Nunzio Tamburrini: differenze tra le versioni

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Nunziato Antonio Tamburrini, detto Nunzio (Roccaraso, 24 marzo 1828 - Porto Longone, 23 giugno 1874) è stato un brigante italiano. Operava soprattutto tra le montagne abruzzesi. Esponente del movimento filoborbonico post-unitario, noto per la sua astuzia, fu responsabile di uno degli episodi più cruenti del brigantaggio abruzzese, l'eccidio di Lagovivo in cui persero la vita dieci persone, e di una delle poche battaglie campali condotte da briganti, a Valle Sant'Angelo. La fotografia scattata al momento della sua cattura, che lo ritrae in manette con sguardo fiero rivolto verso l'obiettivo, è una delle più note dell'epopea brigantesca. È tuttora protagonista di leggende popolari diffuse nelle aree rurali appenniniche.

Biografia

Le origini e l’inizio dell’attività di brigantaggio.

Pastore delle montagne della Marsica, in Abruzzo, nacque a Roccaraso, all'epoca parte del Regno delle Due Sicilie, da Luigi e Giovanna Valentini. Poco si conosce della sua infanzia e della prima giovinezza. Stupisce che, nonostante l'umilissima origine, sapesse leggere e scrivere e fosse dotato di una certa cultura, tanto da portare sempre con sé una borsa contenente “carta, penna e calamaio”1. Dall'atto di morte risulta “ammogliato e con prole”.

Prime notizie certe sono la sua partecipazione ai moti filoborbonici scoppiati a Roccaraso nel settembre del 1860, immediatamente dopo l’annuncio dell’ingresso di Garibaldi a Napoli, capitale del Regno delle Due Sicilie. Gli insorti disarmano la neocostituita Guardia Nazionale, corpo volontario che aveva giurato fedeltà al nuovo regime liberale. La sommossa viene repressa dopo quattro giorni dall'intervento di truppe garibaldine. Tamburrini si da alla macchia nascondendo alcune delle armi sottratte.2 Ripara a Roma prendendo contatti con esponenti del movimento borbonico, esuli nella capitale pontificia al seguito di Francesco II .

Il capobanda e il primo omicidio

Nella primavera del 1861 Tamburrini ripassa il confine verso l'Abruzzo ponendosi al comando di una prima banda di una decina di elementi, tra i quali il suo concittadino Croce Di Tola e alcuni soldati borbonici calabresi sbandati.3 Elegge a quartier generale il Bosco Paradiso in Comune di Rocca Pia (AQ), luogo all'epoca inaccessibile e dominante sulle montagne dell'Aquilano. Inizialmente il raggio d’azione della banda è piuttosto ristretto, interessando i circondari di Sulmona e Avezzano e alcuni boschi del Chietino. I reati si limitano al furto e all’uccisione di capi di bestiame e all’estorsione di non rilevanti somme di denaro, richieste con biglietti di ricatto.4 Con l’inverno la banda si trasferisce oltre gli Appennini, nel Lazio Pontificio. Quest'uso rimarrà una costante nelle azioni di Nunzio Tamburrini.5

L’anno successivo la banda affina le proprie tecniche. Colpisce le vie di comunicazione, collabora con altri gruppi e ricorre a travestimenti. Secondo l’interrogatorio cui fu sottoposto il brigante Vincenzo Restucci, della banda Chiavone, Tamburrini e i suoi si sarebbero presentati a un incontro con quest’ultimo indossando divise della Guardia Nazionale.6 Ciò conferma le responsabilità della banda Tamburrini nel delitto Mattucci. Le divise erano infatti state sottratte a un negoziante di Atri, Antonio Mattucci, assalito nel pomeriggio del 23 maggio 1862 quando, di ritorno da Napoli, con un carico di divise, attraversava il Piano delle Cinquemiglia, altopiano carsico a 1250 metri d’altezza. Mattucci, infatti, dopo essere stato derubato anche delle cavalcature, non viene lasciato andare, come d’uso, ma trascinato in un bosco vicino e ucciso. L’omicidio sarebbe stato un atto di ostilità politica in vista delle note opinioni liberali del Mattucci e del suo adoperarsi a servizio della Guardia Nazionale.7 Al termine dell’estate Tamburrini scioglie la banda e ripara a Roma, pare portando con sé l’enorme somma di trentamila ducati.8

Il ruolo nel movimento filoborbonico.

“Dotato di intelligenza non comune e capacità di azione, oltre che di un propria cultura” (F. Cercone) a Roma Tamburrini, pur essendo un umile pastore, assume “un ruolo di prestigio tra gli elementi più famosi del movimento legittimista”.9 Ne sono prova l’interesse dei servizi segreti del giovane Regno d’Italia ai movimenti del brigante abruzzese. In uno dei rapporti inviati da Giuseppe Checchetelli, capo del Comitato Romano filo-italiano, lamentava la complice inerzia del governo pontificio e dei suoi alleati francesi che stava favorendo “afflusso di uomini alla banda di Tamburrini”.10 Un altro allarmato rapporto, inviato dal console piemontese a Roma Teccio di Bajo al ministro degli esteri torinese Giuseppe Pasolini, riferisce che, a seguito di una perquisizione, le guardie pontificie nel gennaio 1863 hanno trovato indosso a Tamburrini la ragguardevole somma di ottomila ducati. Secondo le stesse dichiarazioni del brigante servivano alla causa borbonica. Peraltro i papalini lo avrebbero rilasciato a seguito della consegna di una parte del denaro, a titolo di vera e propria tangente. In ogni caso erano tutti segnali della costituzione di una delle più grosse bande legittimiste.

La battaglia di Valle Sant’Angelo.

All’inizio del 1863 “particolare preoccupazione davano agli italiani i preparativi dei capibanda Tamburrini e Stramenga” i cui uomini erano stati passati in rassegna dal generale spagnolo filo borbonico Rafael Tristany.11 Agli ordini dei due capibanda entrarono in Abruzzo oltre 300 armati.12 Dopo un primo scontro, in prossimità della frontiera, con un battaglione del 60° Reggimento di Fanteria, le milizie neoborboniche occupano Fano Adriano, nel Teramano. Vengono infine sbaragliate il 2 maggio 1863 a Valle Sant’Angelo, ai piedi del Gran Sasso, in una delle rarissime battaglie campali nella storia del brigantaggio. Se Stramenga ripara in territorio pontificio, Nunzio Tamburrini riesce a eludere i soldati italiana dirigendosi verso le montagne dell’Alto Sangro con non un pugno di fedelissimi. Certa è la presenza di Croce Di Tola, Ermenegildo Bucci, Aureliano Giancola e Nunzio Di Cristoforo, tutti originari di Roccaraso come Tamburrini).13 La banda si mantenne estorcendo viveri ai pastori e inviando biglietti di ricatto a latifondisti e proprietari di armenti.

Questi pizzini denotano un certo humor nero del loro autore, non solo per l’uso di spedirli all’interno di buste listate a lutto, quanto per alcune singolari richieste. In alcune occasioni si trattava di “dieci bottiglie di rum”, una “pezzotta di formaggio di marzo” e “dieci pacchetti dicavurro”, ovvero sigari di marca Cavour. Il loro autore va assumendo notorietà semileggendaria tra le popolazioni abruzzesi anche per i travestimenti da frate o da suonatore ambulante con i quali si introduce nelle città. Una volta avrebbe avuto il coraggio di andare a vendere forbici e coltelli ad alcuni sottufficiali piemontesi.14 Un tentativo di estorsione originò uno degli episodi più gravi nella storia del brigantaggio abruzzese.15

L'eccidio di Lagovivo.

Nel giugno 1863 Tamburrini spedisce tre diversi biglietti di ricatto a ciascuno dei fratelli Donato, Agostino ed Emilio Di Loreto, ricchi proprietari di bestiame residenti a Villetta Barrea, con le ragguardevoli richieste, rispettivamente, di 1ire 16.900, 4.250, 8.500. I fratelli decidono di non cedere, su iniziativa di Emilio, che organizza un gruppo della Guardia Nazionale per dare la caccia al brigante. Ne avevano però sottostimato le forze, ignorando che a Tamburrini si erano uniti circa 15 elementi della banda del brigante Domenico Fuoco. Nel tardo pomeriggio del 21 giugno 1863 le Guardie Nazionali capeggiate da Emilio Di Loreto (Matteo Di Loreto, Domenico e Donato Antonucci, Marcello Guaiani e Loreto De Vito) raggiungono uno stazio di pastori a Lagovivo, a 1600 metri d’altezza, e vi si acquartierano per la notte. Contano di sorprendere Tamburrini, che avrebbe dovuto passare di lì per raggiungere il luogo dove riscuotere il riscatto. In realtà il capobanda ha intuito qualcosa e invia alcuni uomini in avanscoperta.

Alle Guardie Nazionali si sono uniti alcuni pastori che si trovavano già nel luogo, in un’altra baracca rispetto al gruppo guidato da Di Loreto. Sono forse proprio i pastori ad aprire il fuoco sugli esploratori di Tamburrini, uccidendone uno. Tamburrini reagisce ordina ai suoi di dividersi in due parti. Mentre il gruppo più consistente impegna con un fuoco di copertura gli avversari, il secondo scala la parte posteriore di uno sperone alla cui base si trova la baracca dei militi della Guardia Nazionale. Giunti alla sommità, i briganti bersagliano la baracca con grossi massi. Una volta sfondato il tetto della capanna, i sei militi furono costretti a tentare la fuga allo scoperto, divenendo facile bersaglio per il fuoco dei briganti. A quel punto anche l’altra capanna, dove erano acquartierati i pastori, era circondata. Tamburrini promise loro la vita in cambio della resa, intimandogli di gettare le armi e uscire dalla capanna uno per volta. Quando i pastori uscirono, però, Tamburrini non mantenne la promessa trucidandone quattro, portando quindi a 10 l’ammontare delle vittime della strage. Ebbe salva la vita solo il pastore più giovane, affinché riferisse ciò che era avvenuto, per diffondere il terrore tra i proprietari di armenti. Davanti ai suoi occhi terrorizzati, Tamburrini avrebbe personalmente evirato l’agonizzante Emilio Di Loreto, ispiratore del tentativo di cattura del brigante. Tamburrini avrebbe definito “classe di traditori” le Guardie Nazionali e i pastori in quanto sudditi napoletani che si erano schierati con i piemontesi.16

La cattura e la morte.

La strage suscita enorme sdegno nell’opinione pubblica nazionale. Il 19 giugno 1864 una deliberazione della Provincia dell’Aquila definisce Tamburrini il peggior capobanda che infesti l’Abruzzo, insieme a Primiano Marcucci, ponendo sulla testa di entrambi la taglia di 4.250 lire.17 Viene diffuso un “documento di riconoscimento”, sorta di identikit ante litteram, a firma dell’assessore di Roccaraso Oreste Angelone, e trasmesso a tutte le Prefetture.18 Un tentativo di cattura, condotto con un infinito inseguimento in alta montagna, fallisce e costa la vita ad un Carabiniere di nome Grin, caduto nel corso di una sparatoria con i briganti.19 Nel frattempo le sorti del movimento neoborbonico apparivano ormai segnate. Tamburrini, ecclissatosi per lunghi mesi probabilmente nella Campagna Romana, ricompare a Civitavecchia, in territorio pontificio probabilmente con l’intenzione di imbarcarsi verso Barcellona o verso le Americhe. Anche lo Stato Pontificio, però, non può più tollerare la presenza di un massacratore e nel gennaio 1865 viene arrestato dai francesi sul molo della città portuale.20 Detenuto nel carcere di Civitavecchia, Tamburrini “contava su un appoggio della Chiesa”, sperando che ne favorisse la fuga. Invece alla fine dell’estate viene estradato nel Regno d’Italia. Durante la detenzione viene ritratto in due fotografie divenute iconiche dell’epopea brigantesca.21 Un processo a suo carico viene aperto l’11 settembre 1865 con 23 capi d’imputazione dalla Corte d’Assise dell’Aquila.22 Trasferito a Teramo, il procedimento si concluderà solo tre anni dopo, nel 1868, con la condanna a morte. Il 21 gennaio 1869, con Regio Decreto emesso su richiesta dello stesso ministro della giustizia Gennaro De Filippo, la sentenza viene commutata nei “lavori forzati a vita”. La condanna viene scontata nel penitenziario di Porto Longone, attuale Porto Azzurro, sull’isola d’Elba dove Tamburrini morirà nel 1874, all’età di 46 anni.23

Bibliografia essenziale.

Franco CERCONE, Briganti di Roccaraso nel periodo post-unitario, 1861-1871, Pescara: Ed. Multimedia, 1997

Franco CERCONE, Abruzzo terra di briganti, Torre dei Nolfi: Ed. Qualevita, 2006

  1. Dalla deposzione di un custode di mucche di Agnone. In Franco CERCONE, Briganti di Roccaraso nel periodo post-unitario, 1861-1871, Pescara: Ed. Multimedia, 1997, p. 27.

2Evandro RICCI, La Carboneria in Abruzzo e le vendite carbonare nei paesi della Diocesi di Valva e Sulmona, Sulmona: Ed. La Moderna, 1991, p. 56.

3Dalla deposizione resa da Croce di Tola al pretore di Scanno Raffaele Finamore il 30 luglio 1871. In: Archivio di Stato di Sulmona, Corte d’Assise, Brigantaggio, Busta III, Fasc. 26.

4Franco CERCONE, Abruzzo terra di briganti, Torre dei Nolfi: Ed. Qualevita, 2006, pag. 70.

5Uberto D’ANDREA, Il brigantaggio dopo l’Unità nell’Alta Valle del Sangro e nell’Alto Volturno (1860-1871), Casamari: Tipografia dell’Abbazia, 1992, p. 185., secondo cui sarebbe stato molto difficile trascorrere l'inverno sulle montagne abruzzesi, non solo per il freddo e la difficoltà negli approvvigionamenti, ma anche per la possibilità di essere individuati dai fuochi accesi nella notte o dalle tracce sulla neve.

6Franco CERCONE, Abruzzo terra di briganti …, op. cit., p. 86.

7 Monica STRONATI , Il governo della grazia: giustizia sovrana e ordine giuridico nell'esperienza italiana, 1848-1913, Milano: Giuffrè, 2009. pp. 482-493.

8 Franco MOLFESE, Storia del brigantaggio dopo l’Unità, Milano: Feltrinelli, 1974, (in riedizione West Indian, 2012), pp. 153-155.

9 Franco CERCONE, Abruzzo terra di briganti …, op. cit., p. 73

10 In: Aldo ALBONICO, La mobilitazione legittimista contro il Regno d'Italia: la Spagna e il brigantaggio meridionale postunitario, Milano: Giuffrè, 1979, pp. 201.

11 Franco MOLFESE, Storia del brigantaggio… , op.cit., p. 155.

12 Archivio Gamba, Biblioteca comunale di Bergamo, rapporto segreto del 24 marzo 1863.

13 Franco CERCONE, Abruzzo terra di briganti …, op. cit., p. 76.

14 Franco CERCONE, Briganti di Roccaraso…, op. cit., pp. 52-59

15 Uberto D’ANDREA, Memorie di storia ecclesiastica, civile e feudale di un Comune del Reame: Villetta Barrea, Roma: Gavignano, 1959, vol. II, pagg. 82 e seguenti.

16 Uberto D’ANDREA, Il brigantaggio dopo l’Unità..., op. cit., pp. 76 – 119.

17 Giovanni TODARO, Lupi e briganti, Lulu.com, 2011, p. 124.

18 Franco CERCONE, Abruzzo terra di briganti …, op. cit., pp. 7.

19 Monica STRONATI , Il governo della grazia.., op. cit., p. 493

20 Aldo ALBONICO, La mobilitazione legittimista…, op.cit., pp. 245 – 277.

21 AA.VV., Catalogo della mostra “Brigantaggio, lealismo, repressione nel Mezzogiorno 1860-1870”, Napoli, 1984, pp. 91-92.

22 Romano CANOSA, Storia del brigantaggio in Abruzzo dopo l’Unità, Ortona: Ed. Menabò, 2001, p. 179.

23 Franco CERCONE, Abruzzo terra di briganti …, op. cit., pp. 94 e ss.