Balaustium murorum

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Balaustium murorum
Classificazione scientifica
DominioEukaryota
RegnoAnimalia
SottoregnoEumetazoa
PhylumArthropoda
SubphylumChelicerata
ClasseArachnida
SuperordineAcariformes
OrdineTrombidiformes
SottordineProstigmata
SuperfamigliaErythraeoidea
FamigliaErythraeidae
SottofamigliaBalaustiinae
GenereBalaustium
SpecieB. murorum
Nomenclatura binomiale
Balaustium murorum
(Hermann, 1804)
Nomi comuni

Ragnetto rosso

Balaustium murorum (Hermann, 1804) è un aracnide appartenente alla sottoclasse degli acari, all'ordine dei trombidiformi e alla famiglia degli Erythraeidae[1][2]; in italiano è detto comunemente ragnetto rosso dei muri, sebbene non sia un ragno.

Descrizione[modifica | modifica wikitesto]

È una specie predatrice, che si nutre di larve di altre specie dannose per gli alberi, come quelle di Zeiraphera diniana[2][3] e di Halotydeus destructor[4], nonché di escrementi di uccello[2]. Si muove velocemente e in maniera disordinata[5]. Il colore rosso, dovuto ad un'emolinfa ricca di carotenoidi, è un aposematismo che serve per avvisare i predatori che l'acaro non è buono da mangiare[2].

Appare sull'esterno e anche all'interno degli edifici in primavera e autunno, ritirandosi d'estate per evitare il troppo caldo ed entrando in letargo d'inverno[2][5]; depone le proprie uova all'interno di crepe nei muri e nel suolo[5].

È innocuo per l'uomo[2][5], salvo per persone che gli sono allergiche a cui il contatto potrebbe causare dermatiti[2]. Viene spesso confuso con altre specie d'aspetto simile, come Bryobia[5], Tetranychus urticae e Trombidium holosericeum[2]; a causa della confusione con le prime due specie, che sono parassiti della vegetazione, viene talvolta riportato che Balaustium murorum e Trombidium holosericeum sarebbero dannosi per le piante, tuttavia ciò è falso[2].

Note[modifica | modifica wikitesto]

  1. ^ (SV) Art: Balaustium murorum, su Dyntaxa. URL consultato il 20 maggio 2015.
  2. ^ a b c d e f g h i Alessandro Mattedi, Acari ricaricabili: i “ragnetti rossi” dei muri, su Italia Unita per la Scienza, 22 maggio 2015. URL consultato il 25 aprile 2017 (archiviato dall'url originale il 13 maggio 2017).
  3. ^ Gerson et al., p. 128.
  4. ^ Hoy, pp. 141, 142.
  5. ^ a b c d e Cornwell, p. 32.

Bibliografia[modifica | modifica wikitesto]

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