. Per un inconsueto aspetto degli eventi la rozzezza dei barbari è apparsa tanto mite che delle spaziose basiliche sono state scelte e designate per essere riempite di cittadini da risparmiare. In esse nessuno doveva essere ucciso, da esse nessuno sottratto, in esse molti erano condotti da nemici pietosi perché conservassero la libertà, da esse nessuno neanche dai crudeli nemici doveva esser condotto fuori per esser fatto prigioniero. E chiunque non vede che il fatto è dovuto al nome di Cristo e alla civiltà cristiana è cieco, chiunque lo vede e non lo riconosce è ingrato e chiunque si oppone a chi lo riconosce è malato di mente. Un individuo cosciente non lo attribuisca alla ferocia dei barbari. Animi tanto fieri e crudeli ha sbigottito, ha frenato, ha moderato fuori dell'ordinario colui che, mediante il profeta, tanto tempo avanti aveva predetto: Visiterò con la verga le loro iniquità e con flagelli i loro peccati ma non allontanerò da loro la mia misericordia

Agostino ritiene che il Sacco di Roma fu dovuto alla provvidenza divina che intendeva correggere i peccati dei cittadini dell'Urbe con tale calamità, rammentando che, a differenza di Sodoma, Roma non fu distrutta ma solo saccheggiata e molti dei cittadini riuscirono a trovare scampo:

«Nessuno può mettere in dubbio che questo misericordiosissimo padre ha voluto correggere con lo spavento, piuttosto ché punire, dal momento che nessun uomo, nessuna casa, nessun edificio venne sfiorato da così imminente calamità che pareva sovrastare. Proprio come quando una mano si alza per ferire e poi si ritrae per pietà, di fronte alla costernazione di quello che stava per essere ferito, così avvenne per quella città. Tuttavia se nello spazio di tempo in cui la città era vuota perché tutta la popolazione se n'era andata, fosse avvenuta la distruzione del luogo, e Dio avesse mandato in rovina l'intera città come Sodoma, senza lasciarne traccia, nessuno potrebbe dubitare che quella città è stata risparmiata perché il luogo fu distrutto dopo che la popolazione, avvisata anticipatamente e spaventata, era interamente emigrata dalla città. Così non c'è dubbio che Dio ha risparmiato anche la città di Roma perché prima della devastazione dell'incendio nemico, in molti punti della città gli abitanti in gran parte erano partiti: erano scampati sia quelli che erano fuggiti, sia quelli che, ancora più rapidamente, erano usciti dal corpo. Molti, presenti all'eccidio, in qualche modo si nascosero; molti, riparatisi nei luoghi sacri, scamparono sani e salvi. La città fu piuttosto punita da Dio che corregge, non distrutta, punita come un servo, che sa quale è la volontà del suo padrone e invece fa cose degne di percosse e molte ne riceve.»

Nei primi tre libri della De Civitate Dei, Agostino fa notare (citando episodi narrati da Tito Livio) ai pagani accusatori che anche quando erano pagani i Romani avevano subito tremende sconfitte, senza che però venissero incolpati di questo gli dei pagani:[7]

«Dov'erano dunque [quegli dei] quando il console Valerio fu ucciso mentre difendeva ... il campidoglio...? ... Quando Spurio Melio, per aver offerto grano alla massa affamata, fu incolpato di aspirare al regno e ... giustiziato? Dov'erano quando [scoppiò] una terribile epidemia? ... Dov'erano quando l'esercito romano ... per dieci anni continui aveva ricevuto presso Veio frequenti e pesanti sconfitte...? Dov'erano quando i Galli presero, saccheggiarono, incendiarono e riempirono di stragi Roma?»

Nella sua opera Agostino mette in contrapposizione due città, una terrena (Babilonia, allegoria per l'Impero romano) e una celeste (Gerusalemme, allegoria per la comunità dei Cristiani). Contro la tesi secondo cui l'Impero romano fosse predestinato a conquistare e civilizzare il mondo e a condurlo verso il Cristianesimo, Agostino asserisce che lo stato romano fosse un impero come i tanti altri che lo avevano preceduto e che prima o poi sarebbe destinato a declinare e a crollare, a differenza della Gerusalemme celeste, ovvero la comunità dei cristiani; e nega la tesi che la formazione dell'Impero romano fosse dovuta a una sua particolare eticità e legittimità; esso si era formato tramite la brama di potere e azioni di violenza.[8] Agostino esorta la comunità dei cristiani a non lasciarsi travolgere dalle passioni terrene, ma a giurare vera lealtà solo al regno dei cieli.

Orosio[modifica | modifica wikitesto]

Agostino non solo difese di persona la religione cristiana contro le accuse pagane, ma spinse anche altri a fare altrettanto. Intorno al 417/418, l'autore della Historiae adversus Paganos (Storia contro i Pagani) in sette libri, il sacerdote ispanico Paolo Orosio († intorno al 418), scrisse questa opera proprio su richiesta di Agostino. Nei suoi sette libri, Orosio si soffermò su tutte le guerre e calamità che avevano colpito Roma in epoca precristiana, cercando di provare che anche in età precristiana Roma avesse subito dei rovesci e dei disastri, senza che di ciò potesse venirne incolpato il Cristianesimo. Quando riferisce delle calamità in epoca cristiana, Orosio, conformemente al suo scopo apologetico, finisce con lo sminuirle o attribuirle alla punizione divina volta a correggere i peccati dei Romani.

Secondo Orosio il sacco di Roma ad opera di Alarico fu la giusta punizione divina per castigare la Città Eterna per i suoi peccati, in particolare per il persistere del paganesimo nell'Urbe; in ogni modo, tale sacco, per Orosio, fu molto meno distruttivo di altri disastri capitati alla capitale quando era pagana, ad esempio dell'incendio ordinato da Nerone nel 64 o del sacco di Roma ad opera dei Galli di Brenno nel 390 a.C.:[9][10][11]

«39. È la volta di Alarico, che assedia, sconvolge, irrompe in Roma trepidante[...] E a provare che quella irruzione dell’Urbe era opera piuttosto dell’indignazione divina che non della forza nemica, accadde che il beato Innocenzo, vescovo della città di Roma, proprio come il giusto Loth sottratto a Sodoma, si trovasse allora per occulta provvidenza di Dio a Ravenna e non vedesse l’eccidio del popolo peccatore. [...] Il terzo giorno dal loro ingresso dell’Urbe i barbari spontaneamente se ne andarono, dopo aver incendiato, è vero, un certo numero di case, ma neppur tante quante ne aveva distrutte il caso nel settecentesimo anno dalla sua fondazione. Ché, se considero l’incendio offerto come spettacolo dall’imperatore Nerone, senza dubbio non si può istituire alcun confronto tra l’incendio suscitato dal capriccio del principe e quello provocato dall’ira del vincitore. Né in tal paragone dovrò ricordare i Galli, che per quasi un anno calpestarono da padroni le ceneri dell’Urbe abbattuta e incendiata. E perché nessuno potesse dubitare che tanto scempio era stato consentito ai nemici al solo scopo di correggere la città superba, lasciva, blasfema, nello stesso tempo furono abbattuti dai fulmini i luoghi più illustri dell’Urbe che i nemici non erano riusciti ad incendiare.»

Orosio giunge addirittura ad affermare che, per quanto il ricordo di quell'evento fosse ancora recente, se qualcuno avesse interrogato i cittadini romani, avrebbe pensato che non fosse accaduto nulla, e l'unica testimonianza del sacco sarebbero rimaste le poche rovine ancora esistenti.[11]

Storici della Tarda Antichità[modifica | modifica wikitesto]

Olimpiodoro[modifica | modifica wikitesto]

Lo storico greco Olimpiodoro († dopo il 425), che nella sua Storia narra in dettaglio il periodo compreso tra il 407 e l'ascesa al trono di Valentiniano III nel 425, è la principale fonte di numerosi autori greci classici che scrivono sulla parte occidentale dell'Impero in questo momento. L'opera è conservata solo in un riassunto contenuto nella Biblioteca di Fozio, dove, tuttavia, gli eventi che riguardano il sacco di Roma, però, vengono trattati nelle loro caratteristiche essenziali:

«3. Alarico, re de' Goti, che Stilicone avea dianzi chiamato perché stesse alla difesa dell'Illirico, provincia da Teodosio assegnata nella divisione dell'imperio ad Onorio, sia per la morte data a Stilicone, sia per non esserglisi attenuto quanto gli era stato promesso, assediò e prese Roma, e portò via da quella città una incredibile quantità di danaro; e Placidia stessa, sorella di Onorio, che stava allora in Roma, condusse seco prigioniera.
4. In quell'assedio di Roma gli abitanti furono ridotti a mangiarsi l'un l'altro.»

Filostorgio[modifica | modifica wikitesto]

La Storia Ecclesiastica di Filostorgio († dopo il 433), ariano come i Goti di Alarico, come Olimpiodoro, è sopravvissuta solo in una Epitome redatta dal patriarca di Costantinopoli Fozio. È controverso se Filostorgio abbia fatto uso di Olimpiodoro come fonte oppure no, in quanto si discosta da lui per la narrazione di alcuni avvenimenti: per esempio, a differenza di Olimpiodoro, Filostorgio è ostile nei confronti di Stilicone, accusandolo di aver aperto ad Alarico la strada per l'invasione dell'Italia, e Saro gioca un ruolo più importante rispetto all'opera di Olimpiodoro.

«2. Intorno allo stesso periodo Alarico, di discendenza gota, avendo raccolto un esercito nelle parti superiori della Tracia, sferrò un'incursione in Acaia ed espugnò Atene; devastò inoltre le regioni della Macedonia, e la Dalmazia. Per di più, sferrò un'incursione in Illirico e attraversò le Alpi, devastando il Nord Italia. Secondo Filostorgio, fu qui chiamato da Stilicone, che al tempo era ancora vivo, e che gli aveva aperto i passi delle Alpi. [...]

3. Spentosi Stilicone, [...] i barbari che erano con lui [...], in seguito all'esecuzione di Eucherio, [...] si unirono ad Alarico, e lo sobillarono ad assediare la città di Roma. [...] Alarico ritornò a Ravenna, e avendo offerto di trattare con Onorio, fu respinto da Saro, che affermava che un uomo che avrebbe dovuto già da lungo tempo pagare la pena per la sua audacia, era indegno di essere riconosciuto tra gli amici. Alarico, arrabbiato da tale discorso, a un anno di distanza dal suo primo attacco al porto della città di Roma, marciò di nuovo verso Roma, in qualità di nemico [...]. Ma il fuoco dei barbari, e la spada del nemico, e la prigionia della popolazione fecero a pezzi la sua grandezza e la fama della sua potenza. Mentre la città di Roma giaceva in rovina, Alarico devastò la Campania, e perì di un malanno che lo colse in quei dintorni.»

Filostorgio sottolineò le responsabilità di Onorio e rinunciò, a differenza di Orosio e degli storici ecclesiastici Socrate Scolastico e Sozomeno, di sdrammatizzare il sacco di Roma da Alarico in qualsiasi forma, descrivendolo come un evento catastrofico.[12]

Socrate[modifica | modifica wikitesto]

La Storia Ecclesiastica di Socrate Scolastico († 440) si sofferma solo brevemente sul sacco di Roma. La collaborazione iniziale di Alarico con i romani è nota a Socrate, che infatti cita la sua partecipazione alla guerra contro l'usurpatore Eugenio, ma non la sua origine:

«Intorno a questo periodo, accadde che Roma fu espugnata dai Barbari; infatti, un certo Alarico, un barbaro che era stato alleato dei Romani, e che aveva servito come alleato dell'Imperatore Teodosio nella guerra contro l'usurpatore Eugenio, essendo per la sua collaborazione stato onorato con dignità romane, [...] ritirandosi da Costantinopoli, arrivò alle parti occidentali, e giunto in Illirico devastò immediatamente l'intera nazione. Durante la marcia, tuttavia, gli abitanti della Tessaglia gli si opposero alle foci del fiume Peneo, [...] uccidendo all'incirca tremila dei suoi uomini. Dopo ciò i Barbari che erano con lui devastarono tutto nella loro avanzata, giungendo infine ad espugnare la stessa Roma[...].»

Socrate Scolastico non sembra molto informato sul contesto storico del sacco stesso, e la sua narrazione comprende errori e omissioni. Stilicone, Onorio o Galla Placidia non sono menzionati, mentre l'usurpazione di Prisco Attalo viene collocata erroneamente dopo il sacco, mentre invece Olimpiodoro, Zosimo, Filostorgio e Sozomeno, meglio informati di Socrate, lo collocano prima del Sacco. Socrate descrive il sacco in modo drammatico, evidenziando le devastazioni e i saccheggi dei Goti:

«Dopo ciò i Barbari che erano con lui devastarono tutto nella loro avanzata, giungendo infine ad espugnare la stessa Roma, che essi saccheggiarono, incendiando il più grande numero di splendidi edifici e altre ammirevoli opere d'arte che essa conteneva. Il denaro e gli oggetti di valore che essi avevano saccheggiato se li spartirono tra loro. Molti dei principali senatori furono giustiziati con pretesti vari.»

Comunque il resoconto di Socrate non è privo di imprecisioni: per esempio, sostiene erroneamente che dopo o durante il saccheggio, Alarico proclamò Attalo imperatore, mentre in realtà ciò era avvenuto prima, e appare poco credibile, secondo diversi storici tra cui Gibbon[13], la sua affermazione secondo cui Alarico avrebbe abbandonato Roma perché «gli giunse la notizia che l'Imperatore Teodosio aveva inviato un esercito per combatterlo. E non era questa notizia falsa; perché le forze imperiali erano realmente in marcia; ma Alarico, non attendendo che la notizia divenisse realtà, levò gli accampamenti e scappò».[14] Infatti la notizia, fornita da Socrate, che l'Imperatore d'Oriente Teodosio II avrebbe inviato un esercito contro Alarico, non è confermata da altre fonti.

Il capitolo si conclude con un aneddoto:

«Si narra che, mentre [Alarico] avanzava verso Roma, un pio monaco lo esortò a non perpetuare tali atrocità, e di non più godere nel massacro e nel sangue. A costui Alarico rispose, 'Non sto seguendo questo percorso per mia volontà; ma c'è qualcosa che irresistibilmente mi spinge ogni giorno a proseguire per questa via, dicendo, 'Procedi a Roma, e devasta quella città.'»

Sozomeno[modifica | modifica wikitesto]

La storia ecclesiastica di Sozomeno († 450), che copre il periodo 324-439 e che tra le sue fonti ha fatto anche uso di Socrate, è più dettagliata rispetto all'opera del suo predecessore Socrate per quanto riguarda la descrizione del sacco di Roma. Sozomeno, che probabilmente aveva letto l'opera di Olimpiodoro, si mostra molto ben informato su Stilicone e sulle circostanze della sua morte nonché sugli avvenimenti immediatamente precedenti al sacco. Le analogie con la versione dei fatti narrata da Zosimo e dall'epitome di Olimpiodoro redatta da Fozio fa supporre gli studiosi che Sozomeno possa aver utilizzato, al pari di Zosimo, l'opera storica di Olimpiodoro come fonte. Sozomeno sostiene che i senatori pagani compirono riti pagani alle antiche divinità durante il primo assedio di Roma (fatto confermato anche da Zosimo, il quale tuttavia, sostiene che fu fatta solo la proposta, ma alla fine tali riti non furono effettuati).

Il resoconto del sacco in Sozomeno è molto meno drammatico rispetto a Socrate. Sozomeno mette in evidenza la pietà cristiana dei Goti che risparmiarono la Basilica di San Pietro e si astennero dal compiere massacri nelle chiese cristiane, permettendo così a tutti i cittadini che fossero riusciti a rifugiarsi nelle chiese di aver salva la vita:

«[Alarico] Permise a ognuno dei suoi seguaci di impadronirsi di quante più ricchezze dei Romani possibili, e di saccheggiare tutte le case; ma, a causa del rispetto nei confronti dell'Apostolo Pietro, comandò che la grande chiesa molto spaziosa [la basilica di San Pietro] fosse considerata come luogo di asilo. Questa fu l'unica causa che prevenne la completa demolizione di Roma; e coloro che riuscirono a salvarsi, ed erano molti, ricostruirono la città.»

Sozomeno narra anche del racconto edificante di una romana pia, le cui virtù avevano colpito così tanto un giovane goto che egli decise di non violentarla.[15]

Procopio[modifica | modifica wikitesto]

A circa un secolo di distanza da Sozomeno, lo storico greco Procopio di Cesarea († intorno al 562) scrisse la storia delle guerre di Giustiniano, in cui ha trattato anche il sacco di Roma di Alarico. Procopio riferisce due versioni discordanti di come il re visigoto espugnò Roma. Secondo la prima versione, Alarico avrebbe regalato come schiavi al senato romano trecento giovani facendo finta di levare l'assedio; successivamente però quei trecento schiavi goti avrebbero poi aperto a tradimento la porta Salaria, permettendo all'esercito di Alarico, che era rimasto a poca distanza dall'Urbe, di farvi ingresso e saccheggiarla:

«Ora riferirò come Alarico espugnò Roma. Dopo che aveva trascorso parecchio tempo nell'assedio, e non essendo riuscito ad espugnarla nè con la forza nè con altro mezzo, pianificò il seguente piano. Tra i giovani sbarbati dell'esercito gotico, [...] ne scelse trecento tra quelli che sapeva essere di buona nascita e di valore al di là della loro giovane età, e riferì loro in segreto che stava per regalarli ad alcuni dei patrizi di Roma, fingendo che essi fossero schiavi. E diede loro l'ordine di, una volta entrati dentro le case di tali uomini, mostrare molta gentilezza e moderazione e servirli loro con la massima diligenza a ogni incarico ordinato dai loro padroni; e, ordinò loro, a un fissato giorno intorno a mezzogiorno, quando i loro padroni si sarebbero probabilmente addormentati dopo il pranzo, di recarsi alla porta Salaria e con un assalto improvviso uccidere le guardie, non a conoscenza del piano, e aprire le porte il più velocemente possibile. Dopo aver dato questi ordini ai giovani, Alarico inviò immediatamente ambasciatori ai membri del senato, affermando che li ammirava per la loro fedeltà nei confronti dell'Imperatore, e che non avrebbe più recato loro danno, a causa del loro valore e della loro fedeltà, [...] desiderava regalare a ognuno di loro alcuni servi. Dopo aver fatto questa dichiarazione e inviato i giovani non molto tempo dopo, comandò ai barbari di iniziare i preparativi per la partenza, e lo fece sapere ai Romani. Essi ricevettero le sue parole con felicità, e nel ricevere i doni cominciarono ad essere eccessivamente felici, essendo essi completamente ignari del piano del barbaro. Infatti i giovani, essendo inusualmente obbedienti ai loro padroni, evitarono ogni sospetto, e nell'accampamento alcuni di essi si stavano già muovendo dalle loro posizioni e riprendere l'assedio, mentre gli altri erano sul punto di fare la medesima cosa. Quando giunse il giorno prestabilito, Alarico armò la sua completa forza per l'attacco e si appostò nei pressi della Porta Salaria, dove si era già accampato agli inizi dell'assedio. E tutti i giovani al tempo del giorno prestabilito raggiunsero questa porta e, assalendo improvvisamente le guardie, le uccisero; poi aprirono le porte e fecero entrare Alarico e il suo esercito nella città.»

Procopio riferisce una seconda versione dei fatti discordante con la prima, secondo la quale sarebbe stata Proba, donna di rango senatoriale appartenente alla famiglia degli Anicii, a far aprire le porte ad Alarico:

«Ma alcuni riferiscono che Roma non fu espugnata in questo modo da Alarico, ma che Proba, una donna di eminenza molto inusuale in ricchezza e in fama nella classe senatoriale romana, provò pietà per i Romani che stavano per essere annientati dalla fame e dalle altre sofferenze che stavano sopportando; essi già stavano per mangiarsi l'uno con l'altro; e, vedendo che non era rimasta loro nessuna speranza, poiché sia il fiume che il porto erano bloccati dal nemico, comandò ai suoi domestici, essi asseriscono, di aprire di notte le porte.»

Entrambe le versioni riferite da Procopio sono ritenute di dubbia attendibilità degli studiosi.[16] La prima, oltre a ricordare eccessivamente la trovata del cavallo di Troia, è sconfessata dalla testimonianza di personalità coeve al sacco come Girolamo, che asserisce che la città fu espugnata di notte (mentre Procopio asserisce che l'apertura a tradimento delle porte avvenne a mezzogiorno). Invece, la seconda versione dei fatti, a prima vista maggiormente attendibile, è possibile che sia stata diffusa ad arte da un sostenitore di Attalo, nel tentativo di diffamare la famiglia degli Anicii, a cui Proba apparteneva, rea di essersi opposta all'ascesa al potere di Attalo.[16]

Per quanto riguarda la descrizione del sacco, Procopio riferisce:

«Essi diedero fuoco alle case prossime alla porta, tra le quali spiccava la casa di Sallustio, che in tempi antichi scrisse la storia dei Romani, e la maggior parte di questa casa era ancora semibruciata al mio tempo; e dopo aver saccheggiato l'intera città e annientato la maggior parte dei Romani, essi se ne andarono.»

L'Imperatore Onorio già aveva incontrato poca simpatia negli storici precedenti, e Procopio racconta di lui un aneddoto che lo mette in ridicolo:

«Si narra che a quel tempo l'Imperatore Onorio ricevette un messaggio da uno degli eunuchi [...] che Roma era perita. Ed egli chiese, "Ma se ha appena mangiato dalle mie mani!" Infatti aveva una gallina di nome Roma; e l'eunuco, comprendendo le sue parole, specificò che era la città di Roma che era perita per mano di Alarico, e l'Imperatore in segno di sollievo rispose immediatamente: "E io che avevo capito che era perita la mia gallina Roma". Così grande era la stoltezza, essi riferiscono, posseduta da questo Imperatore.»

Giordane[modifica | modifica wikitesto]

Lo storico goto Giordane († dopo il 552) redasse, quasi in contemporanea all'opera di Procopio, la sua Getica, una sorta di epitome della storia gotica (andata perduta) di Cassiodoro. Alarico viene descritto da Giordane come un giovane nobile, appartenente alla gloriosa famiglia dei Balti, "seconda in nobiltà solo a quella degli Amali" (gli Amali era la famiglia reale degli Ostrogoti, che Giordane, essendo appunto ostrogoto, intendeva decantare).[17] La sua invasione viene giustificata da Giordane con il fatto che "dopo che Teodosio, l'amante della pace e della razza gotica, era deceduto, i suoi figli cominciarono a rovinare entrambi gli Imperi con la loro dissolutezza e privando i loro alleati, ovvero i Goti, dei doni che essi ricevevano".[17]

Giordane, nella sua opera, descrive tuttavia la carriera di Alarico in modo molto impreciso e grossolano. Scrive che invase l'Italia nel consolato di Stilicone e Aureliano (anno 400), errore commesso anche da Prospero e Cassiodoro, mentre è più probabile l'anno successivo. Il resoconto inattendibile di Giordane continua asserendo che Alarico, raggiunto il fiume Candidiano a poca distanza da Ravenna, inviò un'ambasceria all'Imperatore Onorio: quest'ultimo decise di trattare con i Goti di Alarico, decidendo di inviarli in Gallia affinché combattessero con i Vandali di Genserico, che avevano invaso la Gallia e la Spagna; tale decisione sarebbe stata ratificata da un rescritto imperiale e i Goti, accettando l'accordo, si sarebbero incamminati per la Gallia.[18] Durante la loro marcia sarebbero stati tuttavia attaccati proditoriamente a Pollenzo dall'esercito romano condotto da Stilicone; i Goti sarebbero usciti vincitori dallo scontro, ma, furiosi per il tradimento, avrebbero devastato Liguria, Emilia, e altre province, fino a saccheggiare la stessa Roma.[19]

Il resoconto di Giordane appare altamente inattendibile: la battaglia di Pollenzo avvenne nella Pasqua 402, mentre il Sacco di Roma avvenne nel 410, ma Giordane descrive il Sacco di Roma come immediatamente successivo a tale battaglia; la battaglia di Pollenzo inoltre fu vinta dai Romani e non dai Goti stando a Prospero e Claudiano, contrariamente a quanto afferma Giordane; Giordane inoltre scrive che poco prima della battaglia di Pollenzo (quindi intorno al 402) i Goti stavano marciando in Gallia per combattere per conto di Roma i Vandali di Genserico che avevano invaso Gallia e Spagna, tuttavia la battaglia di Pollenzo avvenne nel 402, mentre i Vandali invasero la Gallia solo nel 406, e Genserico salì sul trono dei Vandali solo nel 428.

Per quanto riguarda il sacco di Roma, Giordane scrive:

«Quando entrarono infine a Roma, per espresso comando di Alarico la saccheggiarono meramente e non diedero fuoco alla città, come i popoli selvaggi in genere fanno, nè permisero che venisse compiuto un danno serio ai luoghi sacri.»

Giordane sembra tuttavia aver sdoppiato il sacco in due sacchi, inventandosi un secondo sacco dell'Urbe che a suo dire sarebbe stato compiuto da Ataulfo nel 411:

«Quando Ataulfo divenne re, fece di nuovo ritorno a Roma, e qualunque cosa fosse stata risparmiata dal primo sacco fu spogliata dai Goti come locuste, non solo spogliando l'Italia della sua ricchezza privata, ma persino delle proprie risorse pubbliche.»

Poiché tutti gli autori coevi tacciono su questo presunto secondo sacco compiuto ad un anno di distanza del precedente, e considerando che se fosse veramente accaduto ne avrebbero fatto certo menzione, la storiografia moderna ritiene questo secondo sacco un'invenzione di Giordane.

Autori medievali[modifica | modifica wikitesto]

Isidoro di Siviglia[modifica | modifica wikitesto]

Anche Isidoro di Siviglia (a destra), autore del VII secolo, trattò il sacco di Roma.

Duecento anni dopo Orosio, un altro spagnolo, il vescovo Isidoro di Siviglia († 636), descrisse il sacco di Roma. La Spagna era governata al tempo dai re visigoti che risiedevano a Toledo e che a partire dalla fine del VI secolo si erano convertiti al Cattolicesimo. Nella Storia dei Goti, Vandali e Svevi di Isidoro, Alarico viene descritto come "un cristiano, seppur eretico", che saccheggiò Roma per vendicarsi per la sconfitta di Radagaiso contro Stilicone; per gli altri particolari, Isidoro usò come fonte Orosio.[20]

Storici greci[modifica | modifica wikitesto]

Menzionano il sacco di Roma anche diversi storici bizantini, tra cui Teofane Confessore († 817/818), Giorgio Cedreno († dopo il 1057) e Giovanni Zonara ( † dopo 1118). Essi in genere hanno tratto le notizie del sacco o da Procopio o dal cronista a lui coevo ma molto meno informato Giovanni Malala († 570), il quale sosteneva erroneamente che Alarico sarebbe stato un generale di Onorio proveniente dalla Gallia che avrebbe saccheggiato Roma per conto dell'imperatore, adirato nei confronti del senato e del popolo romano:

«Sotto il suo regno avvenne una grande rivolta del circo a Roma, e in preda alla collera Onorio se ne andò a Ravenna. Mandò dunque a chiamare il comandante Alarico dalle Gallie e lo inviò con un esercito a saccheggiare Roma. Al suo arrivo in città, Alarico si presentò alla città e ai senatori avversari di Onorio, e non danneggiò i luoghi della città, ma marciando contro il palazzo si impadronì di tutte le ricchezze del palazzo, della sorella di Onorio da parte di padre, Placidia, che era una fanciulla giovane. E di nuovo se ne tornò nelle Gallie a regnare.»

Giovanni Malala appare assai poco informato sul regno di Onorio e distorce di parecchio gli avvenimenti: dopo aver reso Alarico un generale romano vero e proprio tacendo invece sul fatto che fosse soprattutto il re dei Visigoti, scrive che Costanzo sarebbe stato un comes commilitone di Alarico, a cui era stata affidata la custodia di Placidia, il quale, invaghitosi da lei, l'avrebbe rapita fuggendo da Alarico e la avrebbe riconsegnata a Onorio, che lo premiò permettendogli di sposare Placidia e associandolo al trono. Costanzo, in realtà, era un generale romano che ebbe sì un ruolo effettivo nel liberare Galla Placidia dai Goti e che effettivamente la sposò, ma non fu mai al servizio di Alarico. Malala, dopo aver accennato agli usurpatori rivoltatosi contro Onorio e sconfitti da Costanzo, si inventa poi la frottola che Onorio, dopo aver incoronato Costanzo III a Roma, si sarebbe recato a Costantinopoli per regnare congiuntamente in Oriente con Teodosio II, cosa assolutamente falsa (semmai Costanzo III e Onorio regnarono congiuntamente sull'Occidente). Un altro errore grossolano è che Giovanni avrebbe usurpato il trono in Occidente quando ancora Onorio era in vita, e che Onorio, informato di tale usurpazione, si ammalò e perì di idropsia. In realtà, pur essendo Onorio deceduto di idropsia e pur avendo Giovanni usurpato il trono d'Occidente, tutto ciò avvenne dopo il decesso di Onorio.

Teofane Confessore riportò la versione di Giovanni Malala del sacco, quella fondamentalmente errata. Invece Giorgio Cedreno si basò sul resoconto di Procopio, aggiungendoci una riflessione personale sul declino dell'Impero, arricchita dall'aneddoto tramandato da Appiano di Scipione che, contemplando la rovina di Cartagine, profetizzò in lacrime la futura rovina di Roma:

«Roma fu presa da Alarico il goto, capo dei Vandali, città tanto grande, tanto antica, celebre in tutto il mondo, che era scampata a questa sorte per così dire per un tempo infinito: erano trascorsi infatti 1160 anni, nei quali aveva sperimentato nemici molto più grandi. Ora era stata presa, secondo il suo destino, a causa della ingenuità dei governanti, se almeno è possibile dire qualcosa nei riguardi di questo avvenimento. Altri raccontano che Scipione detto l’Africano, quando distrusse le mura di Cartagine, piangendo pronunciò per Roma quel famoso verso: “Giorno verrà in cui la sacra Ilio sarà distrutta”. Questo invero fu portato a compimento; e quella città che tanto grande era stata per la sua potenza, e che tanto aveva prosperato, e per così dire aveva reso schiava l’intera ecumene, fu conquistata una volta per tutte. Fu presa il 26 del mese di agosto, indizione nona, nell’anno 5965 dalla creazione del cosmo.»

Da notare che Cedreno chiami erroneamente Alarico "re dei Vandali" e che ponga il giorno del sacco il 26 agosto invece del 24 agosto. Un altro errore che commette Cedreno è che per 1160 anni Roma era stata inespugnata: in realtà tra il 390 a.C. (sacco dei Galli Senoni di Brenno) e il 410 d.C. (sacco dei Goti di Alarico) passarono solo novecento anni. Inoltre non fu Scipione l'Africano a distruggere Cartagine ma fu Scipione Emiliano (anche se l'aneddoto, riferito a Scipione Emiliano, è veritiero, tramandato da Polibio e Appiano). Nel seguito Cedreno riferisce la storia della gallina riprendendola da Procopio.

Zonara riportò nella sua Epitome delle storie entrambe le versioni (sia quella di Procopio che quella di Giovanni Malala).

Ottone di Frisinga[modifica | modifica wikitesto]

Anche il vescovo Ottone di Frisinga († 1158), zio dell'Imperatore del Sacro Romano Impero Federico Barbarossa, trattò del sacco di Roma del 410, basandosi principalmente sui resoconti di Orosio e Giordane. Tuttavia, datò erroneamente il sacco al 415, facendo perpetrare a Stilicone (che però nel 415 era già defunto) l'attacco decisivo contro le truppe di Alarico. La conquista della città da parte dei Goti era considerato da Ottone, che paragonava Roma con Babilonia, come l'inizio della fine dell'impero romano: Roma, dapprima disonorata da Alarico, venne poi privata del proprio stato da Odoacre.[21]

Flavio Biondo[modifica | modifica wikitesto]

All'inizio del Rinascimento, l'umanista Flavio Biondo (1392-1463) diede grande importanza al sacco di Roma, che pose all'inizio della sua storia d'Italia. Come Ottone di Frisinga trecento anni prima, Biondo considerava il sacco di Roma compiuto da Alarico come l'inizio del declino dell'Impero Romano.

Note[modifica | modifica wikitesto]

  1. ^ Girolamo, lettere 123,16,4
  2. ^ Girolamo, lettere 127,12.
  3. ^ Girolamo, Epistola 126.
  4. ^ a b Ravegnani, p. 79.
  5. ^ Girolamo, Epistola 128.
  6. ^ Agostino, De Civitate Dei, II,3.
  7. ^ Heather, pp. 284-285.
  8. ^ Heather, pp. 286-287.
  9. ^ Due interpretazioni opposte del saccheggio di Roma.
  10. ^ Fonti per lo studio della storia medievale. Archiviato il 22 agosto 2016 in Internet Archive.
  11. ^ a b Orosio, VII,39.
  12. ^ Filostorgio, XII,2-3.
  13. ^ Edward Gibbon, Storia della decadenza e rovina dell'Impero romano, Capitolo 31.
  14. ^ Socrate Scolastico, VII,10.
  15. ^ Sozomeno, Storia Ecclesiastica, IX,10.
  16. ^ a b Ravegnani, p. 73.
  17. ^ a b Giordane, 146.
  18. ^ Giordane, 152-153.
  19. ^ Giordane, 154-155.
  20. ^ Chronica minora , Volume 2, p. 273-275.
  21. ^ Ottone di Frisinga, Cronaca 4.21.

Bibliografia[modifica | modifica wikitesto]